Non sarebbe certo facile effettuare una critica globale del sistema sociale in cui viviamo: sarebbe anzi un’impresa a cui forse la vita non basterebbe, anche per persone molto più preparate di noi. Tuttavia l’assurdità dei princìpi che in gran parte lo sorreggono, nonché la demenzialità delle conseguenze a cui essi (nonostante la sua ‘perfetta’ ottimizzazione tecnico-economica) conducono, risulta già con evidenza da innumerevoli piccoli particolari: basta notarli; essi sono sotto gli occhi di tutti ma, a causa dell’abitudine e del disinteresse, pochi li prendono in considerazione. Portare all’attenzione qualcuno di tali fatti elementari ma illuminanti quindi è cosa molto più semplice, ma forse comunque utile per il risveglio delle coscienze: per far comprendere che qui dietro c’è all’opera qualcosa di profondamente sbagliato, per quanto non privo talvolta di una sua perversa coerenza.
Qui vorrei fare qualche banale osservazione su quelli che uno studioso francese (Philippe Ariés) ha definito i “templi”, i sacrali luoghi di culto, dell’odierna religione del consumo e del ‘benessere’: ovvero, i centri commerciali, e in genere i supermercati.
Non è un segreto, intanto, che un supermercato, anche piccolo, butta via ogni giorno chili e chili di roba ancora buona: e non si parla solo di cibi scaduti (le date di scadenza sono tali che per esempio un cibo in scatola rimane commestibile, in genere, anche a più di un anno dalla scadenza ufficiale -almeno, non diventa più nocivo di quanto già fosse prima! Tuttavia, chi lo vendesse si esporrebbe alle sanzioni della legge; dunque la colpa qui non è del commerciante, bensì del legislatore, che per eccesso di zelo o desiderio di evitare contestazioni stabilisce dei termini troppo rigidi). Si parla anche di tutti quei prodotti che, pur buoni e legalmente commerciabili, si presume che non saranno comprati: per esempio, quelli non scaduti ma prossimi alla scadenza; le lattine e scatolette ammaccate; la verdura e frutta leggermente abbozzata (perché anche l’occhio vuole la sua parte!), e così via.
Ebbene: non ci sarebbe modo di ovviare a questo spreco? I supermercati per esempio non potrebbero, alla chiusura, lasciare i prodotti scartati davanti all’ingresso, a disposizione di chi li voglia? Ma mettiamo pure che ciò contrasti con qualche legge sulla nettezza urbana; mettiamo anche, semplicemente, che per loro sia troppa fatica. Il singolo potrà, nondimeno, sopperire lui stesso: il supermercato, come tutti, getterà i propri rifiuti nel cassonetto; anzi, i supermercati, in genere, ne hanno di propri. Basterà, quindi, andare lì dopo la chiusura e chi voglia scongiurare uno spreco, rifornendosi nel contempo di cibo gratis senza danno per nessuno, potrà farlo. Semplice, no?
Ebbene, lo è assai meno di quanto sembri. E perché? Perché i supermercati, perlopiù, chiudono a chiave i propri cassonetti; oppure, il che è lo stesso, li mettono sotto chiave, in cortili chiusi. Basterà una piccola ispezione dei propri paraggi per rendersene conto.
E dunque? In genere, da che mondo è mondo, si tengono sotto chiave le cose preziose, quelle che si vuol tenere care e preservare. Solo il nostro oggi capitalistico e iperefficiente è arrivato a tal punto di grandezza da mettere sotto chiave anche i rifiuti -ossia, ciò da cui si vuol liberare! Se ne vuol liberare, ma non vuole che nessuno gliene liberi traendone un vantaggio per sé. Ci rendiamo conto cosa significa, infatti, mettere sotto chiave i rifiuti? Equivale a dire: “A me non servono, e non me ne faccio nulla; ma non voglio che servano neanche a qualcun altro: non sarò tranquillo finché non mi sarò accertato che non sono più utili a nessuno!”. Un bell’esempio di massima morale e sociale, non c’è che dire! Un grande poeta socialista, di cui proprio l’altr’anno ricorreva il centenario della morte, il Pascoli, già ai tempi si esprimeva così: “Ecco la sventura aggiunta del genere umano: l’assetato, perché crede che un’anfora non basti alla sua sete, sottrae agli altri assetati tutta l’anfora, a cui berrà una coppa sola. Peggio ancora: spezza l’anfora, perché altri non beva, se egli non può bere. Peggio che mai: dopo aver bevuto esso, sperde per terra il liquore perché agli altri cresca la sete e l’odio[1]“.
Ma perché il supermercato fa così? Per non esporsi alla violazione delle leggi sull’igiene? Certo, il feticismo dell”igiene’ assume proporzioni imponenti in una civiltà che, essendo sostanzialmente edificata sulla massima di sottomettere la natura e, se fosse possibile, farne a meno, rifugge ogni contatto con la vita spontanea come una contaminazione, quasi ne temesse oscuramente la ‘vendetta’ (si pensi solo all’assurdo timore delle ‘pandemie’, che di tanto in tanto torna ad esplodere in occasione di ‘aviarie’ e simili) …Nella città di Pisa, che ben conosco (ma si potrebbero di certo fare innumerevoli altri esempi), il comune è giunto a sorvegliare con telecamere determinati cassonetti posti in strada: a che scopo, se non per scoraggiare chi volesse ispezionarli e rifornirsene? Nondimeno, questa giustificazione non sta in piedi: sia pur proibito e sanzionabile vendere prodotti non a norma igienica; ma secondo ogni principio del diritto, oltre che del buonsenso, quel che è stato gettato diventa ‘res derelicta’: ovvero, appartiene a chiunque voglia prenderlo; chi lo prende non commette un furto, e, d’altronde, lo prende a proprio rischio e pericolo -e dunque, senza responsabilità di chi l’ha gettato. Vorrei quindi, per inciso, rassicurare chiunque voglia ispezionare cassonetti in strada alla ricerca, p. es., di avanzi di panetteria (come io stesso ho fatto): in tal modo potrà forse far storcere il naso a qualche patrono del ‘decoro pubblico’, ma, nondimeno, non viola nessuna legge, almeno fino a quando qualche zelante custode del medesimo decoro non ne inventerà una ad hoc.
Ma allora resta il dubbio: perché, se non per cautelarsi davanti alla legge, un supermercato dovrebbe rendere inaccessibili i propri rifiuti, custodirli come roba di valore, e quindi, oltre a rendere molto più disagevoli le cose a chi volesse appropriarsene, esporlo all’accusa non di furto, ma sì di effrazione e/o di violazione di proprietà?
Ebbene, non rimane che una spiegazione: per spilorceria, per sordido calcolo di interesse. Il supermercato non può guadagnar nulla dai propri scarti (altrimenti, non li getterebbe); se qualcuno li prendesse, però, non sarebbe obbligato a rifornirsi lì, a pagamento, delle stesse cose! Quindi, bisogna sincerarsi che quegli scarti restino inaccessibili fino a quando non saranno rovinati, insozzati, inutilizzabili: che tutto quanto non ha “valore di scambio” (per dirla alla Marx) non possa aver più neanche “valore d’uso”.
Tutelare lo spreco, e garantirlo, diventa quindi, insomma, indispensabile ai fini della massimizzazione del profitto. A chi volesse scongiurarlo, o semplicemente a chi (come sempre più spesso, di questi tempi) si trovasse nella necessità di risparmiare anche sul cibo, bisogna perciò rendere le cose il più possibile complicate: in barba ad ogni più elementare spirito di condivisione e di solidarietà, ma in ottemperanza a quella tacita legge fondamentale che sempre più attanaglia il nostro povero paese, e della quale troveremo dovunque, palesi, le manifestazioni; quella legge, dico, che suona così:
TUTTO QUEL CHE SI PUÒ FARE SENZA SPENDERE SOLDI È VIETATO.
Per inciso, aggiungo una nota che riguarda sia l’argomento dell’igiene sia quello dei supermercati. L’Unione Europea benemerita, bontà sua, ha infine abolito, abbastanza di recente, i sacchetti di plastica per la spesa, sostituendoli con sacchetti biodegradabili. Questa è passata per una grande rivoluzione. Meglio avrebbe fatto, l’Unione Europea, ad abolire anche tutti gli altri imballaggi inutili che, invece, continua anzi espressamente ad imporre per legge, e rispetto alla cui mole quella dei soli sacchetti appare una bazzecola, per cui questo provvedimento ne risulta, a sua volta, come una pura e semplice presa in giro. A parte i sacchettini per le verdure, che ancora vigono a pieno regime (e quindi consiglierei a chiunque abbia un po’a cuore l’ambiente in cui vive di conservarli e riutilizzarli -per quanto sia difficile staccarne le etichette del prezzo senza rovinarli!), vorrei spendere qualche parola su di un’altra usanza, che pure credo imposta per legge dall’UE, ma che trionfa del resto in tutto il mondo ricco; ovvero, quella di far maneggiare agli acquirenti la frutta e la verdura con dei guanti di plastica usa-e-getta, i quali dunque, ogni giorno e in ogni singolo supermercato, vengono buttati via a chili …Si tratterà pure di plastica riciclabile, voglio sperare; si sa, nondimeno, che nessun processo di riciclaggio avviene senza un certo margine di spreco e di inquinamento, e che quindi non consumare, quando possibile, resta sempre preferibile a riciclare. Ma sarebbe possibile, in questo caso? A tal proposito, anche senza toccare qui il principio ideologico dell’igiene, vorrei far presenti alcune semplici cose:
1: Crede sul serio il consumatore che il coltivatore, e gli stessi operai dei magazzini, abbiano usato i guanti per maneggiare quella roba? Se sì, i miei complimenti per il suo candore! Se no, dovrebbe rendersi conto che far usare i guanti al solo acquirente non cancella i rischi di contaminazione batterica, se ce ne sono.
2: Anche in considerazione del punto 1, il consumatore non laverà frutta e verdura una volta giunto a casa? Se sì, di nuovo i guanti sono superflui; se no, più assai che dei batteri dovrebbe preoccuparsi delle sostanze chimiche tossiche di cui gli ortaggi da supermercato sono stati abbondantemente irrorati, e che neppure con tutti i lavaggi del mondo, del resto, andranno completamente via: la pianta li ha assorbiti, ahimé! Forse non tutti sanno, per esempio, che le mele vendute nei supermercati spesso sono state sottoposte a una dozzina di irrorazioni con pesticidi, tanto da dover giacere in magazzino per diversi mesi, a svaporare i fumi tossici, prima di poter venire messe in commercio: io stesso non lo sapevo, fino a tempi recenti. E quella UE che autorizza ciò è la stessa che spesso e volentieri mette i bastoni tra le ruote ai coltivatori e confezionatori di alimenti artigianali col pretesto delle ‘norme sull’igiene’ …E che impone i guanti per scongiurare il contagio batterico!
…Ci rendiamo conto?
È una presa di culo o cosa?!
Il consumatore, esposto a tutti quei veleni, dovrebbe sentirsi tutelato nella propria salute perché l’uso dei guanti di plastica gli evita di venire a contatto coi batteri delle mani di altri acquirenti! Ma i batteri si trovano nell’aria, nelle cassette dei cibi, dovunque: è quindi impossibile isolarsene; inoltre non è irragionevole supporre che, se ciò fosse possibile, sarebbe comunque il miglior modo per abbassare le difese immunitarie, e quindi beccarsi un’infezione non appena per insondabile fatalità se ne incontrasse uno… A parte tutto ciò, mi pare evidente che si tratta di una presa in giro, intenzionale o meno.
Mi sembra parimenti evidente, tuttavia, che la docilità con cui il pubblico ha accettato come sensata e naturale questa antiestetica inquinante buffonata dei guanti, l’aria placida e astratta con la quale si vede la gente girare tra i banchi delle verdure con un preservativo sulla mano, senza neanche lontanamente pensare di ribellarsi, dimostra che forse merita di essere raggirata, se non ha l’abitudine né la disponibilità ad azionare il cervello. Forse il mercato li ha lobotomizzati in massa: ma ciò non toglie la speranza che, anche col progressivo peggioramento delle condizioni di vita portato da questa famosa ‘crisi’, si diano prima o poi (speriamo non troppo tardi) una svegliata.
Allora l’assurdità di certe legislazioni sarà rivelata in tutta la sua grandiosa scemenza: è a questa presa di coscienza che ci siamo sforzati qui, nel nostro piccolo, di fornire un contributo.
Andrea Lami (Università di Pisa)