di Giorgio Ferraresi
1. La nuova agricoltura contadina, un’altra via
Questo contributo, questa ‘visione’, muove dalla interpretazione di un mutamento in atto del modo di coltivare, definito come ‘nuova agricoltura contadina’, in cui si riconoscono primi percorsi di un ‘ritorno alla terra’ e si leggono segni del possibile riapparire, rivolto al futuro, dello storico ruolo dell’agricoltura. Partendo da lì, dal comprendere in sostanza cosa stia generando questo seme che comincia a dar frutto, si apre uno sguardo ampio che comprende la ‘storia lunga’ dell’agricoltura, le sue radici nel tempo e la sua proiezione al futuro: ed è questo lo sguardo che guida la ‘visione’.
Si tratta di riportare a questo scenario vasto gli sguardi ravvicinati sulla neoagricoltura che qui ed ora (ma con ampie corrispondenze nel mondo) ci danno elementi per riconoscere i suoi caratteri e processi essenziali.
Uno sguardo esperienziale interno alla vie contadine ed alla loro interazioni socioeconomiche e culturali, un ascolto dei loro racconti, un percorso primario di conoscenza.
Ed uno sguardo scientifico/analitico che ne legge il ruolo nel quadro in atto dei sistemi dell’agricoltura dopo il grande processo globale di ‘modernizzazione’ tecnologico, produttivistico, agroindustriale che si è sviluppato nel secondo Novecento e che ora vive un passaggio di crisi.
Due sguardi che, in termini diversi, riconoscono la neo-agricoltura contadina come una presenza ancora minoritaria ma emergente ed eterodossa in quella crisi dei grandi sistemi agroindustriali; una presenza viva che assume alcuni principali caratteri distintivi:
- caratteri di ‘un’altra economia’ nascente, basata sulla produzione di ‘qualità locale ed ambientale’, sul lavoro contadino di cura e rigenerazione della terra e sullo scambio diretto con una domanda consapevole;
- una economia complessa, non settoriale (multifunzionale, come si usa definirla con un termine forse inadeguato, troppo ‘funzionalista’), che comprende il governo dei cicli ambientali nella stessa produzione: elementi paradigmatici estensibili ad altre economie;
- e non solo un’economia: piuttosto una socioeconomia che comporta forme sociali e civili di relazione solidale non solo nello scambio dei beni.
Per questo insieme di forme e relazioni tra i soggetti in campo ed il loro ambiente si è introdotta la definizione di ‘neoruralità’ a designare il complesso processo connesso alla neo-agricoltura contadina.
Queste prime evidenze, già in campo, di elementi di alterità e fertilità rispetto al sistema agroalimentare dato inducono a caricare di senso ulteriore la neoruralità, esplorando la sua capacità di assumere di nuovo il ruolo di attività ‘primaria’ – in una accezione forte, fondativa – che era proprio dell’ agricoltura storica; un ruolo rigenerativo in grado di introdurre in prospettiva elementi di alternativa al sistema socioeconomico e territoriale in atto.
Esplorare per capire quali strutture, culture, relazioni col territorio della ‘via contadina’ possano rimettere in gioco ciò che le storia della modernità della città e dell’industria ha chiuso al mondo rurale; esprimendo in tale direzione elaborazioni di senso, indirizzi, premesse progettuali di modificazioni strutturali in termini generali.
2. I codici della neoruralità: una interpretazione strutturale di una radicale trasformazione economica, antropologica e di valorizzazione territoriale
2.1 Economia delle filiere neorurali, antropologia ed etica delle relazioni implicate
Un nodo essenziale della nuova economia rurale può essere individuato nella struttura della filiera agroalimentare che regge quello scambio diretto e solidale tra produzione contadina e domanda consapevole che, sopra, si è individuato come uno dei suoi caratteri distintivi e che rappresenta un mutamento radicale. È indubbiamente un mutamento propriamente ‘strutturale’ in senso classico, perché ridefinisce la struttura della domanda, dell’offerta e dello scambio mercantile che sono le basi costitutive di ogni economia; attraverso pratiche che si discostano nettamente dal modello della modernizzazione tecnologica e produttivistica.
Ma gli elementi costitutivi di questa filiera ed i suoi processi di formazione presentano contestualmente un’altra connotazione, altrettanto strutturale (in una diversa accezione): quella di una radicale trasformazione antropologica, sociale, culturale, coessenziale alla economia, anzi generativa di tutto il processo della filiera, a ribadire quell’altro carattere non ‘economicista’ (non puramente economico) della neoruralità.
Le filiere che qui si considerano si basano, infatti, su una espressione autonoma di ‘volizioni sociali’ (che corrispondono a nuovi stili del vivere ed anche a forme di autorganizzazione e di cittadinanza attiva) che rifiutano la etero-determinazione e omologazione ‘globale’ della merce cibo, esprimendo una domanda alimentare (e non solo) basata sull’esigenza di qualità del vivere. Una domanda che si rivolge in termini ‘deintermediati’ ai contadini produttori di beni di qualità ecologica e locale (biodiversità, territorialità, prossimità, riconoscibilità, tracciabilità).
È la ‘deintermediazione’ l’elemento relazionale essenziale nel definire le nuove filiere corte. Comporta la riconsegna in mano cooperativa/comune, tra contadini e consumatori consapevoli, la quota più rilevante del prezzo dei beni alimentari (almeno l’80%) loro sottratta nelle ‘filiere lunghe’ dalla trasformazione industriale e dalla grande distribuzione; ma è anche la base di conoscenza e consapevolezza reciproca tra diversi soggetti e di assunzione di responsabilità condivisa nello scambio dei beni, attraverso patti solidali ed affidamenti fiduciari nelle norme e nei contratti.
La trasformazione antropologica in atto ‘surdetermina’ quindi e muta l’economia: non soltanto muta la natura e struttura della domanda sociale e dell’offerta contadina sulla base del valore d’uso e della qualità dei beni; ma esprime un ‘ethos’ della relazione intersoggettiva oltre il mercato competitivo. Principi e pratiche di cura, equità, corresponsabilità che costruiscono ‘un comune’, tracce di comunità. Senza evocare figure improprie di comunità organica, questi tracciati sono piuttosto vissuti e affermati come espressione di ‘sovranità’: sovranità alimentare e, come si dice tra poco, costruzione del territorio bene comune.
2.2 Il valore territoriale ed il bene comune territorio
L’ulteriore e centrale elemento di trasformazione strutturale nei processi di neoagricoltura riguarda infatti la valorizzazione del territorio, cioè del corpo e del contesto di questa antropologia e socio-economia.
Perché al centro di tale emergente attività primaria sta la rigenerazione della terra e del territorio, che è proprio il principio costitutivo del ‘coltivare contadino’, basato sulla cura ciclica e la riproduzione della terra viva, dei caratteri propri/locali del terreni coltivati, del loro ambiente, delle culture, del sapere e del lavoro incorporati: ciò in cui consiste la produzione del ‘valore territoriale’. La qualità che si riconosce in ciò che si produce e si scambia nelle filiere è appunto ‘valore territoriale’, valore aggiunto.
Rigenerazione del territorio, quindi, non solo della terra/natura; e capacità di immettere allora un fattore di cambiamento nella organizzazione territoriale e nel rapporto con la stessa città, contrastando la ‘bulimia urbana’ del consumo di suolo; mediante un ritorno in campo degli spazi aperti agricoli come soggetto attivo in base al proprio valore endogeno. In questo processo il territorio diviene ‘bene comune’. Bene comune non è solo e non è tanto il ‘patrimonio territoriale’ considerato in sé, inteso come ‘un dato’ che (come spesso ora è) può essere sepolto o morente; ma piuttosto in quanto rimesso al mondo mediante una riapertura del ciclo di valorizzazione territoriale, prodotto dal lavoro vivo e dai saperi di soggetti sociali di nuovo all’opera, in quelle forme sociali e relazionali di ‘sovranità alimentare’ che producono ‘il comune’. Si ribadisce: sono proprio queste che rendono ‘il territorio bene comune’.
In tal senso si realizza anche una sorta di altra ‘sovranità territoriale’, oltre il titolo di proprietà pubblica o privata del suolo: una riappropriazione del proprio spazio/ambiente attraverso pratiche di uso condiviso produttivo e mediante liberi tracciati di scambio ed esperienze di conoscenza e responsabilità.
Queste forme economiche, sociali, relazionali, territoriali (sopra annunciate e qui esplicitate su due nodi fondamentali) sono percorsi in atto e potenzialità di trasformazioni radicali/strutturali; ed esprimono i codici della neo-ruralità che essa porta all’interno di sé e pone oltre a sé, come segni di altre visioni di civiltà.
3. Radici storiche di futuro: i codici della modernità in gioco
Tali codici della neoruralità propongono quindi un orizzonte di senso e scenario di futuro che pone al centro i ‘mondi vitali’ e la loro ‘ragione’: la ‘razionalità comunicativa’ e la ‘cura’ nel nutrire i viventi e nel rigenerare la terra e l’ambiente.
Si tratta di codici radicalmente ‘altri’, come si è visto, rispetto ai codici della modernità, o meglio, alle forme vincenti del moderno che hanno conformato nelle sue diverse fasi il modello di sviluppo dell’urbanesimo nato dalla trasformazione industriale; un modello fondato sulla ‘dittatura della razionalità strumentale’.
In realtà, nel processo di affermazione di questo modello, l’agricoltura è stata sempre l’elemento di contraddizione fondamentale e soccombente. Il ruolo del rurale di generazione del territorio, affermatosi nel tempo lungo e lento della storia, è stato negato, emarginato e sommerso nei ‘secoli brevi’ della velocità e della potenza di quel processo dominante; sino a dar luogo ad uno sterminio del popolo, della cultura, dell’intero mondo della ruralità e del suo territorio.
Rispondendo allora all’interrogativo posto all’inizio di questa ‘esplorazione del senso’ della nuova via contadina, appare ora chiaro il valore del riaffacciarsi alla storia del rurale in nuove forme dal cuore antico nella fase attuale, post-fordista, della massima estensione pervasiva – ma insieme del massimo degrado e della morte annunciata – di quel modello dominante; di fronte alla sua crisi di egemonia si apre comunque (in ‘forma debole’ ancora, ma profonda e viva nella prassi sociale e nella nostra cultura) un percorso possibile di ‘ricominciamento’ già in parte in corso, e un annuncio di un altro scenario verso il futuro.
I codici della neoruralità ripropongono inoltre, in questo quadro, il contendere sui codici della modernità che già si era manifestato in alcune fasi di formazione e di crescita dell’ urbanesimo industrialista e fordista; e ora riaprono quella contraddizione come esigenza di una opzione vitale di progetto sostenibile per il destino dell’umanità e del territorio vivente.
È utile richiamare le diverse opzioni in campo in due momenti essenziali di formazione e consolidamento del moderno; con riferimento ai temi territoriali, in particolare, che ben rappresentano la posta in gioco determinante ora ed allora.
Il primo momento riguarda la fase di fondazione dell’industria nell’Inghilterra del Settecento ed il rapporto con il processo di recinzione e privatizzazione dei ‘commons’ (i territori agricoli comuni): un processo che accompagna quella prima industrializzazione della storia, ‘liberando’ dalla terra la forza lavoro per l’industria e favorendo l’urbanizzazione ed il consumo del suolo lottizzato .
Un primo passo, quindi, della liquidazione dell’agricoltura e del suo ruolo storico di governo e cura del suolo. Un passo che ora vediamo percorso in senso opposto, rovesciato, nei codici della neoruralità, nel processo di ricostruzione del ‘bene comune territorio’.
Il secondo si riferisce alla fase ‘fordista’ matura di organizzazione del lavoro industriale e della stessa struttura sociale e territoriale nella costruzione dell’abitare e dei servizi dell’uomo urbano e metropolitano; che, nei primi decenni prenazisti del Novecento, definisce i suoi codici razionalisti e funzionalisti fondati sulla produzione seriale/industriale di prodotti standard (dal cucchiaio alla città).
Una pretesa di definizione universale ed univoca (e di trattamento amministrativo) dei bisogni umani e della risposta ad essi in tipologie predefinite ed ovunque valide che si esprime a partire da alcuni laboratori eccellenti: dalla scuola del ‘Bauhaus’ e dai ‘CIAM’ (Congressi Internazionali di Architettura Moderna) fino alle regole dell’urbanistica funzionalista e della ‘machine à habiter’ di Le Corbusier.
In quella teorizzazione sistematica e nella prassi coerente il territorio diventa suolo, piattaforma percorsa dai tracciati funzionali dei prodotti, delle ‘cose’ intese come merci;e l’agricoltura diviene agroindustria ad alto impiego di tecnologia per l’incremento della produzione di ‘commodities’.
Si ricordi però che la definizione di questa interpretazione del moderno contendeva in campo aperto, in quegli anni, con altre esperienze e teorizzazioni divergenti, altre linee della modernità.
Come l’esperienza del Deutscher Werkbund che antecede il Bauhaus e che apre un confronto rilevante sulla tecnologia tra artigianato creativo ed industria.
O rappresentate ad esempio dalle correnti ‘culturaliste’ in architettura e urbanistica, in casi rilevanti di progetto urbano fondato su culture locali e caratteri specifici dei territori.
Come nel caso di Amsterdam, esemplare di questa ‘altra linea’ del moderno, per la cultura altamente locale della sua scuola di architettura e dell’opera di Berlage, e per la capacità di governo del territorio e delle acque. O nelle prime fasi dell’opera complessa e locale/ambientale di Ernst May (nella Valle della Nidda ad esempio), che pure fu protagonista del razionalismo dell’housing di Francoforte.
Non dimenticando soprattutto che, contemporaneamente al funzionalismo ed al dispiegarsi dell’agroindustria, Rudolf Steiner (filosofo che pure produsse architettura ‘eretica’) tenne nel 1924 i suoi seminari fondativi della agricoltura biodinamica basata sulla rigenerazione della terra, sulla chiusura locale dei cicli e sul rifiuto del dominio tecnologico.
Le radici di un’altra interpretazione del moderno, sovrastate allora (ma non sempre perdenti: la Amsterdam delle acque e l’opera di Berlage vive, e la bioagricoltura ha custodito il messaggio di Steiner), riemergono ora in altri termini nel presente e rivolte al futuro, e rimettono in gioco la posta dell’alternativa di scenario, fondata sulla ragione dei modi di vita, sull’approccio ecologico e locale, sulla produzione di valore territoriale.
La neoagricoltura contadina ed il suo contesto di relazioni ne rappresentano la matrice, il seme gettato e già fertile nel campo; solo un’opzione, un soggetto nascente che ora vive il proprio processo di consolidamento nella sua sostanziale autonomia sociale, con elementi di separatezza forse necessari alla stessa custodia e attivazione di suoi codici e di suoi strumenti; i quali appaiono però destinati all’interazione trasformativa con gli altri prevalenti modi di fare agricoltura e con le politiche pubbliche; sino forse ad acquisire una capacità ‘costituente’ di una ulteriore nuova ruralità di impatto generale.
Fonte: rivista Scienze del Territorio: Ritorno alla Terra (Società dei Territorialisti), tratto da Ciboprossimo
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