Generazione decrescente o rigenerazione crescente?

da | 15 Nov 2013

Spreco, consumo, crisi inondano i media. Eppure è ben altro a spaventare: la decrescita. Perché?

Perché fa così paura non aver soldi da spendere, anche quando non manca nulla? Perché si è ossessionati dal voler possedere degli oggetti a cui non si dà nessun significato?

Molte sono le domande che emergono durante la presentazione del libro di Andrea Bertaglio “Generazione Decrescente” tenutasi recentemente a Torino. Quando sono venuta a conoscenza del libro, mi è subito tornata in mente una vecchia canzone degli Stadio che sentivo alla radio da bambina: “Generazione di Fenomeni”. E verrebbe da pensare che in effetti siamo retrocessi da esseri fenomenali a decrescenti, quasi come se fossimo transitati dalle stelle alle stalle. Ma perché non possiamo più sperare in un futuro migliore? E qual è la generazione più spaventata e condizionata da tale prospettiva? I ventenni? I trentenni? I quarantenni? I cinquantenni?

In realtà credo tutti abbiano ugualmente paura: chi per il proprio futuro, chi per quello dei figli o dei propri nipoti. Tutti, sia i figli del dopoguerra che i figli del consumismo. Tutti arrivati ad un punto in cui si vorrebbe ancora salire, ma forse non ci si rende conto di essere già in cima e che andare più in là forse vuol dire cadere giù dal precipizio. Ed allora perché non godersi la discesa, dopo una dura salita guardando il paesaggio in maniera differente? Ed ecco che forse la generazione decrescente potrebbe essere concepita come una “rigenerazione crescente”.

Da quanto emerge dalla discussione con Andrea Bertaglio, il termine generazione da lui inteso non denota un insieme di persone nate nello stesso periodo, ma semmai un insieme di persone tutte nate da genitori che hanno insegnato che avere di più è meglio e che spendere è un requisito per far parte della società. Persone che, come dice Andrea, ora si trovano a non poter sperare di avere, nel senso materiale, più dei loro padri, e che pertanto si pensa non potranno vivere altrettanto bene. Persone che si trovano smarrite in un sistema che ha indotto a non investire nelle proprie capacità, ma a mettere tutto in un conto in banca che via via si sta svuotando. Persone, forse figlie di una “degenerazione crescente”, come qualcuno dei presenti all’incontro fa notare. Persone che comunque potranno crescere in un altro senso, “rigenerandosi”, perché il termine decrescita allude soltanto alla decrescita del PIL “viziato”.

Eppure ci si aggrappa ad un termine “crescita” che non sempre è di buon auspicio. Andrea infatti fa l’esempio di una malattia, o meglio di un tumore, dove la crescita è dannosa.  Quindi il termine decrescita non dovrebbe in sé spaventare. E poi non sempre le correnti denotate in accezione negativa si sono rivelate un fallimento. Si pensi al decadentismo e ai grandi letterati che ha prodotto. Però in definitiva ciò che fa veramente paura è il dover rinunciare alle proprie abitudini. Cambiare spaventa. Eppure, se ci pensiamo anche la tecnologia, che ha rivoluzionato le nostre vite, all’inizio ci spaventava. Ora invece non  possiamo farne a meno per vivere.

Ma non dovremmo temere di più per l’insostenibilità della vita a causa delle malsane condizioni ambientali e sociali piuttosto che l’insostenibilità delle spese per colmare tutte le esigenze che ci siamo creati artificialmente?

E se è vero che non si può sperare di crescere in senso materiale, perché non ambire a crescere in senso più spirituale o a evolverci in qualità umane?

E allora, suggerisce qualcuno, perché non cambiare il termine decrescita? Si può anche cambiare nome, effettivamente. Il problema è che pochi han colto la sostanza. “Magari fossimo numerosi come una generazione”, dice qualcuno. Più che una generazione, siamo una generazione di generazioni che deve stabilire un punto di contatto, di dialogo.

E penso a come sia difficile concepire una generazione quando nella stessa famiglia possano nascere due individui con idee contrastanti, una materialista e l’altra idealista, che non lasciano spazio al dialogo. Ma ciò che li unisce, è il fatto di essere nati dalla stessa madre, anche se ognuno di loro si chiede. “Di chi sono figlio? Dell’essere o dell’avere?”

Stefania Di Gangi