La nostra società moderna e occidentale ha scisso l’unità in due compartimenti contrapposti, il che ha portato ad un profondo squilibrio culturale. Esso si manifesta non solo nel radicamento che permea le istituzioni, ma anche nei valori che ne stanno alla base, in quanto determinano la visione del mondo. I metodi scientifici che ne tralasciano la conoscenza non risultano più scientifici, ma meno. È come se operassero, invece che con gli occhi ben aperti, con uno bendato, sostenendo però la superiorità della loro visione, rispetto a quanti cercano invece di utilizzarli entrambi.
Così, il fine della scienza, non è più la comprensione dell’ordine naturale per poter vivere in accordo con esso, ma una conoscenza che possa essere usata per dominarlo, controllarlo e sfruttarlo.
Come si può sostenere a priori che un’indagine rigorosamente scientifica sia in qualche modo superiore ad una che cerca di integrare la logica cartesiana e meccanica con una visione olistica? “Olistico (dal greco: tutto) si riferisce ad una comprensione della realtà in funzione di totalità integrate le cui proprietà non possono essere ridotte alle unità minori” .
L’importanza accordata al pensiero razionale ha portato ad una frammentazione, non solo esteriore, visibile nel rapporto che l’uomo ha con il mondo, ma anche in rapporto all’individuo stesso. Non si tratta di individualità (tali in quanto inseparabili dal mondo di cui fanno parte)ma di corpi vuoti, senza contatto con l’unità di cui fanno parte.
Sulla base di questi valori e principi, la dualità si manifesta in ogni disciplina accademica pertanto ogni tipo di approccio adottato per la ricerca sottintende una razionalità intrinseca.
Il punto fondamentale, sarebbe quello di riuscire a integrare “gli aspetti” che la scienza accademica non riconosce.
Ad esempio, la medicina “moderna” si concentra su frammenti del corpo perdendo di vista il paziente come essere umano e riducendo la sua salute ad un funzionamento meccanico. Tale approccio, proprio perché radicato nel pensiero cartesiano, studia il corpo grazie al funzionamento delle sue parti, scomposte e ridotte ai minimi termini. Si tratta di una prassi ingegneristica : la malattia come guasto dovuto ad un attacco esterno, che necessita di un intervento esogeno per la sua guarigione. Il problema è che l’assistenza sanitaria non è in grado di affrontare molti dei problemi che riscontra proprio perché aderisce allo stesso paradigma che perpetua le cause di cattiva salute. Non è in grado di occuparsi del fenomeno della guarigione proprio perché non può essere compreso in termini riduzionistici. Ciò è manifesto anche nella separazione del corpo dalla mente: i guaritori “tradizionali” trattano la malattia fisica con mezzi psicologici, cercando di innescare un processo di auto guarigione il cui potenziale è insito in ogni essere umano; al contrario gli psichiatri, la gran parte degli specialisti della mente, trattano le malattie ad essa associate con mezzi fisici, considerando la mente come parte separata dal corpo.
La medicina, in generale, non considera il significato che assume il concetto di salute, evitando così di porsi una domanda fondamentale: perché si sviluppa la malattia? Il contenuto accordato ai termini salute e malattia dipende dalla cultura di riferimento e da come questa concepisce l’organismo in relazione all’ambiente.
Lo stesso discorso si può fare per le dottrine economiche che permeano il sistema mondo attuale. Si crede ciecamente che la crescita sia buona a priori senza riconoscerne la dimensione qualitativa e senza riconoscere che “[…]in un ambiente finito, dev’esserci equilibrio dinamico fra crescita e declino”*. Inoltre, “l’intero viene identificato con la somma delle sue parti, si ignora che esso può essere invece più o meno di questa somma, a seconda della reciproca interferenza fra le parti. Le conseguenze di questo errore riduzionistico stanno oggi diventando sgradevolmente visibili, in quanto le forze economiche sono sempre più in collisione fra loro, lacerano il tessuto sociale e distruggono l’ambiente naturale”.**
A mio avviso sarebbe utile, per una volta, provare a ribaltare il paradigma dello sviluppo, sostenendo con ciò la necessità di allargare il nostro orizzonte, tentando di superare i limiti imposti da una visione squisitamente razionale e organica. Provando insomma ad andare un po’ più in profondità rispetto alla punta emersa dell’iceberg.
*Fritjof Capra, “Il punto di svolta”, Feltrinelli, 1984, Milano, cit. p.177
** Ivi, cit.p.177
Chiara Bertalotto (Mdf Torino)