Totò, Delfina e i libri contro la Decrescita

da | 15 Dic 2014

Napoli, 13 dicembre 2014

Cara Delfina,

qualche giorno fa un amico mi ha inviato la recensione di un libro intitolato Contro la decrescita, pubblicata sul quotidiano della Confindustria, Il Sole 24 ore. Evidentemente l’idea della decrescita ha bucherellato la cortina di silenzio da cui era stata avvolta e comincia a trovare un consenso sufficientemente ampio da suscitare una certa preoccupazione tra chi ritiene che il fine delle attività economiche e produttive sia la crescita della produzione di merci. E sono personaggi non da poco: i rappresentanti di tutti i partiti, la maggior parte degli economisti, degli industriali, dei sindacalisti e dei giornalisti. Un fronte poderoso che da più di sei anni a questa parte invoca la crescita, ne parla in continuazione, la intravede a portata di mano ogni giorno e il giorno dopo la vede svanire come un perverso incantesimo. Di conseguenza aumenta il numero delle persone che non credono più a questa pantomima e cominciano a prendere in considerazione le proposte formulate dai sostenitori della decrescita. E allora, se la cortina del silenzio non riesce più a soffocare la loro voce, è arrivato il momento, come si legge nella quarta di copertina, di «smontare il mito della decrescita come visione alternativa della società rivelandone di volta in volta i numerosi luoghi comuni, le ingenuità o addirittura la malafede». Un giudizio pesante, da cui mi sembra trasparire una sorta di rabbia repressa, una scintilla del sacro furore che animava gli inquisitori del Santo Uffizio contro chi si permetteva di mettere in discussione la Verità di cui si sentivano i paladini. La critica al sacro dogma della crescita non può fondarsi su argomentazioni, ma solo su «numerosi luoghi comuni, ingenuità, malafede». E il compito che si propone quel libro è«tanto necessario quanto controcorrente». Se il suo autore lo ritiene necessario, vuol dire che la decrescita è già penetrata profondamente nell’immaginario collettivo (magari…), ma che lo ritenga controcorrente è (purtroppo…) un abbaglio, una sorta di allucinazione che suscita un sentimento di umana compassione nei suoi confronti e induce a consolarlo: «Fatti coraggio, leggi bene i giornali e vedrai che il mainstream va proprio nella direzione opposta a quella che cercano di risalire i sostenitori della decrescita. Sono loro controcorrente. Non tu».

Per fortuna interviene il recensore a dargli man forte scagliandosi lancia in resta contro quell’eretico di Pallante con una forza argomentativa straordinaria: «Pallante propone la differenza tra beni e merci: lo stesso prodotto è un bene se viene autoconsumato o donato, mentre diventa merce se viene scambiato con denaro o altri prodotti; in alcune pagine lo smontaggio di alcuni capisaldi, come per esempio la suddetta differenza, raggiunge momenti comici».

Pallante, da quello che io ho capito, non ha mai scritto che «lo stesso prodotto è un bene se viene autoconsumato o donato, mentre diventa merce se viene scambiato con denaro o altri prodotti». Ha scritto che un oggetto o un servizio è un bene se risponde a un bisogno o soddisfa un desiderio, non se viene autoconsumato o donato. E ha scritto che un oggetto o un servizio è una merce se viene scambiato con denaro, o se viene prodotto o fornito per essere scambiato con denaro. Le due connotazioni non sono alternative, cioè non si escludono a vicenda, perché si riferiscono a due aspetti diversi. Provo a spiegarlo con un esempio che puòessere capito anche da uno gnugnu, come dite voi in Piemonte: un uomo può essere alto e grasso, perché queste due caratteristiche non sono alternative. Non puòessere alto e basso, négrasso e magro contemporaneamente perché quei due tipi di caratteristica sono alternativi. Il contrario di bene, cioèdi un prodotto che risponde a un bisogno o soddisfa un desiderio, non è merce, ma prodotto che non risponde ad alcun bisogno e non soddisfa alcun desiderio. Ad esempio l’energia termica che si spreca in un edificio mal costruito. E il contrario di merce, cioè di un oggetto che viene scambiato con denaro o viene prodotto per essere scambiato con denaro, non è bene, ma prodotto che non viene venduto perché si autoconsuma o si dona.

Come un uomo può essere alto e grasso, ma anche basso e grasso, alto e magro, basso e magro, un prodotto può essere un bene che si scambia con denaro, ma può anche essere un bene che non si scambia con denaro, mentre una merce, cioè un prodotto che si scambia con denaro, può essere un bene, cioè può rispondere a un bisogno o soddisfare un desiderio, o non essere un bene, cioè con rispondere ad alcun bisogno né soddisfare alcun desiderio, come l’energia che si spreca in un edificio mal costruito. È così difficile da capire? Lo capisci tu, che sei solo una maestra, e non scrivi libri, né recensioni sul giornale della Confindustria?

Ma l’accoppiata vincente saggista-recensore non si ferma qui, aggiunge con la convinzione di fare dell’ironia: «Insomma: se un bene relazionale viene venduto, diventa una merce». A parte il fatto che non riesco a capire cosa significhi un bene relazionale (che so: la fiducia, la solidarietà) che viene venduto (come si fa a venderle?), è veramente così strano dire che una cosa venduta è una merce? Cos’altro sarebbe? Il fatto è che, secondo l’accoppiata vincente, Pallante individua nel passaggio da bene a merce una terribile contaminazione: «È come se il mero contatto con il denaro contaminasse il bene, mutandone la natura». Io non ho mai trovato nei libri di Pallante una sola riga in cui venga denunciato questo misfatto, che i due inquisitori deducono dal seguente esempio: «Immaginiamo un contadino che coltivi pomodori. I suoi pomodori li consumerà in parte in famiglia, in parte li scambierà per ottenere qualcosa che da solo non potrebbe procurarsi. A questo punto la teoria di Pallante porta necessariamente a concludere che i pomodori del contadino, fra loro identici perché prodotti sullo stesso pezzo di terra e con gli stessi metodi, si differenziano però dal punto di vista qualitativo (alcuni pomodori saranno qualitativamente “molto migliori”) per la sola ed esclusiva ragione che gli uni vengono consumati dal contadino, gli altri scambiati con denaro».

A me pare che la teoria di Pallante dica semplicemente che se un contadino produce una certa quantitàdi pomodori, tutti quei pomodori sono dei beni. Se ne vende una parte, i pomodori venduti continuano naturalmente ad essere dei beni, che vengono mercificati. È così difficile da capire? Evidentemente per qualcuno sì. E questa mia convinzione viene rafforzata dal fatto che l’accoppiata vincente pensa che Pallante pensi che la parte di pomodori non venduta sia qualitativamente migliore «per la sola ed esclusiva ragione»che vengono consumati dal contadino e non sono contaminati dal denaro! Certo che se la difesa della crescita dall’eresia della decrescita viene affidata a queste caricature di inquisitori, che la effettuano con queste caricature di argomentazioni, vuol dire che sono proprio messi male. Ognuno sa per esperienza diretta che i pomodori prodotti da un’azienda agricola per essere venduti, generalmente sono meno buoni di quelli prodotti per rispondere al bisogno alimentare di chi li produce, non perché vengono scambiati con denaro, ma perché, se si produce per vendere, generalmente la qualità viene sacrificata alla quantità. Ciò non toglie che:

1. ci possano essere coltivatori poco consapevoli che utilizzano la chimica anche per i pomodori che mangiano, che quindi quei beni siano di scarsa qualità anche se non sono contaminati dal denaro;

2. ci possano essere delle aziende agricole che coltivano in maniera pulita, senza chimica, i pomodori che producono per venderli, che quindi sono dei beni mercificati di buona qualità anche se vengono contaminati dal denaro.

Sto per finire, Delfina, e lo farò riportando l’ultimo esempio che secondo l’autore del libro e il suo recensore dimostrerebbe il massimo dell’assurdità delle tesi di Pallante. «Se suono il pianoforte in una sala da concerto, davanti a un pubblico composto da 175 spettatori paganti e 5 amici che ho invitato e che non hanno pagato il biglietto, sto contemporaneamente producendo merce per 175 persone e un bene per altre cinque. Quindi 5 persone ascolteranno un concerto che sarà molto migliore di quello ascoltato dai 175: il pezzo che ho suonato sarebbe un bene e una merce, quindi insieme qualitativamente molto migliore e molto peggiore di se stesso». Un concerto con questa composizione di pubblico, secondo, non dico la teoria di Pallante perché non di teoria si tratta, ma l’interpretazione di qualsiasi persona normodotata, è un bene per tutti coloro che lo ascoltano. Alcuni di loro, 175 persone nell’esempio riportato, lo ricevono sotto forma di merce perché hanno pagato il biglietto, mentre 5 lo ricevono sotto forma di dono. Prova a parlarne con i tuoi bambini a scuola e vedrai che lo capiscono anche loro.

Non mi stupisce, cara Delfina, che Confindustria confidi in queste menti per screditare la decrescita. La stessa mancanza di idee e di apertura mentale la sta inducendo da sette anni a riproporre le stesse ricette fallimentari nel tentativo di far ripartire la crescita. Io penso che qualsiasi persona un po’ meno che gnugnu, dopo aver sbattuto la testa contro un muro per tre volte comincerebbe a chiedersi se non ci sia un modo più efficace e meno doloroso di abbatterlo. Il fatto èche probabilmente dopo la terza volta qualche sinapsi comincia a saltare e si può essere indotti a credere, per capovolgere il titolo di un libro che qualche anno fa ha avuto molto successo, che un pollo sia un’aquila. E anche a ripetere pervicacemente lo stesso errore, scambiando altri polli per altre aquile, ad libitum.

Con questa riflessione ornitologica, da vecchio iscritto alla LIPU, ti saluto e riprendo a leggere un romanzo di Wendell Berry che mi sta affascinando e ti consiglio. S’intitola Hannah Coulter. Sono sicuro che affascinerà anche te.

Un abbraccio,

tuo Totò.