Si scrive Decrescita, si legge felicità

da | 13 Set 2013

L’abbinamento tra decrescita e felicità crea sempre in coloro che lo ascoltano o che lo leggono una certa stortura di naso. A pelle i due termini sembrano fare a pugni. Ed è anche comprensibile, soprattutto per persone come la maggior parte di noi che sono nate in un occidente falsamente opulento e ancor più bugiardo nel promettere l’eternità di questo tantoavere spacciato per benessere.

Eppure tale binomio non è un ossimoro e anzi si sposa molto bene, a patto che reimpariamo a comprendere meglio le parole che usiamo e ancor prima reimpariamo a dare le giuste priorità di valori nella nostra vita.

La decrescita di cui tanto si sente parlare oggi, e nello specifico la decrescita felice mette in discussione il concetto di PIL. Per decenni ci è stato sempre raccontato che il nostro benessere dipende dalla crescita del prodotto interno lordo. Se aumenta quest’ultimo automaticamente dovrebbe aumentare anche il nostro benessere personale e sociale e quindi per una falsa ovvietà anche la nostra felicità. Tuttavia la vita reale – che è la nostra prima indiscussa maestra – ci racconta spesso un’altra storia. Non è vero infatti che quando è aumentato il PIL sia aumentato anche il benessere sociale e quindi la felicità individuale o collettiva. E’ stato vero forse fino ad un certo punto ma studi che hanno messo in relazione PIL e felicità ci dicono che non sempre e non per molto tempo questi due indicatori hanno camminato insieme. Perché?

Innanzitutto perché bisogna sfatare (casomai ve ne fosse ancora bisogno) che nel PIL c’è tutta la nostra felicità possibile. Non è così. Nel Pil troviamo infatti anche tutti i nostri incidenti, le spese sanitarie, le spese di riparazione di danni, spese militari, di guerra, riciclo armi, inquinamento atmosferico, consumo di carburante ecc. Ora resta chiaro che se aumenta il consumo di queste merci appena citate, a rigore di logica dovrebbe aumentare anche esponenzialmente la nostra felicità e il nostro benessere. Sfido chiunque a sostenere questa tesi nel Paesi attualmente in guerra!

Sfatato quindi il primo subdolo inganno, va detto che la decrescita felice non vuole una diminuzione  improvvisa e scriteriata del PIL ma una sua diminuzione ragionata, selezionata e qualitativa. Perché? Per prima cosa perché il pianeta terra non riesce e non riuscirebbe più a sostenere certi ritmi di produzione di merci con conseguente collasso suo e con esso – piccolo particolare – nostro che la abitiamo. In secondo luogo, perché molte delle cose prodotte e messe sul mercato oltre ad intaccare materie prime non rinnovabili o rinnovabili oltre la misura di rigenerazione, sono oggetti, prodotti o servizi che non sono realmente utili, non rispondono ad un bisogno o un desiderio reale e non apportano reali benefici alla persona.

Fino ad oggi è la parte mercantile, che ha il maggior spazio nella vita di ognuno di noi, a farla da padrone. Nei tre cerchi della vita di ognuno di noi infatti, noi troviamo un cerchio centrale molto ampio occupato dallo spazio mercantile (dove troviamo anche il tempo amplissimo che dedichiamo al lavoro occupazionale). Poi ne abbiamo un secondo molto più sottile che è dedicato a piccole attività di autoproduzione e poi ancora uno ancora più sottile dedicato al tempo per noi stessi, i nostri cari e qualche hobby. Insomma si lavora si guadagna e si spende, illudendoci di essere felici. Resta pochissimo tempo per se stessi e per i propri interessi o le proprie relazioni. La decrescita felice invece intende invertire tale tendenza. Come? Innanzitutto liberando il tempo occupazionale rendendo le persone libere dall’obbligo di guadagnare tantissimo perché devono comprare tutto in quanto non sanno fare più nulla. E come lo fa? Innanzitutto rimettendo al centro l’autoproduzione di quei beni che non sono o possono non essere merci; cioè di tutte quelle cose o di quei servizi che possono essere scambiati senza denaro e che possono essere autoprodotti. Ad esempio il pane, il sapone, un orto sul balcone, le conserve, la pasta ecc. Oppure evitando di acquistare cibi o prodotti provenienti da ogni parte del mondo ma favorendo l’acquisto a Km zero e meglio ancora in un Gruppo di Acquisto Solidale. In questi casi molto probabilmente diminuirà il PIL ma aumenterà il benessere personale e la qualità della vita. Questo mi sembra essere un buon sinonimo di felicità.

Un secondo ambito molto importante in cui opera la decrescita felice è quello delle cosiddette “tecnologie della decrescita”, cioè tutte quelle innovazioni tecnologiche che non vanno ad intaccare né le risorse non rinnovabili né in modo scriteriato quelle rinnovabili. La funzione di queste nuove tecnologie è in primo luogo quello di abbattere gli sprechi energetici  e in secondo luogo e di conseguenza quello di creare nuovi posti di lavoro, che siano sia compatibili con l’ecosistema e che ripaghino i loro costi con il risparmio che se ne ottiene utilizzando queste ultime anziché altre fonti molto più costose sia in termini monetari che di risorse naturali. Inoltre tali tecnologie sono capaci di poter garantire nuovi e adeguati stipendi. Con questo punto possiamo anche sfate un falso mito che vuole i decresciti come amanti del passato e dell’età della pietra: ci vuole infatti molta più tecnologia (e quindi lavoro utile) per costruire un edificio ben coibentato che sappia mantenere un temperatura interna di 20 gradi anche senza impianto di riscaldamento quando fuori ce ne è una di meno 20, anziché costruire edifici che consumano 20 litri di gasolio a metro quadro l’anno come sono la media degli appartamenti costruiti in Italia nel dopoguerra. Queste nuove tecnologie procureranno una decrescita selettiva e qualitativa del PIL ma al contempo produrrà un grosso miglioramento della qualità della vita degli esseri umani e anche del pianeta terra, perché si sarà ridotta enormemente l’impronta ecologica dell’uomo. Pur non addentrandomi troppo nel tecnico di questo secondo argomento, credo si possa almeno intuire perché la pratica della decrescita sia anche felice per chi la mette in atto.

Ed ecco che qui entriamo più in profondità nel rapporto tra decrescita e felicità o gioia.

“C’è un uomo che desidera la vita e brama giorni per gustare il bene?”. Così recita un antico adagio biblico tramandato fino ai nostri giorni e patrimonio di tutti quanti gli uomini e le donne di ogni tempo ed epoca. Ogni uomo desidera la vita. L’uomo vuole vivere, vivere il più possibile, e ciascuno porta in sé una visione ideale di cosa vorrebbe essere: riuscire, per un uomo, è tentare di vivere la felicità, di gustare il bene in sé e attorno a sé. Del resto è la stessa filosofia antica prima e oggi le scienze umane lo confermano, che la felicità è la motivazione ultima dell’agire umano.

La domanda della felicità appartiene dunque ad ogni uomo e si colloca nella ricerca di senso ed è una domanda che la modernità e la post-modernità non ha soddisfatto ancora.

Di fronte a questa istanza cosa dice o cosa ha da dire la decrescita felice?

Molto ha da dire. Pur partendo da istanze economiche la decrescita felice mette in discussione tutto il paradigma culturale occidentale degli ultimi duecentocinquanta anni, in cui al centro non vi è più l’uomo ma il profitto e l’arricchimento raggiungo con ogni mezzo.

Per comprendere più in profondità cosa significhi che la decrescita sia segnata dalla gioia occorre interrogarsi sull’ esperienza umana della gioia. Se anche non riusciamo a definirla in modo esauriente, pure della gioia noi tutti abbiamo un’esperienza. Possiamo dire che sia come un vertice dell’ esistenza, una sensazione di pienezza in cui la vita appare nella sua positività, come piena di senso e meritevole di essere vissuta. Con Hans Georg Gadamer potremmo cogliere la gioia come rivelazione: «La gioia non è semplicemente una condizione o un sentimento, ma una specie di manifestazione del mondo. La gioia è determinata dalla scoperta di essere soddisfatti». In tale esperienza della gioia la nostra quotidianità conosce una sorta di trasfigurazione: il mondo si dona a noi e noi entriamo nella gioiosa gratitudine: «Il solo rapporto della coscienza alla felicità è la gratitudine» (T.W. Adorno). Si è grati di essere nella gioia. La felicità è esperienza di una pienezza di senso che apre il futuro dell’uomo consentendo la speranza. Essa connota un determinato rapporto con il tempo: vi può infatti essere una gioia dell’ attesa (l’attesa dell’arrivo di una persona cara, l’attesa di una nascita,l’attesa del raccolto, l’attesa di un cambiamento in positivo di una situazione ecc.), una gioia per una presenza, e una gioia del ricordo (o, se si vuole, il ricordo della gioia: la gioia vissuta nel passato viene ri-esperita nel ricordo e grazie ad esso). Questo è particolarmente evidente nella festa, o se si vuole nella convivialità che è la gioia di essere insieme: quando inizia e quando finisce la festa? Non è facile rispondere perché la festa esiste già nella gioia di chi l’attende e la prepara, ed esiste ancora nella gioia di chi la ricorda. Ma poi la gioia è connessa all’ esperienza positiva dell’ altro e dell’incontro con l’altro. È significativa la formula di saluto di molte culture: il greco chaire (lett. «rallégrati») è augurio di gioia nel momento dell’incontro con l’altro; ma anche lo shalom ebraico (e termini affini in altre lingue semitiche) augura all’ altro una situazione in cui possa sperimentare la gioia. Insomma, possiamo dire che la gioia è una esperienza piena che coinvolge la totalità dell’ esistenza umana e che emerge con forza nei momenti dell’ amore (le gioie dell’amicizia e dell’amore) e della convivialità (dove il mangiare insieme è celebrazione per eccellenza della gioia di vivere e di vivere insieme).

Tutte queste caratteristiche sopra elencate hanno a che fare con l’uomo, con l’umanità della persona. Mettono al centro la questione antropologica, rimettono al centro valori un tempo molto importanti e ora passati in secondo piano per colpa del sistema produttivistica che abbiamo contribuito a creare. La decrescita felice facendo retrocedere l’importanza del denaro e rimettendo al centro la capacità del saper fare le cose e la capacità di donare quello che è in eccedenza e la capacità anche di ricevere, mette in circolo delle energie positive capaci di far rinascere l’uomo e di fargli riscoprire capacità oramai quasi assopite.

Innanzitutto lo sperimentare di “saper fare” determinate cose, il lavorare concreto con le mani e con la mente – è scientificamente provato – che produce benessere psico-fisico. Ristabilisce un contatto con il tempo e con il proprio corpo che la società dei consumi ha quasi cancellato o ridotto a ossessione edonistica. Recuperare queste capacità genere inevitabilmente felicità, gioia. Inoltre riscoprire la possibilità di poter fare cose utili e farle bene consente di acquisire una disciplina interiore molto importante che è in grado di formare animi retti e creativi. Non è cosa di poco conto in questa nostra epoca, e ne abbiamo grossa necessità.

Il poter “fare” in compagnia dei propri familiari o di altre persone crea una sana convivialità che strappa dalla solitudine, crea spazi di respiro dall’individualismo esasperato. Riscoprire un modo diverso di stare insieme il saper ascoltare è un buon tirocinio per l’arte difficile ma necessaria del sano confronto e del dialogo. Stare con gli altri, starci in modo sano fa nascere nuove amicizie, nuovi rapporti e perché no nuovi amori. Tutto ciò non può che generare altro benessere e quindi felicità interiore. Per tutti.

Autoprodurre cibo o altri beni ha un valore qualitativo dal punto di vista salutistico. Oltre a limitare l’impronta ecologica e quindi anche l’inquinamento, è garanzia maggiore di poter assumere cibi non trattati chimicamente, o di avere prodotti fatti con materiali non inquinanti o cancerogeni. In altre parole: allunga la vita. Questo è indubbiamente sinonimo di felicità.

Poter mettere in atto queste cose implica inevitabilmente un riappropriarsi dell’uso del tempo e del denaro. E quindi il non ergerli più a idoli e padroni della propria vita ma farli retrocedere a normali mezzi con cui l’uomo crea una parte della propria vita e della propria felicità.

La decrescita insomma, con i suoi atti di amore verso il mondo e tutti gli esseri che lo abitano, genera quel recupero di valori e qualità che già sono all’interno dell’uomo ma che sono stati assopiti in alcuni, mentre altri non sanno neanche di possederli. Una vita non spesa unicamente a lavorare per produrre e poi consumare; ma spesa riequilibrando i tempi, reimparando un contatto sano con se stessi, i propri cari e il mondo che ci circonda, da un valore aggiunto alla vita che viene vista come degna di essere vissuta. Anche solo l’impegnarsi per difendere quello che di buono c’è e vinee continuamente minacciato o l’impegnarsi a cambiare quello che non va mettendo in atto le strategia di cui sopra e tante altre ancora, rende la vita di chi pratica la decrescita non solo degna di essere vissuta ma anche felice nello spenderla così.

Sì, la decrescita è uno stile di vita, serio e responsabile. Certamente non mancano nè mancheranno i momenti in cui lo scoraggiamento sembra prendere il sopravvento; oppure momenti in cui si vorrebbe mollare tutto. O altri ancora in cui sembra che si stia combattendo inutilmente e che si stia sprecando il proprio tempo ma mi meraviglierei se non vi fossero questi momenti.

Siamo convinti che abbiamo ancora molta strada da percorrere e molte cose fa modificare e da cambiare lungo il tragitto. Siamo altresì persuasi che la strada giusta sia quella di una sana decrescita, giusta, consapevole, intelligente, selettiva e qualitativa. Capace di realizzare una lenta ma fondamentale rivoluzione dolce dell’umano che abita ognuno di noi e che merita di essere felice.

Sì, si scrive decrescita e si legge felicità.

 

Alessandro Lauro

Fonte: Villaggio Globale