Di Marino Badiale
1. Introduzione
Questo articolo vorrebbe essere uno stimolo per una discussione sul tema della decrescita fra i sostenitori
 della decrescita stessa, da una parte, e, dall’altra, quegli economisti eterodossi che contestano in modo
 radicale le attuali politiche di austerità, e in generale il pensiero e le politiche neoliberiste, a partire da
 posizioni keynesiane o marxiste o da una mescolanza delle due correnti di pensiero. Si tratta di un dibattito
 che ho a più riprese invocato, l’ultima nelle pagine finali del libro sull’euro scritto assieme a Fabrizio
 Tringali [1]. Purtroppo le diffidenze e le ostilità fra i due gruppi non sembrano diminuire. I decrescisti
 vedono nelle posizioni degli economisti “eterodossi” semplicemente una versione “di sinistra” del dogma
 della crescita che essi combattono, gli economisti “eterodossi” vedono nella decrescita una ideologia
 reazionaria, confusionaria e incapace di fornire risposte reali e non regressive ai drammatici problemi
 contemporanei.
È mia convinzione che queste diffidenze possano e debbano essere superate, e in questo scritto cercherò
 di argomentare questa convinzione . Credo che questo superamento sia un’urgenza del tempo presente. La
 crisi che il mondo oggi attraversa risulta dal confluire di varie crisi relativamente indipendenti: siamo di
 fronte infatti ad una crisi economica che non si riesce a superare e ad una incipiente crisi ecologica [2]. E’
 evidente che non è possibile fornire risposte separate a queste due crisi. La risposta alla crisi ecologica non
 può prescindere dai problemi drammatici della disoccupazione e delle crescenti ineguaglianze, perché, se
 facesse così, la preoccupazione per l’ambiente apparirebbe come una fisima di benestanti senza problemi.
 D’altra parte, la risposta alla crisi economica non può sperare di ripercorrere le strade tipiche del
 keynesismo del “trentennio dorato”, perché quel modello era basato sulla fortissima crescita dei consumi
 materiali, che oggi non sembra più possibile dati i vincoli ecologici [3]. Il confronto su questi temi appare
 quindi una esigenza imprescindibile per confrontarsi seriamente con la nostra realtà.
2. Cos’è la decrescita
Cos’è la decrescita? I concetti fondamentali sono stati spiegati con molta chiarezza da autori come
 Maurizio Pallante e Serge Latouche [4]. Assieme a Massimo Bontempelli, abbiamo cercato in varie
 occasioni di chiarire alcuni punti importanti [5], ma poiché sembra vi sia ancora parecchia confusione,
 ripetiamo qui in sintesi i concetti fondamentali. Il punto di partenza è la distinzione fra beni e merci. I beni
 sono i prodotti del lavoro umano che soddisfano bisogni, le merci sono quei particolari beni prodotti per
 essere venduti sul mercato in cambio di denaro. Ciò che si chiama “crescita” o “sviluppo” consiste
 nell’aumento dei valori monetari delle merci prodotte in un’economia. Consiste cioè nell’aumento
 quantitativo della sfera della produzione e dello scambio di merci. È il volume di questa sfera della società
 ciò che viene misurato dal PIL. Questo aumento storicamente è avvenuto da una parte grazie ad una
 grande crescita quantitativa della produzione di beni materiali in forma di merci, resa possibile dagli
 enormi aumenti di produttività realizzati all’interno del modo di produzione capitalistico, dall’altra grazie
 all’estensione della logica capitalistica molto al di là della sua sfera iniziale. E’ successo cioè, per chiarire
 questo secondo punto, che una grande quantità di beni e servizi che un tempo erano creati dal lavoro
 umano non in forma di merci, e destinati all’autoconsumo o a scambi di tipo non mercantile, sono stati
 sostituiti da analoghi beni e servizi prodotti in forma di merce. Per cui, per fare due esempi banali, un
 tempo la famiglia produceva da sé buona parte del cibo che consumava, mentre oggi esso viene quasi tutto
 comprato; un tempo l’assistenza a bambini ed anziani era un servizio prestato all’interno dei rapporti non
 mercantili della famiglia (allargata) mentre oggi sempre più si ricorre a babysitter e badanti a pagamento.
 Ora, questo sviluppo ha indubbiamente consentito enormi progressi: ha sottratto alla miseria la grande
 maggioranza degli abitanti dei paesi occidentali, e allo stesso tempo ha sottratto gli individui ai legami di
 rapporti umani predeterminati, consentendo lo sviluppo di individualità autonome.
Il problema che non può più essere eluso è il fatto che questo tipo di sviluppo sembra aver raggiunto un
 punto di svolta, oltre il quale gli svantaggi e i contraccolpi negativi che esso produce cominciano a
 superarne i vantaggi. Ovviamente i problemi ecologici (inquinamento, esaurimento delle risorse,
 cambiamenti climatici) fanno parte di questi contraccolpi negativi, sul lato dei rapporti fra società e natura.
 Ma si potrebbe aggiungere che ormai lo sviluppo ha effetti negativi direttamente sul corpo sociale. Il fatto
 che l’intero ambito sociale venga riconformato secondo la logica del profitto non può non devastare tutti
 quei mondi la cui logica intrinseca è estranea all’aziendalismo: la scuola o l’assistenza sanitaria, per
 esempio.
Il punto è che il modo di produzione capitalistico non ha come fine il bene degli esseri umani. Esso non ha
 in effetti altro fine che la propria riproduzione allargata. La crescita economica, in quanto espressione della
 logica del capitale, è senza fine e senza fini. E se per un periodo storico essa ha rappresentato, pur tra mille
 contraddizioni, un indubbio fattore di progresso, questo dipende appunto non dalla sua logica intrinseca
 ma da una serie di “condizioni al contorno”. Non è quindi contraddittorio pensare che, al cambiare di tali
 condizioni, la stessa crescita economica possa diventare fattore di regresso. Una delle tesi fondamentali
 della decrescita è appunto che si sia oggi arrivati a questo punto: le condizioni che hanno fatto sì che la
 crescita abbia rappresentato un progresso non ci sono più, e non ci sono più, possiamo aggiungere, proprio
 per effetto della crescita. Come s’è detto, l’esigenza del profitto, o della riproduzione allargata del capitale,
 non ha nessun legame logico con l’esigenza di conservazione degli instabili equilibri ambientali, o con la
 logica dell’educazione insista in una istituzione come la scuola, o con quella dell’assistenza insita nel
 concetto di assistenza sanitaria. In altri termini, estendendosi il rapporto sociale capitalistico, esso piega
 alla sua logica ambiti sociali che dovrebbero rispondere a logiche diverse, e che ne vengono quindi
 stravolti, dissestati e sostanzialmente aboliti nella loro specificità. La crescita diventa distruttiva di società e
 natura (almeno di una natura accogliente per gli esseri umani: ovviamente, anche un deserto di scorie
 inquinate abitato solo da muschi e scarafaggi è pur sempre “natura”). I problemi dell’inquinamento e
 dell’esaurimento delle risorse, che rendono oggi difficile pensare ad una crescita economica che prosegua
 ancora a lungo con i ritmi che ha avuto nei decenni del secondo dopoguerra, sono quindi solo un aspetto
 particolare di questa problematica più ampia [6].
 La contraddizione fondamentale nella quale si trovano prese le nostre società capitalistiche è dunque la
 seguente: da una parte la crescita è necessaria, all’interno dell’attuale organizzazione sociale, per produrre
 e distribuire ricchezza in modo da prevenire la dissoluzione della società, dall’altra la crescita è ormai
 distruttiva sia della natura sia del legame sociale. Se mi è permessa una autocitazione, il capitalismo “è
 ormai la maledizione del genere umano, che è condannato, per creare e distribuire ricchezza secondo i
 rapporti di produzione capitalistici, in maniera sufficiente a mantenere un minimo di equilibrio sociale, a
 vivere in modo sempre più distruttivo nei confronti della natura e di se stesso” [7].
La proposta della decrescita vuole confrontarsi con questa situazione e proporre una soluzione a questa
 drammatica contraddizione. La soluzione consiste nell’uscire dal meccanismo della crescita senza fine e
 senza fini, facendo regredire (anche se non scomparire) la sfera della produzione capitalistica di merci. Si
 tratterebbe di reintrodurre, per quanto possibile, forme di autoproduzione di beni (non di merci) destinate
 all’autoconsumo o a reti di scambi non mercantili, di ridurre l’orario di lavoro, di introdurre una estesa rete
 di servizi sociali gratuiti forniti dallo Stato [8]. Poiché non possiamo scrivere qui un altro libro sulla
 decrescita, rimandiamo ai testi sopra citati per approfondimenti su queste proposte. Basti qui sottolineare
 che l’idea che le sostiene è quella di una società nella quale tutti abbiano assicurati i servizi fondamentali e
 abbiano anche il tempo, libero dal lavoro salariato, per vivere relazioni umane che permettano la
 riproduzione dei legami sociali, e fra le altre anche le relazioni che permettano scambi non mercantili di
 beni e servizi. Se questo è il lato “positivo” della decrescita, il suo lato “critico” può essere formulato nel modo seguente: essa è la messa in questione del dogma alla base della politica e dell’economia
 contemporanee, il dogma secondo cui la crescita è condizione necessaria (magari non sufficiente) per
 risolvere tutti i fondamentali problemi sociali, col corollario che quei problemi che non possono essere
 affrontati tramite la crescita non vengono affrontati per nulla.
3. Cosa non è la decrescita (risposta a qualche obiezione)
Dopo aver così sommariamente spiegato cosa è la decrescita, possiamo provare a dire cosa essa non è,
 cioè a dissipare alcuni dei punti di poca chiarezza che ritornano continuamente nel dibattito su questi temi.
Un punto fondamentale è il seguente: la decrescita non significa l’imperativo di diminuire il PIL in ogni
 intervallo di tempo [9]. Non si chiede cioè di impostare politiche economiche che facciano costantemente
 diminuire il PIL. E’ chiaro che attuare un programma di conversione ecologica dell’economia (per usare la
 bella espressione di Guido Viale) richiederà investimenti che tenderanno a far crescere il PIL. Impostare
 una politica economica indirizzata alla decrescita può quindi significare, in certi momenti, far aumentare il
 PIL. Resta il fatto che, a meno di oscillazioni, la tendenza sarà quella alla diminuzione del PIL, proprio
 perché l’aumento del PIL ha bisogno dell’estensione del rapporto sociale capitalistico a sempre nuove sfere
 sociali, e una politica di decrescita vuole invece far regredire la sfera sociale soggetta a tale rapporto
 sociale. Ora, poiché l’intera struttura sociale attuale si basa sulla crescita, è chiaro che impostare una
 politica che, anche solo tendenzialmente e sul medio periodo, porti alla diminuzione del PIL, significa
 sconvolgere la società, e tale sconvolgimento deve essere fronteggiato con opportune misure politiche ed
 economiche [10]. E’ dunque fondamentale che chi propone una politica indirizzata alla decrescita abbia
 presente questo carattere destrutturante che ha l’idea della decrescita rispetto all’attuale organizzazione
 sociale. In questo senso, è corretto insistere sul concetto della diminuzione del PIL, nonostante, come s’è
 detto, possa portare all’equivoco di pensare che la proposta della decrescita equivalga alla proposta di una
diminuzione del PIL in ogni intervallo di tempo.
Se si tengono presenti le cose fin qui dette, e i lavori che abbiamo sopra citato, è possibile superare molte
 delle obiezioni e delle incomprensioni che circolano in relazione al tema della decrescita. I testi sopra citati
 (in particolare Per un’abbondanza frugale di S.Latouche) cercano in vari modi di chiarire le molte possibili
 incomprensioni, e non ripeteremo qui discussioni già svolte. Può essere però interessante discutere alcune
 obiezioni nelle quali mi sono imbattuto di recente e che non rientrano quindi dentro la casistica di quelle
 già esaminate nei miei scritti precedenti. La discussione servirà a mostrare come, se c’è chiarezza
 concettuale, non sia difficile proporre una prima risposta a tali obiezioni, permettendo quindi a chi le ha
 formulate di elaborarle e facendo quindi maturare il dibattito.
La prima obiezione è quella di chi dice che i decrescisti attaccano la nozione stessa di PIL. Ma, prosegue
 l’obiezione, il PIL è semplicemente un concetto scientifico come un altro, utile a descrivere lo stato di
 un’economia, e non ha senso “prendersela col PIL” più di quanto abbia senso prendersela con la carica
 elettrica o la temperatura, concetti scientifici utilizzati nelle scienze fisiche. La risposta a questa obiezione è
 abbastanza semplice: essa sembra nascere da una conoscenza non approfondita delle tesi del movimento
 della decrescita. Può darsi, certamente, che in certe sue formulazioni più “sloganistiche”, la decrescita
 sembri attaccare il PIL in quanto tale. Ma l’essenza della decrescita consiste in primo luogo nella critica al
 dogma, sopra enunciato, della crescita del PIL come risposta ai problemi sociali, e in secondo luogo nella
 tesi che, nelle condizioni attuali, perseguire la crescita del PIL porta a effetti negativi. Per utilizzare il
 paragone con le scienze fisiche, la posizione della decrescita non ha analogie con l’ipotetica posizione di un
 pazzo che critichi “il concetto di temperatura”, ma piuttosto con la posizione di chi combatte il
 riscaldamento climatico globale. La differenza mi sembra chiara.
La seconda obiezione è quella di chi nota che il PIL può benissimo crescere per lo sviluppo di un’economia
 “immateriale”, non legata alla produzione di oggetti fisici, e quindi la crescita del PIL non porta necessariamente a problemi come quelli dell’inquinamento o dell’esaurimento della risorse. A questa
 osservazione si possono dare essenzialmente due risposte. La prima è contenuta in quanto si è detto
 all’inizio. L’invasività della merce non riguarda solo la natura ma anche la società. L’estensione del modello
 dell’azienda a ogni forma di attività sociale distrugge i fondamenti stessi del legame sociale. È difficile
 pensare che una crescita del PIL basata soprattutto sui servizi non contempli il fatto che tutta una serie di
 servizi oggi forniti (ancora) dallo Stato, o all’interno di relazioni non mercantili (tipicamente, la famiglia)
 debbano diventare merci da comprare sul mercato. Ma abbiamo detto che questa dinamica è uno degli
 aspetti della crisi sociale contemporanea, e contro di essa combatte il pensiero della decrescita.
Il secondo tipo di risposta riguarda il fatto che sembra poco credibile una crescita del PIL che riguardi solo i
 servizi e non coinvolga in nessun modo la produzione materiale. In primo luogo, nessun servizio oggi viene
 fornito a mani nude. La crescita dei servizi informatici fa aumentare le vendite di computer, e così per il
 resto. Inoltre, in ogni caso, la crescita comporta l’aumento del reddito globale, ed è difficile pensare, ferma
 restando la nostra organizzazione sociale, che questo aumentato reddito non si traduca nell’aumento di
 acquisti di beni materiali (e non solo di servizi). I tecnici informatici, assunti per produrre servizi
 immateriali, col loro stipendio si compreranno, possiamo immaginare, auto, cellulari, viaggi in aereo, case
 al mare e così via. In sostanza sembra difficile isolare la crescita “immateriale” da quella materiale, e
 sembra difficile pensare che la crescita, comunque ottenuta, non abbia in ogni caso effetti negativi sul
 problema dell’inquinamento e dell’esaurimento delle risorse.
Una terza obiezione è legata alla attuale crisi economica, ed è quella di chi suggerisce che la decrescita
 possa essere lo strumento ideologico dei ceti dominanti per far accettare ai ceti subalterni le conseguenze
 negative della recessione economica. I ceti dominanti, che non sanno come far uscire le nostre società
 dalla crisi economica, starebbero cioè favorendo il diffondersi della tematica della decrescita perché in tal
 modo sarebbe più facile far accettare il permanere della crisi stessa e le sue conseguenze di povertà sui
 ceti medi e bassi. Chi formula tale obiezione commette a mio avviso diversi errori. In primo luogo confonde
 la nozione di decrescita con quella di recessione. Non mi dilungo molto sull’importanza di questa
 distinzione, perché ne ho già parlato nei testi scritti assieme a Bontempelli, sopra citati. Basti dire che la
 recessione è la diminuzione del PIL all’interno dell’attuale struttura economica e sociale, la decrescita è la
 diminuzione del PIL all’interno di un percorso di radicale cambiamento di tale struttura. E sembrerebbe
 davvero strano che i ceti dominanti all’interno di una determinata struttura economica e sociale progettino
 un radicale sovvertimento della stessa struttura. Si tratterebbe di un evento piuttosto raro nella storia
 umana. E oltretutto, se davvero lo volessero, non avrebbero che da farlo, visto che stiamo parlando
 appunto dei ceti dominanti, cioè di coloro che hanno il potere reale. Questa osservazione ci porta alla
 seconda obiezione che si può fare a questa tesi: davvero non si vede nessuna traccia di questa “scelta della
 decrescita” da parte dei ceti dominanti. Se si ascoltano le dichiarazioni di tutto il ceto dirigente italiano ed
 europeo (i politici di destra, centro e sinistra, i sindacati, le associazioni di imprenditori, il mondo
 accademico che conta, i giornali importanti) è evidente che la crescita è considerata come una delle
 priorità fondamentali e che i sacrifici che vengono chiesti ai ceti medi e bassi sono giustificati con la
 promessa che essi porteranno ad una crescita stabile (non certo alla decrescita). Se talvolta da costoro
 viene usato il termine decrescita, è solo come sinonimo di recessione, e ovviamente questo non è il modo
 per renderlo popolare. Se poi questo ceto dominante non riesce ad assicurare la crescita che insegue da
 anni, questo non dipende dal fatto che intenda scegliere la decrescita, ma dipende dal fatto che ci sono
 situazioni nelle quali vengono al pettine i nodi strutturali di una fase storica, e i ceti dirigenti vedono
 esplodere una serie di contraddizioni che non riescono più a gestire. E’ mia convinzione che questa sia
 appunto la situazione attuale.
4. Cos’è il progresso?
Può essere interessante, per introdurre alcune considerazioni che spero possano far progredire il dibattito,
 discutere brevemente ancora un’altra delle tipiche obiezioni rivolte contro la decrescita, quella cioè di essere nemica del progresso scientifico e tecnologico. Si tratta di una obiezione che non ha nessun
 fondamento. Al contrario, la decrescita richiede avanzamenti scientifici e tecnologici per poter essere
 efficace: essa ha infatti bisogno di una politica di risparmi energetici e, contemporaneamente, del
 passaggio dalle fonti fossili a quelle rinnovabili; ha poi bisogno di innovare totalmente la produzione
 materiale, puntando a prodotti di lunga durata, facilmente riparabili e i cui materiali, alla fine della loro
 vita, possano essere totalmente recuperati. È evidente che tutto questo (e sono solo degli esempi, per
 quanto importanti) richiede che lo sviluppo scientifico e tecnologico vada avanti. Certo, la decrescita non è
 favorevole a qualsiasi sviluppo scientifico e tecnologico: alcuni settori andranno fermati e altri ampliati o
 creati ex novo. Ma questa non è nient’altro che normale politica delle ricerca.
In generale, si potrebbe pensare che la decrescita sia contraria al progresso, e assuma quindi la posizione di
 una ideologia reazionaria, nostalgica del buon tempo antico e della vita contadina prima della modernità.
 Non possiamo certo escludere che posizioni di questo tipo si ritrovino entro il movimento della decrescita,
 e a suo tempo abbiamo polemizzato con alcune loro espressioni. Il punto sta nel fatto che è perfettamente
 possibile una decrescita non reazionaria, ed essa, come abbiamo detto all’inizio, potrebbe entrare in
 sintonia con alcune tesi elaborate in questi anni da economisti progressisti esterni al mainstream
 neoliberista tipico della professione.
È certo che occorre diffidare dell’ideologia del progresso in quanto legge metafisica della storia. Su questo
 non c’è bisogno di spendere molte parole, perché un tale tipo di critica è stata fatta da importanti
 pensatori del Novecento (un esempio fra i tanti, il Benjamin delle “tesi di filosofia della storia”)[11]. Una
 tale critica all’ideologia del progresso, del resto, è largamente indipendente dalle tesi della decrescita, e ne
 è piuttosto un presupposto logico. Questo però non significa negare che nei due secoli di storia della
 modernità capitalistica dei paesi occidentali vi sia stato, pur fra mille contraddizioni, un progresso reale e
 concreto. Il punto decisivo da capire è il seguente: la decrescita è la risposta ad una situazione nuova,
 appunto quella in cui ci troviamo dopo due secoli di progresso (contraddittorio, accidentato, segnato da
 conflitti, ma pur sempre progresso). Il miglioramento effettivo e drastico delle condizioni di vita della
 maggioranza delle persone, nei paesi occidentali, ha creato problemi nuovi, per affrontare i quali
 occorrono nuovi modi di pensare. È assurdo affrontare i problemi creati dalla crescita eccezionale degli
 ultimi due secoli con schemi mentali adatti alla situazione precedente.
Facciamo due esempi concreti, per spiegare la situazione.
Il primo esempio è quello dell’obesità [12]. Si tratta di un problema del quale si stanno occupando
 seriamente le autorità sanitarie di tutti i paesi occidentali (e non solo). Essa viene ormai descritta come una
 pandemia, la cui incidenza nella popolazione sta costantemente aumentando e che colpisce, in gradi
 diversi, tutti i paesi sviluppati, ma non solo essi. L’obesità è un serio problema sanitario perché si associa a
 vari tipi di disturbi e all’aumento di mortalità. L’obesità cioè, tendenzialmente, fa vivere di meno e peggio.
 Inoltre, l’obesità colpisce maggiormente gli strati sociali inferiori [13]. Se tutto questo è vero, appare
 evidente come lo sviluppo economico degli ultimi secoli, e in particolare quelli dei decenni succeduti alla
 Seconda Guerra Mondiale, abbia cambiato almeno alcuni dei caratteri di quella che era chiamata “la
 questione sociale”. Semplificando, forse un po’ troppo, per esigenze di chiarezza, potremmo dire che una
 volta i poveri erano affamati, oggi, almeno nei paesi occidentali, sono obesi [14]. Ma questo significa che
 sono cambiati i problemi, e che non si possono più affrontare gli aspetti attuali della “questione sociale”
 con le idee adatte alle situazioni di penuria nelle quali si è dibattuta l’umanità per larga parte della sua
 storia. Lo sviluppo economico ha creato problemi nuovi che vanno affrontati nella loro specificità. L’obesità
 è il risultato del mangiare troppo e male. È chiaro che la soluzione non sta nello sviluppo, nella produzione
 di quantità sempre maggiori di cibo. La soluzione sta nel mangiare meno e meglio. Il punto è che non
 sembra possibile impostare seriamente una politica del “mangiare meno e meglio”, all’interno del
 paradigma della crescita, perché è proprio tale paradigma che porta all’esplosione del problema
 dell’obesità. Del resto, questo slogan “meno e meglio”, è esattamente la descrizione della decrescita [15],
 che propone in generale di produrre meno merci ma migliori, cioè più durature e a minore impatto ambientale.
Il secondo esempio è quello dei regali ai bambini. Nella generazione di mia figlia, che frequenta la scuola
 primaria, è prassi normale che per il compleanno si organizzi una festa in cui vengono invitati tutti i piccoli
 compagni di scuola più altri bambini con i quali ci sono delle relazioni amicali. Ogni invitato porta un regalo,
 e ciò significa che al festeggiato arrivano 20 o 30 regali. Nel mio ricordo, ai compleanni di me bambino e
 dei miei coetanei il festeggiato riceveva forse 4 o 5 regali. Ecco allora un tipico esempio di crescita.
 L’aumento del reddito permette di pagare feste di compleanno più dispendiose che implicano un maggior
 numero di invitati e quindi di regali, e le maggiori spese (sia per la festa sia per i regali) contribuiscono
 all’aumento del PIL e quindi all’aumento del reddito globale. La domanda da porsi è ovvia: ma i bambini
 sono più felici? La risposta non è semplice. E’ certo che, una volta instaurata la prassi dei 20 o 30 regali, il
 bambino percepirebbe il ritorno ai 4 o 5 regali come una perdita. A maggior ragione se questo riguardasse
 solo lui o lei, mentre gli amici continuerebbero a ricevere i 20 o 30 regali. Ma il bambino è anche
 fortemente condizionato dal suo ambiente, cioè dalla famiglia e dal gruppo di amici. In una situazione nella
 quale fosse usuale per tutti i bambini ricevere 4 o 5 regali, difficilmente un bambino normale percepirebbe
 questo come una perdita: esattamente come succedeva a me bambino e ai miei amichetti. Ci si può allora
 chiedere, indipendentemente dalle preferenze del bambino, cosa sia meglio per lui. Da questo punto di
 vista, appare difficile sostenere che il passaggio dai 4-5 regali ai 20-30 sia davvero un progresso per il
 bambino. E’ banale ricordare che la crescita umana del bambino ha bisogno soprattutto di genitori che
 abbiano tempo per lui, di amici con cui giocare, di cure e attenzione. Certo, ha bisogno anche di giocattoli:
 ma è ovvio che il giocattolo è solo un supporto per la creatività del gioco, e che il bambino, se
 opportunamente stimolato, può davvero giocare con quasi qualsiasi cosa. La bulimia da giocattoli non
 appare quindi utile alla crescita umana del bambino. Del resto, si tratta di una verità che ciascuno di noi si
 porta dentro. Se ognuno si guarda dentro, alle radici delle proprie ferite, delle scelte affettive sbagliate,
 degli errori che abbiamo commesso nella vita, si scopre sempre un bambino che ha sofferto nel rapporto
 con i genitori, per una madre incapace di amare o un padre severo e distante. Ma per quanto ci guardiamo
 dentro, difficilmente troveremo un bambino che ha sofferto perché ha ricevuto 5 regali invece di 30, in una
 situazione in cui ricevere 5 regali era la cosa normale nella propria cerchia di relazioni. E lo stesso possiamo
 pensare dei nostri figli: i nostri errori di genitori saranno quelli di essere stati o troppo distanti o non
 abbastanza, o troppo severi o non abbastanza. Se avranno delle ferite saranno, anche per loro, quelle di un
 rapporto sbagliato con i propri genitori, non certo quelle di un giocattolo in meno.
Vorrei precisare un punto, perché sia chiaro il discorso che qui si tenta di fare: non si sta sostenendo che il
 rapporto genitori-figli 40 o 50 anni fa fosse migliore di adesso, e non si sta quindi dicendo che tornando a
 fare meno regali ai figli, di per sé, questo rapporto migliori. Il discorso è piuttosto il seguente. Cinquanta
 anni fa la nostra economia ci permetteva di fare certe cose: si lavorava per un certo numero di ore alla
 settimana e potevamo permetterci di regalare 5 giocattoli ad un bambino per il suo compleanno. Da allora
 la nostra economia è cresciuta, siamo più ricchi. Ma cosa ne abbiamo fatto di questa ricchezza? Senza che
 nessuno lo abbia chiaramente scelto, abbiamo deciso di continuare a lavorare un tempo più o meno uguale
 a prima e di regalare 30 giocattoli per il compleanno di un bambino. Non era possibile una scelta diversa?
 Non era possibile pensare di continuare a regalare 5 giocattoli invece di 30, e lavorare di meno in modo che
 i genitori potessero stare più tempo con i figli? E se questo non è stato possibile farlo finora, perché non
 pensare di poter cominciare a farlo adesso? In sostanza ciò che si propone non è di tornare alla situazione
 di 50 anni fa, ma di usare la maggiore ricchezza in modo diverso rispetto a quanto è stato fatto finora.
5. Quali bisogni?
Il discorso della decrescita si collega in maniera ovvia a tutte le analisi critiche che sono state svolte, da
 decenni a questa parte, sulla società dei consumi. E questo tipo di critiche si collega a sua volta ad una
 riflessione di tipo antropologico e filosofico sull’essere umano e sulla natura dei suoi bisogni e desideri.
 I temi fondamentali della critica alla società dei consumi sono stati svolti e approfonditi, come s’è detto, da
 decenni. Al loro sviluppo hanno contribuito gli autori più diversi [16]. Si può dire che tali temi siano ormai
 entrati nel senso comune. Anche nelle conversazioni più banali, al bar o in uno scompartimento del treno,
 può capitare di sentire echi di quelle elaborazioni intellettuali. I temi della critica alla società dei consumi
 che adesso ci interessano possono essere riassunti nella tesi che la società dei consumi è una società che
 deve creare continuamente insoddisfazione: il consumatore deve essere continuamente spinto a sentire di
 breve durata il piacere delle merce appena comprata. Un consumatore soddisfatto non consuma più.
La soddisfazione dei bisogni fondamentali non può essere il fine dell’economia, perché, una volta
 soddisfatti tali bisogni, la crescita verrebbe bloccata. Di conseguenza, la società dei consumi deve
 continuamente creare nuovi bisogni per spingere il pubblico all’acquisto di merci che li soddisfino.
La società dei consumi si basa quindi su un meccanismo che non è eccessivo definire nevrotico: si devono
 creare continuamente insoddisfazioni che portino all’acquisto di merci ma non ad una vera soddisfazione,
 che bloccherebbe il ciclo del consumo. L’acquisto compulsivo diventa la copertura, la reazione nevrotica ad
 una insoddisfazione di fondo.
La proposta delle decrescita si accorda in modo naturale con questo tipo di analisi critica: al posto
 dell’acquisto compulsivo di merci destinate a rapida obsolescenza si propone la soddisfazione nel possesso
 di beni durevoli, nella liberazione del tempo dal lavoro salariato e nella cura della relazioni umane.
Nei dibattiti intellettuali sono state sollevate varie obiezioni a questo tipo di analisi della società dei
 consumi.
In primo luogo si obbietta che la distinzione fra “bisogni fondamentali” e “bisogni indotti” non appare ben
 fondata, perché in qualche modo tutti i bisogni hanno un carattere di costruzione sociale, e quindi sono in
 un certo senso indotti. Se è vero che l’essere umano deve mangiare, e che il suo apporto calorico
 quotidiano non può scendere sotto una certa soglia, è anche vero che esistono forme diversissime di
 soddisfazione di questo bisogno primario. Gli esseri umani, nella loro storia, hanno consumato i cibi più
 diversi nei modi più diversi. E queste diversità hanno, in larga parte, una matrice sociale.
In secondo luogo, la critica alla crescita dei bisogni e delle merci per soddisfarli può apparire come una
 critica regressiva allo stesso processo di civilizzazione. Infatti tale processo può essere visto appunto come
 la creazione di sempre nuovi bisogni (il bisogno di mangiare con le posate invece che con le mani o di
 mangiare cibi cotti invece che crudi, il bisogno di abitare in case riscaldate invece che in capanne o caverne,
 per fare qualche facile esempio) e dei mezzi per soddisfarli. Criticare la creazione di nuovi bisogni può
 apparire allora come l’invito a tornare ad abitare nelle caverne mangiando cosce di bisonte crude.
Per rispondere a queste obiezioni conviene partire dalla seconda. L’errore di tale obiezione è quello di non
 distinguere fra tipi diversi di bisogni. E’ certo che la crescita di civiltà implica la crescita di sempre nuovi
 bisogni e della capacità di soddisfarli, ma questo non vuol dire che la civiltà consista nella creazione e
 soddisfazione di qualsiasi bisogno. Se così fosse, bisognerebbe concludere che la tossicodipendenza è un
 grande contributo alla civiltà, e sforzarsi di diffondere il più possibile l’uso delle più diverse droghe. L’ideale
 umano sotteso a queste argomentazioni è proprio quello della persona dipendente da droghe, e anzi dal
 maggior numero possibile di droghe diverse, visto che aumento dei bisogni= aumento della civiltà. Per
 uscire da queste contraddizioni occorre distinguere fra tipi diversi di bisogni, e rendersi conto che esiste
 una gerarchia fra bisogni, per cui una volta soddisfatti i bisogni materiali, la crescita di civiltà non sta in un
 aumento indifferenziato dei bisogni, ma nella crescita dei bisogni che sono specifici dell’essere umano, che
 è l’essere capace assieme di ragione e di sentimenti. Una volta che siano assicurati a tutti il cibo, la casa, il
 vestiario, la scuola, l’assistenza sanitaria e così via, i bisogni che fanno crescere la civiltà sono i bisogni
 relativi al godimento dei prodotti dello spirito umano: dalle relazioni umane stesse ai prodotti dell’arte e
 dell’intelligenza. Ma la proposta della decrescita va appunto in questa direzione: diminuire la dipendenza dalle merci e l’orario di lavoro per aumentare la possibilità di godere delle relazioni umane e dei prodotti
 dello spirito.
Si tratta di una posizione teorica che non è certo nuova nella storia del pensiero: solo per restare al
 pensiero occidentale, è in sostanza quello che hanno detto e ripetuto la quasi totalità dei filosofi, a partire
 da Platone. Proprio nei testi di Platone si può infatti trovare una analisi del carattere negativo e
 insoddisfacente della soddisfazione dei piaceri materiali come fine in sé, e della necessità, per trovare una
 vera soddisfazione per l’essere umano, di passare ad un altro livello di piaceri e godimenti. E’ interessante
 notare che le analisi di Platone possono essere facilmente lette come una tematizzazione critica ante
 litteram sia del consumismo che delle tossicodipendenze, e presentano forti assonanze con quanto
 descritto in tempi moderni da ex-tossicodipendenti a proposito della loro esperienza [17].
Per quanto riguarda la prima obiezione, quella relativa al carattere storicamente determinato dei bisogni
 umani, e alla conseguente difficoltà teorica di distinguere fra “bisogni fondamentali” e “bisogni indotti”,
 occorre naturalmente accettarne il fondo di verità. E’ proprio così, ciò che è “bisogno” per l’essere umano
 dipende grandemente dalla situazione storicamente determinata di ciascuna società, e la distinzione fra i
 due tipi di bisogni non è quindi fissata una volta per tutte. Ma la correttezza di questa osservazione non
 invalida il discorso della decrescita. Cerchiamo di spiegare perché. Cominciamo con l’osservare un aspetto
 curioso di questa obiezione. Essa ci dice in sostanza che la nozione di “bisogno” è storicamente
 determinata, che i “bisogni” sono in qualche modo plasmati dalla storia e dalla società. Ma perché questa
 osservazione corretta deve implicare che sia un bene andare verso la moltiplicazione continua dei bisogni e
 delle merci che dovrebbero soddisfarli? Il fatto che i bisogni siano storicamente determinati, e quindi in
 qualche modo plasmati dalla storia e dalla società, non significa che si debba accettare ogni forma
 storicamente determinata di struttura dei bisogni. Potrebbe anzi significare che, di fronte ad una data
 struttura dei bisogni, è pensabile che essa possa essere cambiata, andando nella direzione di una maggiore
 frugalità. Ma, potrebbe ribattere il critico della decrescita, se si vuole andare nella direzione di una
 diminuzione dei bisogni di beni materiali, occorrerebbe dire fino a che punto essa debba arrivare, quale sia
 il livello di bisogni che è “giusto” e “naturale” soddisfare; ma questo, per quanto detto sul carattere
 storicamente determinato dei bisogni, appare impossibile. Questa obiezione appare ragionevole perché si
 ha in mente una immagine sbagliata del mutamento storico, l’idea cioè che i grandi cambiamenti storici
 avvengano sulla base di programmi stabiliti a priori nei dettagli, che si tratta solo di applicare. In questo
 caso occorrerebbe avere stabilito a priori il piano che stabilisca i bisogni “naturali” da soddisfare e quelli
 “indotti” da cassare. Ma i grandi mutamenti storici non avvengono mai in questo modo. In molti casi i
 Grandi Piani Strategici proprio non ci sono (nessuno ha programmato il passaggio dalla società antica,
 basata sulla schiavitù, al medioevo feudale) e quando ci sono vengono sempre disattesi: le cose, nei grandi
 mutamenti storici, non vanno mai secondo i piani. Cosa significa tutto ciò rispetto al problema di cui stiamo
 discutendo? Significa che una politica per la decrescita dovrà senz’altro cercare una riduzione del
 consumismo e della spinta alla creazione di sempre nuovi bisogni materiali. L’obiettivo non sarà quello di
 arrivare a un livello di bisogni “giusti” fissato in anticipo ma sarà quello di diminuire il più possibile lo
 spreco di risorse naturali, l’inquinamento, l’effetto serra, l’impronta ecologica. Il fatto di avviare politiche di
 questo tipo provocherà una serie di contraccolpi a partire dai quali si potrà discutere di nuovi livelli di
 bisogni. Si avvierà in questo modo una dinamica di mutazione della struttura dei bisogni che andrà nella
 direzione di un rapporto fra economia, legami sociali e natura che non sia distruttivo nei confronti degli
 ultimi due termini. Quale sia il livello “giusto” di bisogni che permetterà questo equilibrio, risulterà dalla
 concreta dinamica storica. È impossibile e fuorviante pensare di stabilirlo apriori.
6. Economisti critici.
Dopo questa lunga discussione nella quale abbiamo cercato di tratteggiare alcuni aspetti della
 costellazione teorica legata alla decrescita, possiamo finalmente cercare di capire se vi sono analogie con
 quanto vanno sostenendo alcuni economisti di ambito più o meno “eterodosso”. E’ chiaro infatti che nessun contatto vi può essere con gli economisti mainstream, per i quali la crescita è l’alfa e l’omega della
 politica economica e che si dividono solo sul tema di quali siano le ricette più efficaci per ottenere la tanto
 agognata crescita.
In effetti, sembra che esistano alcune minoranze eterodosse alle quali ha senso proporre una interazione
 col pensiero della decrescita.
E si può cominciare proprio dal pensiero di J.M Keynes, che nel 1930 pubblica un articolo dal titolo
 “Prospettive economiche per i nostri nipoti” [18]. La tesi di questo breve testo è molto semplice: è
 possibile secondo Keynes pensare che lo sviluppo economico dei prossimi cento anni porterà ad una tale
 crescita di ricchezza da assicurare la soluzione del “problema economico”. Ciò significa che in sostanza sarà
 possibile assicurare a tutti la soddisfazione dei “bisogni assoluti” [19] con un impegno lavorativo sempre
 minore. Keynes parla esplicitamente di “turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore” [20]. Le
 conseguenze umane di questa situazione sono da Keynes abbozzate con poche e interessanti osservazioni:
 “Vedo quindi gli uomini liberi tornare ad alcuni dei principi più solidi e autentici della religione e della
 virtù tradizionali: che l’avarizia è un vizio, l’esazione dell’usura una colpa, l’amore per il denaro
 spregevole, e che chi meno s’affanna per il domani cammina veramente sul sentiero della virtù e
 della profonda saggezza. Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all’utile.
 Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l’ora e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa
 capace di trarre un piacere diretto dalle cose, i gigli del campo che non seminano e non filano” [21].
Al di là dei voli lirici di Keynes il senso delle sue parole mi sembra piuttosto chiaro: il superamento del
 “problema economico” comporterà un profondo mutamento nei valori di fondo, dando a tutti la possibilità
 di concentrarsi su ciò che è specifico dell’essere umano invece che sulla lotta per la sopravvivenza.
 Ovviamente Keynes scriveva in un momento storico nel quale non erano attuali né il problema ecologico
 né la deriva consumistica. Ma non è difficile inserire queste tematiche nella sua prospettiva. Il punto
 fondamentale della proposta di Keynes è infatti quello di insistere sulla crescita economica fino a dare a
 tutti una larga soddisfazione di quelli che lui chiama “bisogni assoluti”, per poi usare la ricchezza per
 liberare il più possibile il tempo della vita dal lavoro. Se in questo inseriamo l’idea di perseguire un sistema
 di consumi centrato sul risparmio (di energia e materiali), sul rifiuto del consumismo, sulla necessità di
 curare le relazioni umane per gestire reti di scambio non mercantili, otteniamo una proposta molto simile a
 quella illustrata nella prima parte di questo saggio.
Questo tipo di riflessioni keynesiane sono state sviluppate da vari autori. Per quanto riguarda l’Italia, ci
 sembra particolarmente significativo il lavoro di Giovanni Mazzetti [22], che da decenni sostiene la tesi di
 una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro come unica via per uscire dal vicolo cieco in cui ci hanno
 cacciato le politiche economiche neoliberiste. Il discorso di Mazzetti è molto ricco e rigoroso (coinvolgendo
 in maniera essenziale il pensiero di Marx, oltre a quello di Keynes) e non possiamo sicuramente
 riassumerlo qui. Cerchiamo di evidenziare alcuni punti che ci sembrano significativi in relazione alle
 argomentazioni che stiamo qui sviluppando. In vari testi, Mazzetti ricorda come le politiche keynesiane del
 secondo dopoguerra abbiano portato a un forte sviluppo economico che ha cambiato in profondità le
 società occidentali. Ma quel tipo di sviluppo tocca i propri limiti negli anni Settanta del Novecento. La
 risposta progressiva a quel punto poteva essere quella di ulteriori passi avanti nella strada della liberazione
 degli esseri umani dalla schiavitù economica, nella direzione indicata appunto da Keynes nel saggio sopra
 discusso. Per motivi che sarebbe troppo lungo discutere qui, risposta alla crisi del keynesismo è andata
 invece nella direzione opposta, in sostanza verso il ripristino di un mondo”pre-keynesiano”. Ma a sua volta
 questo capitalismo neoliberista e globalizzato ha incontrato i suoi limiti strutturali: questo è il significato
 della crisi economica attuale iniziata nel 2007/08. La risposta alla crisi attuale è, secondo Mazzetti, quella di
 riprendere i lati più avanzati del pensiero di Keynes e di impostare una seria politica di riduzione dell’orario
 di lavoro (a parità di salario, naturalmente). Come ho detto sopra, non entriamo qui nel merito delle
 approfondite analisi con le quali Mazzetti argomenta la sua posizione. Facciamo solo notare che, come nel caso di Keynes, questa impostazione appare concordare con le proposte di decrescita che sono state
 delineate nella prima parte di questo saggio. Considero perciò un vero peccato il fatto che Mazzetti abbia
 espresso in varie occasioni la sua opposizione alla proposta della decrescita. Le sue obiezioni sono espresse
 in maniera molto chiara in un articolo pubblicato nel “Manifesto” [23]. Abbiamo in sostanza già risposto
 alle obiezioni contenute in questo articolo, quando abbiamo discusso il problema dei bisogni. Mazzetti
 infatti contesta due prese di posizione di Latouche. Nella prima l’autore francese ricorda le ricerche
 antropologiche secondo le quali le popolazioni dedite alla caccia e raccolta erano popolazioni non
 perseguitate dal bisogno e ricche di tempo libero, nella seconda egli ripete le critiche alla società dei
 consumi come creatrice di bisogni sempre nuovi e quindi di insoddisfazioni sempre nuove. Mazzetti ribatte
 che non si può rimpiangere l’età della pietra perché comunque allora l’umanità viveva in condizioni
 disagiate, e che la creazione di nuovi bisogni è elemento di civilizzazione, e conclude sostenendo il
 carattere regressivo della decrescita. Ma è facile superare queste resistenze di Mazzetti.
Per quanto riguarda il primo punto, appare ovvio a chiunque conosca le opere di Latouche che la sua
 proposta non è certo quella di tornare all’età della pietra, ma piuttosto di usare le scoperte
 dell’antropologia per riflettere su ciò di cui hanno veramente bisogno gli esseri umani. Per quanto riguarda
 il secondo punto, ho già risposto sopra, ricordando che i bisogni non possono essere messi tutti sullo stesso
 piano e che, una volta soddisfatti per tutti i bisogni materiali, ciò che fa crescere la civiltà sono i bisogni
 specificamente umani: il bisogno di relazioni umane autentiche, il bisogno di godere delle creazioni dello
 spirito, il bisogno di partecipare a tali creazioni con la propria attività. Tutti bisogni per soddisfare i quali la
 riduzione dell’orario di lavoro è condizione necessaria. Si vede quindi anche qui come la logica delle
 proposte di Mazzetti sia in assonanza con la proposta della decrescita.
Esaminiamo adesso due autori inglesi, Robert e Edward Skidelsky, autori di un bel libro da poco tradotto in
 italiano [24]. Robert Skidelsky è un economista keynesiano, autore fra l’altro di una biografia di Keynes in
 tre volumi che è a tutt’oggi il principale riferimento sulla vita del grande economista. Edward, figlio di
 Robert, è un filosofo. I due autori, nel testo citato che adesso discutiamo rapidamente, riprendono
 anch’essi le tesi esposte da Keynes nelle “Prospettive economiche”, e cercano di svilupparle
 confrontandosi con gli sviluppi della realtà intervenuti negli ottant’anni che ci separano dal testo di Keynes.
 Come è inevitabile, anche gli Skidelsky si confrontano col problema dei bisogni, e giungono ad elaborare
 una lista di quelli che essi chiamano “beni fondamentali”, cioè quei beni le cui soddisfazione è
 fondamentale per una “vita buona”. Si tratta della salute intesa come “il pieno funzionamento del corpo, la
 perfezione della nostra natura animale”, della sicurezza (“l’aspettativa giustificata di un individuo che la sua
 vita seguirà più o meno il suo corso abituale”), del rispetto (tenere sempre l’altro come degno di
 considerazione), della personalità (“la capacità di formulare e attuare un progetto di vita rappresentativo
 dei gusti, del temperamento e della concezione del bene di una persona”), dell’armonia con la natura,
 dell’amicizia (in senso lato), del tempo libero. Gli autori rilevano poi come, per quel che se ne può capire
 dalle ricerche sociali, la fruizione di questi beni non sembra migliorata nonostante la crescita economica
 degli ultimi decenni. Essi notano infatti che
 “Il continuo inseguimento della crescita non solo è inutile per la realizzazione di beni fondamentali,
 ma può, in effetti, pregiudicarli. I beni fondamentali non sono, in pratica, commerciabili: non
 possono essere acquistati o venduti in senso stretto. Un’economia finalizzata a massimizzare il valore
 del mercato tenderà a escluderli o a sostituirli con surrogati commerciabili” [25]
Il compito di rendere più facile il raggiungimento dei beni fondamentali, e quindi di una vita buona,
 dovrebbe allora essere compito dello Stato, che dovrebbe indirizzare l’economia nella direzione voluta,
 descritta dagli autori nel modo seguente:
 “Come dovrebbe essere un’organizzazione economica finalizzata a realizzare i beni fondamentali?
 Dovrebbe produrre beni e servizi sufficienti a soddisfare i bisogni fondamentali e ragionevoli
 standard di benessere. Inoltre, dovrebbe farlo con una notevole riduzione nella quantità di lavoro necessario, in modo tale da offrire più tempo libero, inteso come attività autogestita. Dovrebbe
 garantire una distribuzione meno diseguale di ricchezza e reddito, non solo per ridurre l’incentivo a
 lavorare, ma per migliorare le basi sociali di salute, personalità, rispetto e amicizia. Infine, una
 società che punta a realizzare i beni fondamentali di amicizia e armonia con la natura porrebbe più
 enfasi sul localismo e meno su centralizzazione e globalizzazione” [26]
Occorrerebbe poi, aggiungono gli autori, ridurre la spinta a consumare e ridurre la pubblicità.
Anche in questo caso, appare evidente la consonanza fra queste impostazioni e proposte e quanto esposto
 nella prima parte di questo saggio.
Prendiamo infine in esame le elaborazioni di Stefano Bartolini e del gruppo di ricerca presso l’Università di
 Siena che a lui fa riferimento. Le idee fondamentali sono state espresse da Bartolini in un testo divulgativo,
 al quale faremo principalmente riferimento [27]. E’ interessante notare che queste tesi, che come vedremo
 sono piuttosto “eterodosse”, siano sostenute da un lavoro di ricerca del tutto in linea con i criteri di
 scientificità della comunità degli economisti, per cui difficilmente tali risultati possono essere accusati di
 risultare “esterni” alla disciplina dell’economia in senso stretto [28]. La ricerca parte da quello che è stato
 definito il “paradosso della felicità”: il fatto cioè che la crescita economica, superato un certo valore, non
 sembra accompagnarsi ad una crescita del benessere generale delle persone. Si tratta di uno dei problemi
 studiati a fondo da quella branca dell’economia che ha assunto il nome, per la verità un po’ inquietante, di
 “economia della felicità”. Questo tipo di problematica si basa sul presupposto che sia possibile operare una
 “misura della felicità”, e si tratta ovviamente di un presupposto discutibile, che qui accetteremo
 rimandando ai testi citati per approfondire come gli studiosi arrivano a “misurare la felicità”. La tesi
 del “Manifesto” di Bartolini è molto interessante per il nostro discorso: essa infatti spiega il “paradosso
 della felicità” con l’ipotesi che la crescita economica, superato un certo livello di benessere, comporti la
 perdita di una serie di beni (ambientali o relazionali) che prima erano disponibili gratuitamente e poi
 divengono reperibili solo sul mercato. In questa situazione gli individui hanno bisogno di ulteriore reddito
 per l’acquisto di tali beni, questo comporta ulteriore crescita e quindi ulteriore degrado dei beni gratuiti, e
 il meccanismo procede. Ma in questo modo gli individui non trovano una vera soddisfazione, e per questo
 il benessere non aumenta nonostante la crescita economica. Per fare un esempio, un bene gratuito può
 essere quello dell’aria pulita: la crescita economica comporta inquinamento che peggiora la qualità
 dell’aria, quindi se voglio aria pulita devo fare lunghi viaggi e ho bisogno di un aumento del reddito per
 potermeli permettere. Un altro esempio (di un bene relazionale) può essere quello di rapporti di fiducia fra
 vicini che mi permettono di essere sicuro di non subire furti perché la mia casa è sempre sorvegliata dalla
 comunità locale. Ma la crescita economica tende a distruggere queste reti di relazioni, per cui ho bisogno
 di spendere soldi per gli antifurti.
E’ del tutto evidente come questo tipo di analisi si accordi bene con quanto delineato nella prima parte di
 questo saggio. In particolare, usando il linguaggio marxista (che non è quello di Bartolini), la crescita che
 distrugge i beni relazionali costringendo gli individui ad acquisirne sul mercato dei surrogati corrisponde
 all’espansione della sfera del rapporto sociale capitalistico, che invadendo ogni ambito sociale degrada
 società e natura. Anche molte delle proposte pratiche sostenute nel libro di Bartolini (per esempio la
 riduzione dell’uso dell’automobile) sono perfettamente inseribili all’interno del discorso della decrescita.
7. Conclusioni.
Con questo ci avviamo alla conclusione. E’ necessario ribadire che, nel riportare alcuni spunti di
 convergenza fra gli autori citati e il pensiero della decrescita non abbiamo voluto compiere una analisi
 approfondita del pensiero e delle proposte di questi autori. Ci siamo limitati, appunto, a evidenziare una
 notevole assonanza nell’impostazione generale e anche in alcune proposte concrete. Tutto questo non
 vuol dire che ci sia completa identità di vedute. Vuol dire piuttosto che la direzione verso cui puntano queste diverse proposte sembra essere grossomodo la stessa. Questa dovrebbe essere, a nostro avviso, la
 base per una discussione serena che potrebbe portare ad approfondire i punti di convergenza e a smussare
 le eventuali divergenze. Sarebbe davvero il momento di cominciare. Dopotutto, i nipoti di Keynes, per i
 quali egli sognava la liberazione dal problema economico, siamo noi. Sarebbe il caso di prendere sul serio il
 suo sogno.
______________________________________________
[1] M.Badiale, F.Tringali, La trappola dell’euro, Asterios 2012.
 [2] Vi è anche una terza crisi, di natura geopolitica: la crisi dell’egemonia mondiale statunitense, ma la sua
 trattazione esula dagli scopi di questo articolo.
 [3] È probabile che ci possano essere anche argomenti più strettamente socioeconomici a sostegno della
 tesi dell’impossibilità di una ripresa delle politiche del “trentennio dorato”, ma non affrontiamo qui questa
 discussione.
[4] Fra i molti testi possibili, consigliamo M.Pallante, La felicità sostenibile, Rizzoli 2009. Id., Meno e meglio,
 Bruno Mondadori 2011. S. Latouche, Breve trattato della decrescita serena, Bollati Boringhieri 2008. Id.,
 Per un’abbondanza frugale, Bollati Boringhieri 2012.
[5] M.Badiale, M.Bontempelli, Un progetto rivoluzionario, Alfabeta2, anno II, n.6. Id., Una politica
 economica per la transizione, Alfabeta2, anno II, n.9. Id., Il ruolo dello Stato nella transizione, Alfabeta2,
 anno II, n.10. Id., Dopo la fine della crescita, Alfabeta2, anno II. Id., Marx e la decrescita, Asterios, 2010.
[6] Queste dinamiche del modo di produzione capitalistico possono essere indagate a partire dal concetto
 marxiano di “sussunzione reale” “contrapposto alla “sussunzione formale”. Questa analisi è stata svolta in
maniera approfondita da Massimo Bontempelli, si veda
 http://www.rivistaindipendenza.org/Teoria%20nazionalitaria/Bontempelli%20-%20sussunzione.htm
[7] M.Badiale, M.Bontempelli, 28 tesi, http://il-main-stream.blogspot.it/2013/06/28-tesi.html
[8] Quest’ultimo punto è stato discusso in particolare da Bontempelli e dall’autore di queste righe negli
 scritti sopra citati.
[9] Per chi ha qualche vago ricordo dell’esame di Analisi 1, si può dire che non stiamo chiedendo che il PIL,
 come funzione del tempo, sia una funzione monotòna decrescente.
[10] Alcuni suggerimenti di misure economiche necessarie all’interno di un programma di decrescita li si
 può trovare nei testi citati nelle note 4 e 5.
[11] E anche da alcuni di quelli meno importanti, come l’autore di queste righe: si veda per esempio M.
 Badiale, Ricercando la comune verità, CRT 1999.
[12] Per una introduzione alle problematiche dell’obesità di veda O.Bosetto, M.Cuzzolaro, Obesità, Il
 Mulino 2013.
[13] Si veda R. Wilkinson, K.Pickett, La misura dell’anima, Feltrinelli 2009, in particolare il cap. 7.
[14] Questo ovviamente non vuol dire che non persistano ampie fasce di umanità che combattono ancora
 col problema della fame, soprattutto nei paesi del Terzo Mondo ma anche nei paesi occidentali.
 [15] Non a caso è stato usato come titolo del libro di Pallante che abbiamo sopra citato.
[16] Per fare solo due esempi recenti, si possono vedere B.R. Barber, Consumati, Einaudi 2010; Z. Bauman,
 Vite di corsa, Il Mulino 2012. Ma tutta la produzione recente di Bauman, ovviamente, ha a che fare con
 questi temi.
[17] Il fatto che si possa usare il pensiero di Platone per discutere il problema moderno delle
 tossicodipendenze è brillantemente dimostrato in G.Sissa, Il piacere e il male, Feltrinelli 1999, in particolare
 nel cap.2.
[18] Ora in J.M.Keynes, Esortazioni e profezie, Il Saggiatore 2011, pagg.273-283.
[19] Cioè i bisogni che sentiamo in ogni caso, distinti dai “bisogni relativi” che sentiamo solo in relazione a
 ciò che possiedono gli altri. I primi possono essere compiutamente soddisfatti grazie alla crescita della
 ricchezza collettiva. E’ interessante notare come Keynes sia spinto a indagare, per quanto brevemente, il
 tema della natura dei bisogni. Si tratta di una discussione inevitabile, quando si trattano questi temi.
[20] J.M.Keynes, cit., pag.280. E si noti che anche questo appare a Keynes necessario solo “per soddisfare il
 vecchio Adamo che è in ognuno di noi” (pag.281), cioè per evitare i problemi che si avrebbero nel passare
 direttamente ad una società del non-lavoro.
[21] J.M.Keynes, cit., pag.282.
[22] Faremo qui riferimento ai seguenti testi: G.Mazzetti, Quel pane da spartire, Bollati Boringhieri 1997.
 Id., Ancora Keynes?!, Asterios 2012. Id., Contro i sacrifici, Asterios 2012. Id., Dare di più ai padri per far
 avere di più ai figli, Asterios 2013. Si possono utilmente leggere alcuni interventi di tipo giornalistico, per
 esempio quelli reperibili ai seguenti indirizzi http://www.sinistrainrete.info/societa/2898-giovanni-mazzetti-la-torre-di-babele-della-sinistra.html
[23] G.Mazzetti, Decrescita, fuga verso il passato, Il Manifesto, 1-4-2012. In rete
 http://www.ilmanifesto.it/attualita/notizie/mricN/6957/
[24] R. e E. Skidelsky, Quanto è abbastanza, Mondadori 2013.
[25] R. e E. Skidelsky,, cit., pag. 226-227.
[26] R. e E. Skidelsky,, cit., pag. 254.
[27] S.Bartolini, Manifesto per la felicità, Donzelli 2010.
[28] Alcuni dei lavori scientifici di Bartolini e dei suoi collaboratori possono essere scaricati dalla home page
 di Bartolini: http://www.econ-pol.unisi.it/bartolini/

