Canosio, 1 novembre 2014
Caro Totò,
come sai, da quando è entrato in vigore il sistema elettorale maggioritario nel 1994 io ho sempre annullato la scheda, perché non condividevo le limitazioni che pone alla possibilità di scelta degli elettori e non mi sentivo in sintonia con nessuno dei partiti. Sapevo che la mia decisione era sterile politicamente, ma non riuscivo nemmeno a seguire il suggerimento dato una volta da Montanelli, di turarsi il naso e dare un voto in negativo, al partito che si ritiene meno peggiore (se mi sentissero i miei alunni mi darebbero 4, ma non saprei come esprimere diversamente il concetto) per contrastare indirettamente quello che si ritiene il peggiore di tutti. La mia indignazione si è accentuata nel 2005, quando un’altra riforma del sistema elettorale, che il suo stesso promotore ha definito una porcata, ha anche impedito agli elettori di esprimere le preferenze per i candidati nelle liste e i parlamentari non sono più stati scelti dagli elettori, ma nominati dai capi dei partiti. Siccome al peggio non c’è limite, adesso stanno limitando la possibilità di andare a votare. Con la scusa di abolire le province per ridurre i costi della politica, hanno gettato un po’ di fumo negli occhi ridefinendo le funzioni che avevano, assegnandole a nuovi enti che hanno chiamato in maniera diversa (se non è zuppa, diceva mia mamma, è pan bagnato) e facendo passare alla chetichella il cambiamento a cui tenevano di più: i consiglieri dei nuovi enti non saranno eletti dal popolo, ma scelti dai consiglieri comunali tra i consiglieri comunali dei comuni insistenti nel territorio provinciale. I quali ricoprono quel ruolo per investitura dei partiti d’appartenenza che gli elettori si limitano a ratificare. Per la riforma del Senato stanno cucinando la stessa minestra: i senatori saranno eletti dai consiglieri regionali tra i consiglieri regionali, diventati tali con una procedura analoga a quella dei consiglieri comunali.
Puoi capire cosa ho provato quando alle scorse elezioni politiche si è presentato il Movimento 5 Stelle, che si era costituito sulla base della mia stessa indignazione nei confronti del sistema di potere sempre più sfrontato esercitato dai partiti. Per la prima volta dopo 20 anni avrei potuto trasformare il mio rifiuto sterile, espresso dall’annullamento della scheda, in sostegno a un soggetto politico che si sarebbe contrapposto a quel sistema di potere occupando una parte del suo territorio e usandola come testa di ponte con l’obiettivo di smantellarlo. Non è che non vedessi gli aspetti del Movimento che non mi convincevano, e non erano pochi, ma finalmente dopo tanto tempo avrei potuto mettere in pratica il suggerimento di Montanelli: mi si apriva la possibilità di votare un soggetto politico in cui non mi riconoscevo del tutto, ma non mi suscitava ribrezzo. Anzi, a differenza delle mie schede nulle, avrebbe potuto creare serie preoccupazioni a chi me lo suscitava. Penso che fossimo in tanti a fare questo tipo di riflessioni. Forse la maggior parte di coloro che hanno affidato al voto ai 5 Stelle le loro aspirazioni di riscatto dalle prepotenze e dalle angherie subite per decenni dalle bande di prepotenti e grassatori che, in combutta tra loro, avevano eliminato legalmente ogni possibilità di essere contrastati. Il risultato elettorale superò ogni aspettativa, ma, paradossalmente, mise subito in evidenza i limiti del Movimento in cui avevamo riposto le nostre speranze.
Il primo errore strategico, a mio modo di vedere, fu la gestione del confronto con il segretario del PD, Pierluigi Bersani, che era stato incaricato dal Capo dello Stato di verificare la possibilità di formare un governo. In nome della trasparenza, i capigruppo del Movimento 5 Stelle alla Camera, Roberta Lombardi, e al Senato, Vito Crimi, ne chiesero la trasmissione in streaming. Così chiunque ebbe la possibilità di vedere in diretta, anche io dalla mia valle alpina, che i due rappresentanti del Movimento non erano andati per verificare le condizioni di un eventuale coinvolgimento del loro gruppo nel sostegno al governo, ma per umiliare il più potente rappresentante in carica della casta politica, impedendogli di raggiungere l’onorificenza con cui sperava di coronare una carriera lunga una vita. Avevano un potere contrattuale altissimo. Avrebbero potuto utilizzarlo per proporre contenuti e persone. Non era necessario che si coinvolgessero direttamente in un futuro governo. Sarebbe bastato che proponessero un’altra persona, non sgradita al PD, come primo ministro e che presentassero un elenco di punti programmatici irrinunciabili con una rigida scansione dei tempi di attuazione. Penso che le loro proposte non sarebbero state accettate, ma avrebbero dimostrato di voler usare la loro forza per tradurre il consenso elettorale in progetto, e se fossero state rifiutate, sarebbe stato il loro interlocutore ad assumersi la responsabilità della rottura. Invece si sono accontentati di esibire la loro forza, evitando di usarla. Il loro scopo era dimostrare pubblicamente che il capo del partito incaricato dal Presidente della Repubblica di formare il governo era costretto a chiedere il loro permesso e che loro non glielo avrebbero dato perché non erano andati in Parlamento per inserirsi, come tutti gli altri partiti, nelle dinamiche della politica. Il loro non era un partito, ma un non partito e, in quanto tale, contrapposto a tutti i partiti, di destra e di sinistra. Come avrebbero potuto instaurare qualche forma di collaborazione, sia pure limitata nei contenuti e nel tempo, con qualcuno di essi?
Le conseguenze di quella scelta le avrebbe intuite anche un facocero. Nel Parlamento ci sono tre gruppi con un numero di deputati quasi equivalente: sinistra, destra e 5 Stelle. Nessuno dei tre può fare il governo da solo. Il gruppo di sinistra, incaricato di trovare una soluzione, chiede l’alleanza ai 5 Stelle che dicono di no. Che cioè rifiutano di utilizzare la loro forza per condizionare i programmi dell’esecutivo. In conseguenza di questo rifiuto cosa farà il gruppo di sinistra? Ah, saperlo, saperlo… Mentre verifica la possibilità di un’alleanza con i 5 Stelle, il capo del gruppo di sinistra viene irriso pubblicamente dai suoi interlocutori: “Mi sembra di stare a Ballarò”, gli dice la capogruppo alla Camera. La sua forza e il suo prestigio nel suo gruppo politico aumenteranno o diminuiranno? Se ne avvantaggeranno i suoi avversari interni? Forse quel Renzi che era appena stato sconfitto da Bersani alle primarie del PD?
Per sostenere che la scelta dei 5 Stelle sia stata giusta, il suo leader apparentemente maximo, ha detto più volte che il capo della sinistra non aveva nessuna intenzione di allearsi con loro. Che stava facendo una manfrina. Quasi certamente era vero, ma non sarebbe stato più intelligente farlo venire allo scoperto e dimostrare la sua malafede invece di cavargli gentilmente le castagne dal fuoco? Mi sono domandata più volte il perché di questa scelta, che ritengo autolesionista e incomprensibile. La sola risposta che sono stata capace di darmi è che i 5 Stelle, avendo avuto il 25 per cento dei voti non tanto per il loro programma, né per l’autorevolezza dei loro candidati, ma soprattutto perché si erano presentati come alternativi e contrapposti al sistema dei partiti, si siano proposti di insistere su questa connotazione per conquistare altri consensi tra coloro che non erano andati a votare e vincere le elezioni europee che si sarebbero svolte a distanza di un anno.
La seconda scadenza in cui i 5 Stelle replicarono la loro strategia di differenziazione da tutti i partiti fu l’elezione del presidente della Repubblica, dove in alternativa al politico di lungo corso candidato dalla sinistra (Marini) presentarono un candidato che, pur essendo di sinistra non era un esponente della casta (Rodotà). Le possibilità che fosse eletto erano pressoché nulle, ma quella candidatura poteva creare una lacerazione tra i parlamentari della sinistra. I quali nel frattempo, non essendo riusciti a far eleggere il loro candidato iniziale, lo avevano abbandonato e avevano scelto di votare l’ex presidente del consiglio Romano Prodi, un cattolico di sinistra, con una storia personale non di politico di professione, ma di tecnico prestato alla politica, che era visto dalla destra come il fumo negli occhi. Lì i 5 Stelle commisero, a mio modo di vedere, il secondo errore strategico, rifiutando di far convergere i loro voti su di lui e continuando a votare il proprio candidato. Il risultato fu che Prodi non fu eletto perché 101 deputati della sinistra gli fecero mancare i loro voti. A questo punto il capo della sinistra, ormai screditato definitivamente, trovò un accordo col capo della destra, Silvio Berlusconi, per rieleggere il Presidente della Repubblica uscente, Giorgio Napolitano. In un colpo solo i 5 Stelle avevano contribuito a rimettere in gioco il capo della destra, a far rieleggere un presidente della Repubblica che era sempre stato uno dei loro più fieri avversari, a indebolire in maniera irrimediabile il capo della sinistra e ad aprire la strada al suo competitore nel partito. Se avessero fatto confluire i loro voti su Prodi, sarebbero stati determinanti per la sua elezione e il loro peso politico sarebbe cresciuto, avrebbero messo fuori gioco i loro avversari principali, Berlusconi e Napolitano, non si sarebbe aperta la strada del potere a Renzi. Perchè non l’hanno fatto? Anche in questo caso penso che sia prevalsa l’idea di non fare nessun accordo con i partiti per dimostrare di essere totalmente diversi. Invece si erano messi fuori gioco da soli senza nemmeno accorgersene.
L’ultimo errore, che ha aggravato la sconfitta di una partita ormai persa, è stato il modo in cui Beppe Grillo ha gestito l’incontro richiesto da Matteo Renzi al Movimento 5 Stelle nell’ambito delle consultazioni per la formazione del suo governo. In una votazione on line indetta per decidere se accettare o meno l’invito, la maggioranza aveva deciso che fosse opportuno partecipare. Costretto a subire una scelta contraria a quella espressa da lui e da Casaleggio, Grillo è andato di persona e ha praticamente impedito a Renzi di parlare, con un’arroganza e un’aggressività che sicuramente hanno turbato gran parte dell’opinione pubblica e anche tanti che avevano votato il suo Movimento non perché ne condividessero totalmente le posizioni, ma perché volevano esprimere un voto contro la casta dei partiti. Anche in questo caso mi sembra che la scelta della rottura e del modo in cui è stata fatta, sia stata motivata dalla volontà di dimostrare la propria alterità al sistema dei partiti, nella convinzione che avrebbe giovato ad acquistare altri consensi nelle imminenti elezioni europee. A cui i 5 Stelle si sono presentati con lo slogan “Vinciamo noi”.
Erano proprio convinti di vincerle. Lo ripetevano in continuazione. Col garbo e il sottotono che lo contraddistinguono, Beppe Grillo sussurrava in continuazione che il Movimento 5 Stelle avrebbe sorpassato il PD e sarebbe stato sufficiente che avesse un voto in più per costringere il capo dello Stato a dargli l’incarico di formare il nuovo governo. Istituzionalmente l’affermazione non era ineccepibile, politicamente forse qualche motivazione l’aveva. In un pourparler ai margini di una manifestazione pubblica, Casaleggio rivolgendosi ad alcuni attivisti che probabilmente non ne erano così convinti, affermò che non avevano capito cosa stava per succedere. Intendeva dire un grande balzo in avanti del Movimento e una vittoria clamorosa che avrebbe sovvertito tutti gli assetti politici. Al conteggio dei voti, quelli del PD risultarono il doppio dei loro, che subirono una flessione di 5 punti. Chi non aveva capito cosa stava per succedere era lui.
“Vinciamo poi”, è stato il commento ironico apparso sulla rete, che Grillo in un breve filmato ha spiritosamente ripreso mentre ingoiava una pastiglia di Maalox. Io penso, caro Totò, che non vinceranno nemmeno poi. Che non vinceranno più. Hanno dilapidato il potere che avevano e i risultati elettorali successivi lo documentano in modo impietoso. Una settimana fa, alle elezioni comunali di Reggio Calabria, dove alle elezioni politiche avevano ottenuto il 25 per cento, sono precipitati al 2,5 per cento. Non ho mai sentito il Movimento 5 Stelle come la mia casa politica, altrimenti mi sarei iscritta, ma lo consideravo un punto di riferimento in grado di sostenere a livello isituzionale molte delle iniziative per cui mi impegno da quando ero adolescente. Sono delusa, ma non smetterò di continuare a prefigurare con le mie scelte di vita il cambiamento che vorrei vedere nel mondo. E sulla base di queste scelte, a impegnarmi per contribuire a fare in modo di vederlo nel mondo.
Per ora mi fermo qui, perché l’ho fatta sin troppo lunga e Battista mi sta aspettando per ascoltare un po’ di musica sul divano davanti al caminetto. Nei prossimi giorni ti manderò un’altra lettera in cui scriverò le mie riflessioni sull’organizzazione del Movimento 5 Stelle e sui motivi per cui credo abbia contribuito in maniera determinante alla dissipazione, probabilmente irreversibile, della sua forza politica. Che dispiacere, Totò.
Un abbraccio dalla tua
Delfina