Recensione al volume di M. Craviolatti, E la borsa e la vita, Ediesse, Roma 2014, pp. 307.
E la borsa e la vita è il titolo dell’ultimo libro di Marco Craviolatti, attivista sociale e sindacale, presidente dell’Associazione Etica&Lavoro «Pasquale Taviano». Il saggio si regge su un assunto: il lavoro non è un valore in sé, ma è uno strumento in vista di un fine più grande, la vita. L’argomentazione serratissima e molto documentata punta a disarticolare il mainstream e la retorica sul lavoro, proponendo al lettore paradigmi alternativi, centrati in particolar modo sulla riduzione e sulla redistribuzione dell’orario di lavoro. Craviolatti nota giustamente che la produttività del lavoro in quest’ultimo secolo si è moltiplicata, ciononostante oggi per mantenere il passo con la concorrenza e per essere sempre più competitivi è necessario lavorare senza sosta e in condizioni non sempre accettabili. A fronte di una ricchezza prodotta in costante crescita, i salari stagnano e gli Stati non hanno soldi per i servizi pubblici. La cosiddetta crisi è il grimaldello con cui il potere punta a scardinare i diritti acquisiti con grandi fatiche nello scorso secolo. La società è sempre più frastagliata, competitiva, violenta. Da un lato la disoccupazione cresce, costringendo ampie fasce della società alla marginalità. Dall’altro chi è inserito all’interno del mostruoso meccanismo del lavoro non riesce a vivere più. E così c’è chi non può vivere perché non lavora, e chi non può vivere perché lavora troppo. «Agli estremi sociali e geografici – scrive Craviolatti – si suicidano «per lavoro» i manager europei di France Telecom e gli operai cinesi di Foxconn» (p. 21). E il motivo è chiaro: negli ultimi decenni abbiamo assistito a un ribaltamento nei rapporti fra mezzo e fine. La tecnica da strumento è divenuta lo scopo ultimo dell’agire planetario. Ciò ha comportato un inasprimento delle condizioni esistenziali che riguarda tutti quanti: sia il cosiddetto dominatore, sia il dominato. Anche il lavoro, necessario ad ampliare la tecnica, si è nel frattempo elevato a fine, e così l’uomo – che un tempo lavorava per vivere – ha finito di vivere per lavorare. Il manager, addirittura, lavora di più del suo dipendente. È sempre indaffarato e incollato ai suoi cellulari, vive di corsa. Questo è anche il suo vanto: perché il lavoro, nel mondo tecnologico-capitalista, è diventato un valore. Chi è indaffarato è anche importante, è uno che conta, è uno che sa il fatto suo, che ha scalato la piramide sociale, e ora, dall’alto domina gli altri.
Purtroppo per lui, però, non è così. Il dominatore è a sua volta dominato dalla tecnica e dal lavoro che lo schiacciano. Il dominatore non ha tempi morti, lavora ogni giorno, e addirittura si vanta di dormire quattro ore per notte. Questo suo iperattivismo gli conferisce quell’autorità morale per cui egli può chiedere ai suoi operai di lavorare di più, di fare gli straordinari, di immolarsi per la produzione. Marco Craviolatti nota con molta intelligenza che di lavoro si muore: qualcuno lavorando troppo, qualcun altro lavorando troppo poco. «La riduzione media dei tempi di lavoro – scrive – è già in corso, ma si traduce in un allargamento della polarizzazione tra chi lavora troppo e chi troppo poco: da una parte aumentano gli orari e gli straordinari, la flessibilità dei turni, l’intensificazione dei ritmi, dall’altra i disoccupati, i sottoccupati, gli inattivi» (pp. 21-22). È una lotta di tutti contro tutti, e alla fine a beneficiarne è solo l’élite, che pur rimanendo schiacciata dal Leviatano del lavoro, ha almeno la possibilità di concedersi, di tanto in tanto, qualche svago, pagato a caro prezzo dai loro sottoposti.
Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Perché sotto la superficie restano le minacce ambientali, le crisi economiche ricorrenti, i rischi di consumare le risorse per le future generazioni, di cui nessuno sembra farsi carico. E la borsa e la vita è allora la richiesta arrogante del potere che esige tutto e non lascia possibilità di scampo.
Con grande competenza e chiarezza, l’autore fornisce la sua soluzione alla «questione lavoro». I sindacati lo invocano, i disoccupati lo cercano disperatamente, le imprese lo impongono allungando le prestazioni dei dipendenti, ma il lavoro è sempre meno. E allora cosa fare? Craviolatti propone: meno lavoro. O meglio, una distribuzione equa di un lavoro in diminuzione, che ripartito diventa più efficiente, dignitoso e utile alla collettività.
Sullo sfondo resta il ripensamento complessivo della società. Lavorare va bene, ma per produrre cosa? A questa domanda, prima o poi, dovremo pur fornire una risposta credibile.
Alessandro Pertosa