Ci sono voluti decenni di sfruttamento, ma anche gli africani più portati a mitizzare gli stili di vita (o di produzione) degli invasori occidentali di turno (colonizzatori, schiavisti, multinazionali) stanno capendo che, spesso, le promesse che gli vengono fatte sono come quelle dei marinai. Molte di queste riguardano l’agricoltura, e più precisamente i grandi margini di guadagno che avrebbero permesso le monocolture, procedimenti produttivi con cui in vaste aree viene coltivata un’unica specie vegetale in modo intensivo e standardizzato, al fine di aumentare le rese ed ottenere il massimo profitto.
Al di là del fatto che i guadagni sono generalmente riservati non al contadino, ma alla corporation o alla catena di supermercati interessata ad acquistare il prodotto in questione, gli agricoltori di mezzo mondo si sono trovati, specie negli ultimi anni, a fare i conti con le oscillazioni dei prezzi alimentari sui mercati globali, spesso condizionate da fenomeni di mera speculazione o dall’uso di massicce dosi di prodotti agricoli per la produzione di biocarburanti. Per farla breve, milioni di persone sono diventate da contadini in grado di prodursi ciò di cui avevano bisogno per vivere ad una sorta di imprenditori incastrati in un limbo in cui, producendo una sola specie vegetale sottopagata, non guadagnano abbastanza per comprarsi il resto del cibo di cui hanno bisogno. Un bell’affare, no? È la dura legge della globalizzazione, a vantaggio di pochi e a scapito di interi popoli. Che, però, stanno iniziando a svegliarsi dall’incantesimo.
Fra coloro che hanno riscoperto l’importanza dell’auto-produzione, a partire da quella di cibo, c’ è un gruppo di giovani agricoltori di Palmarin Ngueth. Questi ragazzi, in sostanza, cercano di implementare l’attività agricola di sussistenza, legata soprattutto alla coltivazione di miglio, sorgo, arachidi e riso. Per farlo, questi giovani contadini stanno impiantando, nel villaggio rurale di Palmarin e con il supporto del Wwf, piccoli orti e frutteti. Obiettivi? Dare un minimo di opportunità redditizia a una parte dei loro terreni, e aumentare la varietà di prodotti per il fabbisogno nutritivo locale.
Questa nobile iniziativa coinvolge dieci giovani del posto (tutti contadini o ex pescatori) e dieci orti di proporzioni identiche, ricavati ai margini delle loro rispettive terre. Un primo orto è già stato avviato e servirà da test per monitorare la crescita e le eventuali problematiche legate alle piante. Per avviare gli altri, invece, servirà prima costruire delle recinzioni che impediscano alle mandrie al pascolo in quella zona (ma anche ai molti animali che girano in libertà, a partire da asini e capre) di mangiarsi ciò che vi cresce. Serviranno poi un pozzo e una pompa alimentata, ma con l’entusiasmo e l’orgoglio che ho visto in questi ragazzi, forti della maggiore indipendenza ottenuta grazie a questo progetto, sono sicuro che sarà solamente una questione di tempo, poco tempo, e anche quella arriverà.
Andrea Bertaglio
Fonte: GreenMe