I paradossi della fame. E quelli del cibo. Ogni giorno 842 milioni di persone (dati Fao) si coricano con lo stomaco vuoto. Un altro miliardo, circa, ha il piatto troppo pieno e il corpo minacciato dall’eccesso di viveri.

Siamo poco più di 7 miliardi su questo pianeta. E produciamo 4 miliardi di tonnellate di cibo l’anno. Sarebbero sufficienti a soddisfare il fabbisogno energetico e proteico di tutti. Ma tra il 30 e il 50% (ossia tra l’1,2 e i 2 miliardi di tonnellate) vengono persi o sprecati prima del consumo. Per un valore che supera i 550 miliardi di euro. A livello europeo, la quantità sprecata ammonta, ogni anno, a 89 milioni di tonnellate, ovvero a 179 kg pro-capite. In Africa subsahariana scende a 6 kg l’anno.

E lo spreco non è soltanto un oltraggio etico e morale, come ci ricorda il dossier del Wwf Quanta natura sprechiamo?. Non nutrendo nessuno è inutile e dannoso, perché c’è un consumo di terra, acqua, fertilizzanti – senza contare le emissioni di gas serra – necessari per la sua produzione.

Non solo: sfamare la popolazione mondiale sarebbe più facile se tutto il cibo prodotto fosse destinato al consumo umano. Invece, il 35% è trasformato in mangimi per animali e il 5% è destinato alle industrie, tra cui quella dei biocarburanti. La cui produzione, nell’ultimo decennio, è aumentata di 5 volte: da meno di 20 miliardi di litri l’anno nel 2001, a oltre 100 miliardi nel 2011. E per produrre100 litri di bioetanolo servono 230 kg di mais. Il che significa che due cisterne di bioetanolo equivalgono al fabbisogno calorico di una persona per un anno.

Pochi temi come l’alimentazione, la malnutrizione, la fame sono così gravidi di contraddizioni. La stessa Organizzazione mondiale della sanità (Oms) fronteggia oggi un nuovo paradosso: in un numero crescente di paesi in via di sviluppo la malnutrizione per difetto coesiste con la malnutrizione per sovrabbondanza. Segno di una diseguaglianza sempre più marcata all’interno degli stessi stati.

Eppure la situazione generale sull’insicurezza alimentare sembra migliorata in questi anni. Così almeno sembrano dirci i risultati dell’Indice globale mondiale della fame 2013 (Ghi, nell’acronimo inglese), che è diminuito di quasi il 34% rispetto a quello del 1990, passando da 20.8 a 13.8 (a 0 c’è l’assenza di fame). Tutte le regioni hanno fatto progressi, compresa l’Africa subsahariana, il cui punteggio è inferiore del 23% rispetto al 1990, attestandosi sul 19.2. Peggio sta solo l’Asia meridionale con 20.7. Anche se tra i 19 paesi che presentano ancora un livello di fame “estremamente allarmante” o “allarmante” 14 sono africani (e mancano i dati di Rd Congo e Somalia). E i tre che stanno peggio in assoluto sono Comore, Eritrea e Burundi, dove la percentuale di popolazione denutrita supera il 60%. Mentre Mali, Sierra Leone e Somalia hanno i più alti tassi di mortalità sotto i 5 anni, tra il 18 e il 19%. Nel mondo, secondo la Fao, sono circa 165 milioni i minori di 5 anni che soffrono di malnutrizione cronica; 3,1 milioni quelli che muoiono. Solo il Ghana, tra gli africani, risulta tra i 10 paesi del pianeta che hanno maggiormente ridotto il Ghi dal 1990. Anche se il rapporto segnala altri stati continentali che hanno raggiunto miglioramenti sensibili: dall’Angola all’Etiopia, dal Rwanda al Malawi e al Niger.

Ma non sempre queste fotografie algoritmiche sono nitide. Ad esempio, in un rapporto diffuso dall’Unicef (agenzia Onu per l’infanzia) il 17 ottobre, in Niger sono morti di malnutrizione più di 2.500 bambini con meno di 5 anni. Nella regione di Zinder, nel Niger centro-orientale, da gennaio a settembre 2013 sono stati registrati 79.087 casi di denutrizione acuta e severa e oltre 300mila sono stati i bambini curati per malnutrizione. Il Niger sarà pure salito in classifica, ma la situazione resta precaria. Anche per quei suoi contadini e pastori che nei 5 mesi che vanno da maggio a settembre faticano a soddisfare il loro fabbisogno alimentare.

Questo ci induce a leggere con prudenza tabelle e indici: molto spesso, infatti, sviluppo non equivale a crescita economica, altrimenti non si spiegherebbe come mai il Mozambico, tra i paesi che macina importanti percentuali di crescita di Pil ogni anno, ristagni ancora nei bassifondi della classifica dell’Indice della fame.

Esattamente 10 anni fa venne firmata dagli stati africani la “Dichiarazione di Maputo” nella quale si impegnarono a dedicare il 10% del loro budget all’agricoltura. Un impegno rimasto sulla carta. I governi africani si sono invece dati da fare nello spalancare le porte ai grandi gruppi stranieri pronti a versare ingenti capitali nell’accaparramento e sfruttamento delle terre, ambite quanto una miniera d’oro. L’Africa possiede circa la metà di tutti i terreni utilizzabili non coltivati del pianeta, circa 220 milioni di ettari. A fare le spese del land grabbing sono i piccoli agricoltori locali. Che non ricevono aiuti neppure dal sistema finanziario: sebbene l’agricoltura rappresenti ancora il 40% del pil di alcuni paesi del continente, solo lo 0,25 dei prestiti bancari sono indirizzati ai piccoli agricoltori. Pochi finanziamenti. E anche poca ricerca. Secondo uno studio dell’Associazione per la rivoluzione verde in Africa, il continente ha il numero più basso al mondo di personale impegnato nella ricerca agricola, con solo 70 ricercatori per ogni milione di abitanti, a differenza di Usa e Giappone che hanno rispettivamente 2.640 e 4.380 ricercatori.

La sicurezza alimentare passa anche da queste vie.

Gianni Ballarini

Fonte: Nigrizia.it