Perché un Manifesto per un’Europa decrescente?
I processi di integrazione europea sono oggetto di forte contestazione, anche perché stanno gravemente penalizzando alcune nazioni provate dalla crisi economica, e in tutti i paesi membri si stanno affermando movimenti politici ostili alla moneta comune o addirittura alla ragion d’essere dell’Unione. Come decrescenti, da una parte non possiamo accettare la logica di chi vuole riportare indietro l’orologio della storia proponendo soluzioni peggiori dei mali che vorrebbe curare, dall’altra non possiamo tapparci gli occhi e non constatare che l’Unione Europea, così come è configurata attualmente, non solo non risponde alle esigenze delle sfide che l’umanità si vede costretta ad affrontare – i cambiamenti climatici in primis – ma sostiene attivamente il degrado ecologico e la disintegrazione sociale. Come europei, consapevoli del fatto che gran parte dei problemi che attualmente attanagliano il mondo derivano da degenerazioni del pensiero occidentale, siamo altresì convinti che il Vecchio Continente abbia tutte le carte in regola proporre un’importante inversione di tendenza che possa servire eventualmente da spunto anche per altre civiltà.
Nel Manifesto per un’Europa decrescente non ci siamo limitati a riproporre i classici capisaldi della decrescita (la critica del PIL, la differenza tra decrescita e recessione, l’elogio dell’autoproduzione, la decolonizzazione dell’immaginario), ma abbiamo cercato di abbozzare un progetto politico compatibile con gli ideali di questa filosofia.
Ne è uscita fuori quella che si potrebbe chiamare, con un gioco di parole, ‘riforma rivoluzionaria’: inevitabilmente rivoluzionaria, perché la decrescita segna un vero e proprio cambio di paradigma, che coinvolge inevitabilmente anche le tradizionali forme di governo. D’altro canto, quasi tutte le proposte evocano la sensazione che si potrebbero applicare ‘qui e ora’, perché non comportano né tecnologie avveniristiche né particolari stravolgimenti della vita delle persone; tendono anzi a rafforzare tutti quegli aspetti che rendono la vita umana un’esperienza meritevole di essere vissuta.
Il manifesto è volutamente un passo iniziale, un work in progress che chiediamo di condividere a tutte le persone di buona volontà. Un’alimentazione più sana, un ambiente pulito, una nuova concezione del lavoro slegata dal produttivismo, maggior libertà e autonomia… sono tutti obiettivi a portata di mano, a patto di abbandonare per sempre la logica perversa della crescita infinita. Invitiamo chi contesta le presunte privazioni derivanti dall’adozione della decrescita a riflettere seriamente sui sacrifici, quelli sì veramente dolorosi, necessari per mantenere in vita un Moloch che diventa sempre più crudele ed esigente all’aggravarsi dei sintomi della sua fine – riscaldamento del pianeta, perdita di biodiversità, picco del petrolio ed esaurimento di materie prime. Il Manifesto per un’Europa decrescente è il nostro modo di dissociarci e di proporre un’altra economia, un’altra politica, un’altra società.
Qui di seguito il testo del manifesto :
Manifesto per un’Europa decrescente
Introduzione
La società della crescita: un cancro non solo ambientale, ma politico e sociale
Nella suo capolavoro La convivialità, Ivan Illich illustra alcuni dei peggiori pericoli sociali associati alla ipercrescita, segnalando che “la centralizzazione dei processi di produzione minaccia il diritto alla parola, cioè alla politica”.
Scritto nel 1973, Illich intravedeva i caratteri che avrebbero contraddistinto la nascente era neoliberale, dominata dal ‘pensiero unico’ basato sulla sottomissione di qualsiasi condotta politica a presunte ‘leggi dell’economia’, e dove la competizione tra gli esseri umani viene elevata suprema condotta di vita. In questo contesto i governi devono trovare legittimazione non dal popolo bensì dai ‘mercati’, di fatto le principali banche d’affari del mondo: i paesi dell’Europa mediterranea si trovano oggi a subire ‘piani di aggiustamento strutturali’ che solo una decina di anni fa erano prerogativa dei paesi in via di sviluppo, creando le premesse per dei golpe bianchi orditi dalle istituzioni finanziarie, come quelli che hanno portato al governo Papademos in Grecia e Monti in Italia.
Il carattere sempre più elitario e autoreferenziale dei partiti politici, insieme alla spasmodica ingerenza delle lobby economiche e alla costituzione di organismi internazionali di natura tecnocratica esenti da quasi ogni controllo sociale (si pensi all’Unione Europea) ha indotto il politologo Colin Crouch a coniare il termine ‘post-democrazia’, per indicare un sistema politico formalmente democratico ma inficiato alla radice da tendenze oligarchiche: la disillusione nel sistema è evidente, come testimonia la scarsissima affluenza alle elezioni anche nei paesi di lunga tradizione liberale.
La resistenza ai processi politici neoliberali – che contrariamente alle aspettative si sono rafforzati all’acuirsi della crisi economica figlia del neoliberismo – assume diverse forme, alcune delle quali presentano un carattere sinistro e si preannunciano addirittura peggiori dei mali che pretenderebbero di risolvere. Si pensi alle formazioni legate alla variegata galassia dell’estrema destra le quali, intuendo alcuni sintomi di malessere della società globalizzata, scambiano le cause per le conseguenze, ritenendo che il sistema non sia tarato alla radice da problemi intrinseci, bensì danneggiato dalla presenza di gruppi ‘parassitari’ – immigrati, omossessuali, istituzioni giudaico-massoniche, ecc. – che ne impediscono il perfetto funzionamento. Questi movimenti politici riconoscono la necessità di radicare nuovamente il cittadino nella comunità, ma lo fanno attraverso prassi che richiamano al nazionalismo, al fanatismo religioso, al tradizionalismo, al dispotismo, al razzismo, alla discriminazione sessuale e a svariati generi di oppressione sociale. Anche il costante richiamo all’epoca gloriosa della ‘sovranità nazionale’ spesso fa riferimento a un passato mitico abbastanza distante dalla realtà, e comunque tende a ridurre la soluzione della crisi economica e sociale a misure semplicistiche come l’adozione di una valuta nazionale, la chiusura delle frontiere, il rafforzamento del potere esecutivo – qualora non si valutino soluzioni autoritarie vere e proprie.
In positivo, invece, va segnalata la diffusione di movimenti di base ispirati all’azione diretta, in un tentativo di dare concretezza effettiva al concetto di sovranità popolare, rifiutando la semplice delega. Accanto ai movimenti di contestazione alle politiche anti-crisi e allo strapotere della finanza (Occupy Wall Street, Indignados), si moltiplicano i movimenti contro la devastazione ambientale provocata dalle grandi opere: la nascita del Forum Europeo contro le Grandi Opere Inutili rappresenta un primo tentativo di creare un coordinamento tra queste realtà. Queste, nonostante il loro carattere spesso spontaneo – se non proprio improvvisato – e il rifiuto di ideologie preconcette (se non addirittura di una qualunque base teorica), sono portatrici di istanze chiaramente ricollegabili a quelle della decrescita.
Questo quadro ricorda da vicino alcune intuizioni di André Gorz, che già a partire dagli anni Ottanta aveva compreso che oggi l’avversione al capitalismo non viene vissuta principalmente sul luogo di lavoro, bensì laddove il cittadino si sente espropriato dal proprio ambiente di vita sociale e naturale, a prescindere dalla classe sociale di appartenenza, anche perché gli effetti negativi (compromissione del territorio, inquinamento, fughe radioattive, adulterazione del cibo, ecc) coinvolgono quasi indiscriminatamente tutte le fasce di popolazione.
In questi ultimi anni, abbiamo assistito a dure battaglie per la difesa del territorio e contro le infrastrutture ad alto impatto ambientale (sempre più spesso anche contro quelle ‘edonistiche’ come i grandi centri commerciali), contro il ritorno all’energia nucleare, contro la discriminazione razziale e sessuale, contro la medicalizzazione dell’esistenza umana, contro la mercificazione dell’acqua e la bramosia di trasformare la natura in una branca di sfruttamento del mercato, sotto forma di manipolazione genetica o di vivisezione e sfruttamento animale. Ne consegue quindi che
Il conflitto principale non oppone più capitale e lavoro, ma i grandi apparati scientifici, tecnici, burocratici (che in ricordo di Max Weber e di Lewis Mumford ho chiamato la mega-macchina burocratica-industriale) alle popolazioni in conflitto con la tecnicizzazione dell’ambiente, la professionalizzazione e l’industrializzazione delle decisioni e degli atti della vita quotidiana, gli esperti patentati che vi tolgono la possibilità di determinare da soli i vostri bisogni, desideri, o il modo di gestire la salute e, più in generale, la vostra vita (Gorz).
Tale quadro è strettamente correlato al crescente strapotere di quella che il sociologo Ulrich Beck ha definito subpolitica, intesa come il trasferimento di gran parte dei processi politici rilevanti dalle sedi proprie della politica (sottoposte a qualche forma di controllo sociale) a quelle della scienza, della tecnica, dell’economia e dell’amministrazione (spesso quasi totalmente scevre da ogni vigilanza). All’aumentare dei rischi – nel caso del degrado ecologico è in gioco la sopravvivenza stessa del pianeta – viene completamente rifiutata la prassi tradizionale secondo cui il progresso tecnologico viene fatto coincidere con quello sociale, attraverso la mediazione delle forze sindacali e il contenimento dei danni sociali per opera dello Stato:
Non sono gli ignoranti o i fautori di una nuova età della pietra a mettere in guardia dai pericoli, ma si tratta sempre più di persone che appartengono esse stesse alla comunità degli scienziati (ingegneri nucleari, fisici, biochimici, medici, genetisti, tecnici informatici ecc.) così come di innumerevoli cittadini nei cui casi l’esposizione al pericolo e la competenza si sovrappongono. Essi sanno argomentare, sono organizzati, in qualche caso dispongono di loro riviste e sono in condizione di fornire argomenti all’opinione pubblica e ai tribunali (Beck)
All’inizio degli anni Settanta la critica al burocratismo, al gigantismo e all’ingerenza dello Stato socialdemocratico-keynesiano è stata operata da una parte dagli apostoli della nuova era neoliberale, dall’altra da intellettuali libertari come Ivan Illich, André Gorz, Ernst Friedrich Schumacher, Cornelius Castoriadis, tutti importanti punti di riferimento per il pensiero della decrescita. Queste personalità hanno allargato gli orizzonti della democrazia oltre l’angusto perimetro della rappresentatività liberale, immaginando ad esempio nuove tipologie di proprietà pubblica – sul modello dei commons medievali – che permettano un controllo sociale da parte di lavoratori e consumatori, e soprattutto sottolineando il ruolo cruciale della comunità, soggetto fortemente penalizzato nell’era moderna.
In altre parole, sono stati pionieri di quel concetto molto alla moda ma spesso troppo vago chiamato ‘democrazia partecipativa’, che prevede necessariamente una ridefinizione dei compiti e del ruolo dello Stato, se non addirittura l’elaborazione di nuove istituzioni di governo. Pensatori attuali come l’austriaco Christian Felber stanno cercando di dare un’impronta concreta a queste aspirazioni.
Tuttavia, per iniziare qualsiasi sforzo in tal senso, il punto di partenza non deve essere quello di fantasticare su qualche nuova ecclesia, bensì di formare un’agorà più matura e consapevole. Per usare le parole di Murray Bookchin, occorre creare un’atmosfera “sempre su forti legami comunitari e su di una sfera pubblica costituita dalle strade, dalle piazze, dai caffè”.
Solo su questa base si può immaginare un percorso virtuoso per spianare la strada alla decrescita.
Beni comuni
Gli elementi fondamentali per la nostra esistenza devono essere pubblici e collettivi
Spesso dimentichiamo che il nostro primo bisogno è respirare, per cui la nostra prima esigenza è garantirci una buona aria che si ottiene non ampliando la produzione, ma limitandola allo stretto indispensabile. Ogni processo produttivo, infatti, comporta la produzione di inquinanti che compromettono l’aria.
Altrettanto indispensabile è l’acqua che forma il nostro corpo umano per il 70%. Un tempo l’acqua non costituiva un problema. I fiumi ne trasportavano in abbondanza e pulita, permettendo a chiunque di utilizzarla per i propri bisogni. Ma con l’avvento dell’industrializzazione e dell’agricoltura ad alta produttività, i nostri fiumi sono diventi cloache chimiche mentre le falde si sono abbassate a livelli di guardia. In conclusione l’acqua sta diventando una risorsa sempre più scarsa di cui il mercato vorrebbe impossessarsi.
E parlando di fiumi, il pensiero corre inevitabilmente alle inondazioni che si susseguono con frequenza crescente a causa di argini troppo deboli o di letti troppo compressi da un eccesso di cementificazione In ambedue i casi il risultato è l’ incapacità di reggere l’urto delle bombe d’acqua che i cambiamenti climatici rendono sempre più frequenti.
Aria, acqua, fiumi, sono solo i primi componenti di una lunga lista che comprende anche clima, mari, laghi, boschi, spiagge, paesaggi e molti altri elementi che assumono il nome collettivo di beni comuni. Beni, cioè, che hanno al tempo stesso la caratteristica di essere indivisibili e fondamentali per l’esistenza di noi tutti. Dal che ne derivano due conseguenze. La prima: non sono privatizzabili. La seconda: vanno gestiti in maniera collettiva attraverso strumenti di rispetto e di riparazione. L’educazione prima di tutto per indurre un comportamento responsabile. E poi l’adozione di norme che fissino criteri minimi di rispetto, e una politica fiscale che incoraggi i comportamenti virtuosi e penalizzi quelli dannosi. Infine l’organizzazione di interventi collettivi per mantenerli in buone condizioni e riparali se danneggiati.
L’Europa deve adottare leggi che indirizzino gli stati aderenti a non privatizzare i beni comuni e ad adottare norme, misure fiscali e di bilancio che li proteggano adeguatamente.
Riorganizzazione territoriale
Una nuova municipalità per una nuova società
La struttura territoriale dell’Europa, suddivisa in nazioni più o meno indipendenti, non risponde più alle esigenze dei cittadini e della loro sostenibilità ambientale. Si rende sempre più stringente la necessità di riorganizzare territorialmente l’Europa. Dovrebbe ad esempio essere ridefinito il concetto di “Comune” rispetto a come lo conosciamo oggi. Non più esclusivamente un luogo con una connotazione geografica di carattere prevalentemente storico, ma un’area omogenea sotto l’aspetto culturale, economico e sociale, con limiti geografici tali da permettere una reale implementazione di una rete di relazioni personali ed economiche.
Le amministrazioni locali diverranno autentici propulsori in una logica di sussidiarietà di tutte le iniziative volte a instaurare una reale economia di transizione e a rafforzare la resilienza, la coesione, l’auto iniziativa e la solidità economica, sociale e culturale delle comunità locali, ivi comprese monete locali, scuole popolari, open source & data (non solo in campo informatico).
Va poi definita l’interazione di queste realtà autonome con le Istituzioni superiori. Proviamo a pensare all’Europa intesa come una rete, non gerarchica, di Municipalità (o eco-regioni) autonome, formate a loro volta da reti concentriche di Comuni, dove sia possibile attuare una “democrazia di prossimità”, ovvero una più avanzata forma di governo popolare che permetta ai cittadini di partecipare a tutti i livelli dei processi decisionali.
Si otterrebbero così piccole unità politiche in grado di garantire i servizi primari e interconnesse tra loro, direttamente controllate dai cittadini, inserite in realtà più grandi: le Municipalità.
Nell’ottica della transizione, ovvero ponendosi l’obiettivo di preparare le comunità ad affrontare la doppia sfida costituita dal riscaldamento globale e dal picco del petrolio, le Municipalità dovrebbero essere dimensionate al fine di aspirare, quanto meno, a garantire l’autosufficienza energetica e alimentare dei cittadini che le abitano.
Le nuove Municipalità quindi devono essere caratterizzate da una certa omogeneità ambientale, ed ovviamente anche storica, culturale e linguistica. Per poter organizzare tutto questo i confini delle Municipalità non devono necessariamente corrispondere ai confini dello Stato così come lo conosciamo oggi, dovrebbero invece poter essere dinamici, quindi facilmente aggiornabili, per poter rimanere in costante contatto e scambio con le Municipalità confinanti, nonché per poter garantire il senso di appartenenza e di identità delle popolazioni che le vivono.
Sovranità monetaria e area euro
Fare dell’Euro un vero bene comune per tutti gli europei
Così com’è strutturata, l’area euro non può certo andare avanti. In assenza di meccanismi in grado di compensare gli eventuali shock asimmetrici (a causa dell’enorme eterogeneità delle diverse economie facenti parte dell’unione monetaria), ovvero di fondi perequativi con cui redistribuire in automatico una consistente parte del gettito fiscale (negli USA la percentuale è del 40% circa) da una regione la cui economia è in espansione a una che è in crisi, le nazioni più deboli sono destinate a collassare, schiacciate dal peso del crescente debito pubblico, da politiche deflattive (come il taglio della spesa pubblica e l’aumento della tassazione) e dall’impossibilità di svalutare la propria moneta.
E’ quello che sta succedendo in Italia, dove una moneta troppo forte e le esigenze di mantenere i conti in ordine, proprio perché è aumentato sia l’ammontare che il costo del debito pubblico, stanno facendo saltare il tessuto di piccole e medie imprese e i distretti, cioè l’asse portante del paese, con la conseguenza che l’unica maniera che il paese ha per “restare competitivo” è quella di abbassare gli stipendi e continuare ad erodere diritti ai lavoratori (cioè convertire i lavoratori al precariato, anche se per ora questo riguarda soprattutto i più giovani).
L’obiettivo primario del SEBC e quindi della Banca Centrale Europea non deve essere solamente il mantenimento della stabilità dei prezzi, ma anche quello di contrastare la disoccupazione, sostenere il credito ai piccoli imprenditori (e in particolari ad artigiani e contadini) e finanziare nuovi investimenti che abbiano come obiettivo la difesa dell’ambiente (ad esempio finanziare progetti per la bonifica e la riqualifica delle zone contaminate, progetti per fermare la degradazione del suolo e l’avanzamento del deserto, la creazione di nuove riserve ecologiche e via dicendo). La BCE dovrebbe intervenire nell’acquisto dei titoli delle Municipalità in difficoltà ogni qual volta il rendimento di questi ultimi aumenta a fronte di una diminuzione del rendimento dei titoli di altre Municipalità dell’unione monetaria (nell’autunno del 2011, ad esempio, i rendimenti dei BTP decennali italiani sono andati ben oltre il 7% dal 4% circa di qualche mese prima, mentre nello stesso periodo il Bund decennale tedesco è passato dal 3,5% circa a rendimenti anche inferiori al 2%).
Tassazione e burocrazia
Combattere la burocrazia per far risorgere la piccola impresa
L’Europa deve essere “amico” del piccolo imprenditore, dell’artigiano, del piccolo commerciante, del contadino o del semplice cittadino che intende praticare l’autoconsumo e la vendita diretta di parte della propria produzione. L’eccessivo peso delle documentazioni imposte per lavorare e di regole tributarie, sanitarie e igieniche gravose stanno portando alla rapida estinzione di queste categorie di lavoratori – il vero fulcro, ad esempio, del dinamismo italiano –, il tutto a vantaggio dei grandi industriali e delle multinazionali straniere.
La rimozione degli ostacoli burocratici e dei pesi fiscali può essere raggiunta dalla creazione di una zona di franchigia legata al reddito (ad esempio 15.000 – 20.000 euro annui), che permetta una completa eliminazione dei vincoli burocratici e una tassazione minima.
Promuovere e incentivare i piccoli negozi nei centri urbani e i mercati rionali può avvenire agevolando l’iter burocratico e “liberalizzando” le licenze e le piazze a disposizione dei piccoli commercianti.
La rinascita di un’economia locale deve assolutamente passare dalla riscoperta del ruolo del piccolo imprenditore (artigiano o commerciante che sia) e dal ritorno a un’agricoltura contadina.
Consumo di suolo
Preserviamo e riqualifichiamo il bene comune fondamentale, il nostro territorio
Per evitare di essere sempre più dipendenti da prodotti agricoli provenienti dall’estero, iniziare a preservare la fertilità del suolo ed evitare il continuo dissesto idrogeologico, occorre fermare subito la cementificazione del suolo. La riqualifica delle zone abbandonate e le opere di ristrutturazione devono essere incentivate attraverso sgravi fiscali.
Trasporto
Non dobbiamo precipitare dal picco del petrolio!
L’automobile è una forma di trasporto inefficiente (per trasportare una persona occorre spostare più di una tonnellata di ferro, plastica e metalli più o meno rari, con tutto l’ingombro che ne consegue), costosa (se si considerano anche i costi indiretti che vengono scaricati sulla collettività, come gli ingorghi di traffico, gli incidenti stradali e i costi per la costruzione e il mantenimento dell’impianto stradale) e soprattutto inquinante (responsabile di gran parte delle emissioni delle polveri sottili – una delle concause di gran parte delle “malattie della modernità”, tumori inclusi – e delle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera).
Occorre investire nel trasporto pubblico, che deve essere economicamente conveniente e affidabile (invece che investire immense somme di denaro in opere faraoniche, come l’alta velocità, occorrerebbe migliorare il servizio dei trasporti pubblici destinati ai lavoratori, garantendo quindi puntualità e pulizia).
Agricoltura, Salute ed Ambiente
L’ambiente deve essere fonte di salubrità, non causa di malattia
L’agricoltura industriale non è sostenibile ancora per molto (essendo completamente dipendente dal petrolio, necessario alla produzione di fertilizzanti chimici, pesticidi ed erbicidi, oltre che per il carburante), è inquinante (è responsabile dei processi di eutrofizzazione e dell’immissione nell’atmosfera di grandi quantitativi di protossido di azoto e gas metano, entrambi gas serra molto più potenti della CO2) ed è responsabile della contaminazione dell’ambiente e del cibo che compriamo con i vari inquinanti organici persistenti (come ad esempio le diossine). Questo tipo di inquinanti provocano gravi danni alla salute umana, ed è scientificamente provato che siano fra i responsabili delle cosiddette “malattie del progresso” (quasi tutti i tipi di tumori, diabete, Alzhaimer, morbo di Parkinson, epatite, eccetera). Occorre incentivare l’agricoltura biologica (con una particolare attenzione alla permacultura) scaricando i costi di certificazione biologica (i cui controlli dovranno essere effettivi e non solo documentali) tramite la tassazione dei prodotti chimici per uso agricolo, liberalizzando completamente la vendita dei prodotti biologici sia nell’azienda, che nei mercati/supermercati locali e garantendo un regime fiscale sostanzialmente più conveniente rispetto all’agricoltura industriale. Occorre altresì favorire la filiera corta, garantendo analoghi vantaggi alla trasformazione dei prodotti alimentari nei laboratori aziendali anche favorendo l’associazione dei piccoli produttori. Gli OGM devono essere messi al bando sia per un motivo precauzionale (nessuno conosce gli effetti a lungo termine su uomo ed ecosistema), che perché in grado di ibridarsi con le colture tradizionali (come succede per mais e colza, la cui impollinazione avviene per via aerea) e per evitare di portare alla scomparsa del gran numero di varietà di prodotti agricoli di qualità che l’Europa ancora vanta. Per la stessa ragione va incentivato il recupero delle biodiversità coltivata promuovendo le varietà locali e le sementi antiche, favorendo lo scambio delle conoscenze e delle buone pratiche tra zone territoriali limitrofe o ambientalmente similari.
Il modo migliore per occuparsi effettivamente della salute dei cittadini è quello del vecchio adagio di “prevenire è meglio di curare”. La gente spesso si ammala perché si ritrova con un sistema immunitario indebolito da stress, inquinanti di vario genere e una vita sedentaria. L’Europa deve informare in modo efficace i propri cittadini sui pericoli per la salute che a lungo tempo portano stili di vita sbagliati (ad esempio un regime alimentare che preveda l’assunzione di troppi alimenti di origine animale o la mancanza di un’attività fisica costante). Occorre abbassare la soglia di tolleranza minima (che tendenzialmente dovrebbe essere molto vicina a zero) per i vari inquinanti presenti nei prodotti alimentari. Non esistendo, di fatto, studi scientifici che siano in grado di dimostrare che quella “soglia minima di tolleranza” è adeguata anche a livello cronico (cioè per una contaminazione con quella sostanza inquinante per tutti i giorni e per un lungo periodo di tempo) e in caso di interazione con altri inquinanti, dovrebbe sempre prevalere il principio della precauzione. Occorrere eliminare o ridurre al minimo tutte le fonti di contaminazione delle diossine (come ad esempio i prodotti chimici utilizzati nell’agricoltura industriale, i processi di combustione che avvengono per produrre energia o bruciare rifiuti e via dicendo) e dei perturbatori endocrini (come ad esempio il Bisfenolo A, un additivo chimico presente in alcuni tipi di plastica).
Se si vuole creare una società sostenibile nel tempo, ovvero in grado di mantenere uno stile di vita dignitoso anche per i nostri figli, occorre preservare l’ambiente, di cui facciamo parte. La bonifica dei siti inquinati passa dal rispetto del principio “chi inquina paga”, che affinché venga effettivamente fatto rispettare deve avvenire prima di ogni nuovo progetto industriale, che per essere approvato dovrà quindi presentare una copertura assicurativa “consistente”, ovvero in grado di ripagare ogni possibile danno arrecato a terzi e l’eventuale bonifica del sito inquinato. Il rimboschimento dei suoli degradati e a rischio smottamento, insieme alla tolleranza zero per ogni forma di abusivismo edilizio sono necessari per fermare il dissesto idrogeologico del paese. Fiumi e coste devono tornare balneari, per fare questo occorre fermare subito la continua immissione di sostanze inquinanti (e in particolare degli scarichi fognari e industriali) nell’ambiente. L’Europa deve aumentare la superficie protetta da parchi e riserve ecologiche, con particolare attenzione ai parchi marini, indispensabili per riportare la vita nei mari (e il pesce nelle reti dei piccoli pescherecci a conduzione famigliare).
Occorre inserire nella nostra Costituzione la salvaguardia dei diritti degli ecosistemi e degli esseri viventi che ne fanno parte come bene comune e quindi interesse di tutti i cittadini, da preservare e consegnare intatto alle future generazioni di europei.
Lavoro e occupazione
Lavorare di meno per creare più occupazione di qualità
Con una popolazione di oltre 500 milioni di persone, un PIL che è maggiore di quello statunitense e 4,3 milioni di km² di superficie, l’Unione Europea ha tutti i numeri (e le competenze) necessarie per cambiare l’attuale corso della globalizzazione e quindi limitare i suoi devastanti effetti sull’ambiente e le persone. Adeguare le importazioni di merci extra-UE agli standard europei in materia di sicurezza del lavoro, di tutela dell’ambiente e di diritti dei lavoratori metterebbe fine alla continua concorrenza sleale che permette alle grandi multinazionali di ottenere il massimo beneficio dall’attuale globalizzazione ai danni dei lavoratori europei e dello stato di salute del pianeta.
Oltre ad incentivare i disoccupati a diventare piccoli imprenditori (artigiani, commercianti o agricoltori), il modo migliore per contrastare la disoccupazione è quello di disincentivare gli straordinari (tramite una maggiore tassazione) e ridurre l’orario lavorativo settimanale (ad esempio passando dalle 40 alle 34 ore lavorative). Il micro-credito destinato ai piccoli imprenditori deve essere garantito tramite l’istituzione di fondi pubblici e la riduzione della burocrazia necessaria per ottenere i finanziamenti. L’obiettivo del lavoro deve essere quello di procedere verso la riduzione dell’impatto ambientale e del consumo di risorse e verso un uso più efficiente delle risorse della Terra.
L’occupazione deve essere una priorità, ma dobbiamo smetterla di parlare genericamente di “Lavoro” e dobbiamo iniziare a parlare di “Lavoro Utile” ovvero di quell’occupazione orientata alla riduzione degli sprechi e quindi alla ristrutturazione energetica dell’edilizia, energie rinnovabili, riduzione dei rifiuti, filiere corte alimentari e industriali, in un’ottica territoriale, distrettuale. Meno trasporti, meno costi, meno sprechi.
In quest’ottica va definita e attuata una direttiva comunitaria che ostacoli il fenomeno dell’obsolescenza programmata così come sta attualmente accadendo in alcuni paesi europei.
L’Europa dovrebbe produrre all’interno dell’Unione la maggior parte dei beni necessari a mantenere l’attuale stile di vita.
Devono quindi essere messe in atto tutte le quelle azioni che permettono di ridurre l’import e l’export inutile. Si potrebbe definire un’apposita tassa rendendola proporzionale ai chilometri percorsi da una merce su gomma, prendendo spunto da un meccanismo a scaglioni (ad esempio un’aliquota dell’1% per i primi 100 km, del 10% da 101 a 200 km, del 20% da 201 a 500 km, del 30% da 501 km a 1.500 km e del 40% oltre 1.500 km). Questo provvedimento agevolerebbe l’economia locale, ridurrebbe il traffico – e quindi le spese per le infrastrutture e gli incidenti –, oltre che le emissioni di anidride carbonica e altri inquinanti nell’atmosfera.
Banche e Industria
Riportiamole a misura d’uomo
Occorre favorire la presenza di istituti di credito locali a scopo mutualistico (Banche Popolari e Cooperative) e di un’industria di piccola o media dimensione tramite una nuova tassazione che favorisca i piccoli istituti locali e colpisca invece i grandi gruppi bancari.
Le piccole e medie imprese sono l’asse portante dell’economia. Una misura locale di un’impresa è da preferire ai grandi gruppi multinazionali. Tassazione e burocrazia devono seguire il principio per cui occorre sempre privilegiare le economie locali e le piccole dimensioni.
Le aziende devono diventare il motore di un processo di ristrutturazione e di rilocalizzazione dell’economia locale. Il sistema produttivo deve poter attingere al credito di rete locale, cioè finanziato dal risparmio collettivo raccolto localmente, così come i canali di distribuzione e la rete commerciale devono avere carattere locale.
Va da sé che, vista l’importanza della rilocalizzazione economica poiché fondamentale per il sostentamento della società locale, ogni decisione di natura economica va presa su scala locale.
Il rilancio dell’economia locale, ha evidentemente una ricaduta positiva sull’economia globale e può essere intrapresa attraverso molteplici strade.
Tecnologia ed Energia
Da nemiche a migliori alleate dell’ambiente, basta ripensarne l’uso
Occorre investire sulla “tecnologia della decrescita”, ovvero su una tecnologia in grado di far risparmiare risorse naturali, energia e soprattutto rifiuti. Le imprese devono produrre prodotti che siano facilmente riciclabili (per provare a creare un ciclo di riutilizzo delle risorse naturali consumate quotidianamente) e ridurre al massimo gli imballaggi (che devono essere tassati): il vuoto a rendere deve essere incentivato. L’Europa deve incrementare gli sgravi fiscali e finanziamenti a tasso agevolato per coibentare gli edifici abitativi e tramite una convincente campagna mediatica sottolineare il risparmio in termini di denaro (oltre che di inquinamento) che questo comporterebbe.
Liberalizzare la produzione di energia su piccola scala e decentrata (ad esempio tramite gli impianti di co-generazione, il mini-idroelettrico e il mini-eolico), puntare sul risparmio energetico e combattere gli sprechi energetici (sia nel pubblico che nel privato) devono diventare la priorità per il breve termine. Nel medio-lungo termine occorre invece puntare sulla totale eliminazione dei combustibili fossili per la produzione di energia (non solo del carbone, ma anche del gas naturale), per puntare su fonti energetiche rinnovabili e quindi sostenibili anche in un mondo senza più petrolio. Una più oculata illuminazione notturna dei centri urbani (illuminati a giorno) potrebbe portare a un significativo risparmio in termini di bolletta elettrica ed emissioni di anidride carbonica. I grandi gruppi produttori di energia devono tornare di proprietà pubblica e dovrebbero trasformarsi in organizzazioni no profit, per garantire un prezzo più equo dell’energia e non intralciare la produzione di energia a rete.
Pubblicità
Liberiamoci del potenziale letale delle armi di distrazione di massa
La pubblicità è una delle più dannose forme di persuasione della nostra società, una sorta di veicolo dell’infelicità di massa. E’ inoltre noto che gli unici in grado di permettersi grandi budget pubblicitari sono le grandi multinazionali, il tutto a discapito dei piccoli imprenditori, che basano più le proprie fortune sul passaparola e la presenza fisica nell’economia locale. Occorre contrastare l’abuso di pubblicità e l’invasione delle nostre vite da parte del mondo commerciale. Occorre considerare l’introduzione di una imposta (sempre secondo il metodo a scaglioni) e l’aliquota deve essere proporzionale al fatturato del gruppo di riferimento del marchio in questione (ad esempio del 5% dell’importo speso per un fatturato fino a 100.000 euro, del 15% da 101.000 a 1,5 milioni di euro, del 25% da 1,5 milioni di euro a 10 milioni di euro, 40% oltre i 10 milioni di euro). Occorre eliminare tutte le forme di sponsorizzazione di scuole e università, mentre la vendita di bevande e snack nei locali pubblici (scuole, università, ospedali, biblioteche, eccetera) dovrebbe spettare alle sole aziende locali. La reti radio-televisive pubbliche devono ridurre drasticamente la pubblicità (e quindi uscire dalla logica del mercato e tornare ad essere un mezzo in grado di formare la cultura dei cittadini e non la brutta copia di una televisione commerciale).
Difesa
Difenderci… da chi e come?
L’Europa deve tornare ad essere effettivamente indipendente dalle potenze straniere. Occorre costruire un’unione effettiva dell’Europa, con un unico esercito affiancato da Corpi Civili di Pace non armati, e con un’unica politica estera. Questo favorirebbe la chiusura di molte basi militari e la riduzione drastica delle spese militari stesse a favore delle Municipalità.
Sostenibilità e diritti
Un’Europa ecologicamente sostenibile per diritti reali e tangibili.
Nell’infinità dei nostri bisogni ce ne sono alcuni che assumono il nome di diritti, perché vanno garantiti a tutti, indipendentemente dalla condizione economica, dal genere, dall’età, dalla fede religiosa o dal paese di provenienza. In altre parole vanno garantiti per il fatto stesso di esistere, in quanto attengono alla nostra dignità in quanto esseri umani. Una tale garanzia non è solo una questione di equa distribuzione della ricchezza, ma anche e soprattutto di libero accesso, da parte degli individui, a quelle risorse culturali, sociali e istituzionali senza le quali qualsiasi diritto è di fatto inesigibile.
Il tema dei diritti non può quindi che essere al centro di una progettazione politica socialmente, oltre che ecologicamente, sostenibile. Il grado di civiltà di una società si misura in base al livello di diritti che garantisce ai suoi membri, e tuttavia, perché tale livello possa essere mantenuto nel tempo, occorre una visione di lungo periodo che contempli la garanzia dei diritti delle generazioni future come obiettivo. E’ dunque assolutamente essenziale la nascita di una nuova cultura politica che sappia coniugare l’attenzione per l’ambiente con la preservazione dei diritti e delle libertà fondamentali degli individui, nucleo politico dei regimi liberal-democratici. L’idea centrale è che una società futura sostenibile ma con cittadini privi dei diritti e delle libertà fondamentali sia altrettanto distopica che una società di individui possessori di diritti e libertà mutilate a causa di un ambiente non sufficientemente salubre e/o di insufficienti risorse per esperirli concretamente. Una concezione politicamente liberale dei diritti è compatibile con una prospettiva di sostenibilità di lungo periodo, a condizione che il danneggiamento dei diritti delle generazioni future sia tenuto in debito conto e costituisca tanto un criterio guida per le politiche quanto un limite legittimo ad alcune libertà non fondamentali degli individui. Un’Europa dei diritti deve necessariamente essere un’Europa ecologicamente sostenibile, in quanto unicamente attraverso un ambiente sano i diritti possono essere reali e tangibili.
Una sana economia stazionaria che compensi queste due necessità – non contrapposte, bensì fortemente interdipendenti -, che sappia cioè coniugare rispetto dell’ambiente e diritti delle persone, comporta necessariamente un parziale ripensamento del mercato, e un suo ridimensionamento a una dimensione sostenibile. Ciò è possibile solo dando contemporaneamente maggior spazio alla dimensione comunitaria: rilocalizzare piuttosto che delocalizzare, ri-utilizzare piuttosto che sovra-produrre.
Pur fra mille imperfezioni già oggi si sono istituzionalizzate forme di economia solidale all’interno dei sistemi previdenziale, sanitario de educativo. Se da una parte queste forme di solidarietà comunitaria vanno rafforzate e gestite con maggiore efficienza, dall’altra vanno ripensate radicalmente in un’ottica di sostenibilità.
Occorre in conclusione trovare vie possibili per rompere la dipendenza dell’economia comunitaria dalla crescita. Una via per farlo è attraverso l’incentivazione della partecipazione dei cittadini al funzionamento dei servizi pubblici tramite il loro lavoro. La tassazione del tempo invece che del reddito è probabilmente una strada da perseguire. Ma potrà essere possibile solo se i cittadini si troveranno culturalmente preparati per questo passaggio. Per questo cultura, politica, società ed economia sono indissolubilmente legati al tema dei diritti. Ignorare tale evidenza significa vincolare i diritti alla loro dimensione negativa di opportunità esterne sancite da norme. L’obiettivo è invece l’espansione dei diritti non solo nel loro numero ma anche e soprattutto nella loro intrinseca multidimensionalità.
Primi firmatari
Manuel Castelletti, Igor Giussani, Simone Zuin, Francesco Gesualdi. Federico Tabellini, Gerhard Kuehl
Maurizio Pallante, Serena Pellegrino, Jean-Louis Aillon, Laura Cima, Pietro Del Zanna, Domenico Finiguerra, Roberta Radich, Ezio Orzes
Silvana Dal Cero, Mirko Omiccioli, Maurizio Martini, Danilo Tomasetta, Franco Moregola, Erika Patriarca, Naressi Graziano, Giulia Bassoli, Stefano Romboli, Elidio Rocchi