Canosio, 1 dicembre 2014
Caro Totò,
i risultati delle elezioni regionali di domenica scorsa in Emilia Romagna e in Calabria non sono stati per me una sorpresa, se non in relazione all’entità dell’astensionismo. La neo-sinistra, cioè la destra con la maglietta della sinistra, ha fatto fuori la destra e la sinistra tradizionali; il Movimento 5 Stelle s’è fatto fuori da sé; la Lega Nord ha esteso la sua area territoriale di consenso, presentandosi come la paladina degli italiani che stanno pagando i prezzi più alti al processo di globalizzazione in corso e, non vedendo prospettive di miglioramento, reagiscono con rabbia. Ma in Emilia Romagna non è andato a votare il 63 per cento degli elettori e in Calabria il 56 per cento. Col grande rispetto per la democrazia che lo caratterizza, il capo della neo-sinistra ha dichiarato che «la non grande affluenza deve preoccupare, ma è un elemento secondario. Negli ultimi otto mesi abbiamo avuto cinque elezioni regionali e il Pd ha vinto 5 a 0. Oggi una persona normale dovrebbe esserne felice». Per un presidente del Consiglio che ha abolito le elezioni dei consigli provinciali e sta abolendo quella del Senato, il 37 e il 44 per cento dei votanti sono anche troppi. Per il segretario di un partito che ha ottenuto la maggioranza relativa con un sistema elettorale che non permette agli elettori di scegliere i deputati e dà un premio di maggioranza giudicato abnorme dalla Corte costituzionale, il 19 e il 27 per cento dei consensi sono un plebiscito. Probabilmente io non sono una persona normale, perché non sono affatto felice. Non perché non mi riconosco nel partito della neo-sinistra, che ha avuto più voti degli altri e a ragione si vanta di aver vinto nei loro confronti, ma perché l’insieme dei partiti ha perso nei confronti degli elettori. Una percentuale di votanti inferiore al 50 per cento significa che la maggioranza degli elettori ritiene che nessuno di essi meriti il proprio consenso. In Italia non era mai successo. A me sembra un fatto molto grave, perché sino ad ora ho continuato ingenuamente a credere che il voto costituisse l’esercizio di quella sovranità riconosciuta al popolo dalle costituzioni democratiche. Non riesco a rassegnarmi all’idea che venga ridotto a essere il modo in cui una parte minoritaria della popolazione definisce i rapporti di forza tra gruppi di potere in competizione tra loro per la gestione del denaro pubblico. Per questi gruppi meno persone vanno a votare e meglio è, meno rogne ci sono. Tutto fila più liscio. L’alta percentuale degli astenuti è un elemento secondario, come ha detto e ribadito il presidente del Consiglio. Diventerebbe un problema se si coagulasse in un soggetto politico estraneo alle loro logiche, come è stato il Movimento 5 Stelle. Dico è stato, perché la sua capacità di intercettare il non voto e il voto nullo, dopo un botto iniziale superiore a ogni aspettativa, si è progressivamente ridotta e non ha evitato che nelle ultime elezioni superasse la soglia del 50 per cento. Questo mi sembra il segnale più grave del suo fallimento, più della riduzione del consenso elettorale dal 25 per cento delle elezioni politiche del 2013 al 13 per cento dei votanti in Emilia Romagna e al 4,5 per cento in Calabria, perché i voti che ha perso non sono andati ad altri partiti, ma ad incrementare la percentuale di chi è tornato a manifestare con l’astensione il proprio dissenso dai partiti, e questa volta anche dal «non partito».
Oltre alle scelte politiche che io ritengo sbagliate, di cui ti ho parlato nella lettera precedente, ho la sensazione che in questo rapido declino abbiano anche influito le dinamiche interne attivate da una struttura organizzativa in cui il gatto e la volpe hanno mantenuto strettamente ed esclusivamente nelle loro mani ogni potere decisionale. Questa scelta penso sia stata motivata dalla preoccupazione di evitare che i principi basilari del movimento venissero stravolti e ci fossero infiltrazioni di arrivisti attirati dalla possibilità di fare una carriera politica. Ma è stata applicata con una rigidità paranoica, che ha stroncato sul nascere tutte le manifestazioni di autonomia di pensiero e ha premiato la fedeltà pedissequa ai due fondatori. La struttura con cui essi hanno blindato il loro potere è costituita da due pilastri: la titolarità del simbolo e del sito internet da parte del gatto, la gestione del sito da parte della società informatica della volpe, che con i suoi collaboratori gestisce anche i rapporti con i gruppi parlamentari, con le associazioni locali e con gli eletti del movimento nelle istituzioni locali. Sul sito viene pubblicato il Blog di Beppe Grillo, che è il magazine ufficiale del movimento, dove vengono trasmesse le informazioni scelte dai due titolari della ditta, si comunicano le valutazioni politiche, si diffondono studi e interventi di esperti, ma soprattutto vengono prese le decisioni più importanti sotto forma di referendum sulle proposte che il gatto e la volpe decidono, motu proprio, di sottoporre agli iscritti. Nel giro di poche ore dalla loro pubblicazione sul sito, gli iscritti sono invitati a esprimere un sì o un no con valore decisionale indipendentemente da un quorum, senza possibilità di un confronto preliminare, né di una verifica successiva dei risultati da parte di un organismo di certificazione esterno. Con questa procedura sono state formate le liste elettorali, che hanno inevitabilmente selezionato i candidati non in base alle loro competenze o alla valutazione del loro impegno sulle tematiche caratterizzanti del movimento, ma al numero dei loro amici e conoscenti sul territorio, a volte poche decine e con lo scarto di qualche unità rispetto agli altri concorrenti. Inevitabilmente si sono formate alleanze con scambi reciproci di voti al solo scopo di conquistare una candidatura. Queste, che io considero degenerazioni, non hanno suscitato alcuna preoccupazione nel gatto e nella volpe, perché la non competenza degli eletti rafforza il loro potere decisionale nella definizione della linea politica. Nel breve periodo questa dinamica ha favorito la coesione degli iscritti attorno ai loro leader, ma ha avvantaggiato gli arrivisti e demotivato coloro che consideravano la presenza nelle istituzioni come uno strumento in più per realizzare gli obiettivi caratterizzanti del movimento. Di conseguenza è aumentato il tasso di litigiosità e il numero degli scontenti, la spinta ideale si è affievolita, si sono formate cordate tra gli aspiranti candidati ai livelli istituzionali collegati tra loro (comuni, regioni, collegi elettorali nazionali ed europei).
Alle consultazioni in rete sono state affidate le decisioni relative alla gestione delle trattative con i presidenti del consiglio incaricati e altre scelte cruciali della vita politica dei pentastellati a livello nazionale ed europeo, ma soprattutto la ratifica delle espulsioni di alcuni iscritti e di un numero sempre maggiore di deputati e senatori dai gruppi parlamentari. Invece di usare la forza del movimento per ridurre quella dei partiti, il «non partito» ha cominciato a usarla con una furia autodistruttiva crescente per demolire la propria. Immagino il sospiro di sollievo di quanti avevano cominciato a seriamente a temere di perdere il loro potere. Dopo i risultati delle elezioni regionali in Emilia Romagna e in Calabria abbiamo visto il sorriso raggiante del presidente del Consiglio. A me è venuto di pensare a quel capo-partito che aveva sfidato Beppe Grillo a fare un partito e presentarsi alle elezioni se ne era capace: forse anche lui è riuscito a distendere i muscoli facciali in un ghigno che nelle sue intenzioni voleva essere un sorriso. Io invece ho sofferto e, anche se ho un carattere mite, al pensiero dell’inaspettata soddisfazione di quel ceffo e di tutti i suoi compari avrei dato un pugno sul muso a chi è riuscito a farli sorridere.
Ma noi montanari, oltre a essere miti siamo tosti e, proprio in questi giorni, in cui l’autodemolizione del Movimento 5 Stelle è andata avanti a colpi di maglio, non ci siamo lasciati prendere dallo scoramento. Ne abbiamo parlato in una delle serate conviviali che organizziamo con i nostri amici e siamo giunti alla conclusione che era un passaggio inevitabile e, probabilmente, può anche essere stato utile. Eravamo consapevoli dei limiti e dei pregi di quell’esperienza, tant’è vero che l’abbiamo guardata con simpatia, ma non l’abbiamo mai condivisa. Abbiamo sempre provato fastidio per la superficialità e il pressappochismo con cui venivano analizzati i problemi e venivano formulate le proposte di soluzione, per le contraddizioni sui contenuti, per l’aggressività dei toni, per il rifiuto di ogni forma di collaborazione, per la gestione autoritaria e verticistica del movimento. In ogni caso, con tutti i limiti che ci è sembrato di vedere, questa esperienza ha dimostrato che la casta dei partiti non è invincibile. E se non lo era quando continuava a essere votata dal 75 per cento degli elettori, lo è ancora di meno adesso che comincia a votarla meno del 50 per cento. In secondo luogo il Movimento 5 Stelle ha messo in contatto e ha spinto ad agire a livello politico-istituzionale diversi gruppi di persone che non si conoscevano tra loro e si erano limitati a impegnarsi nel sociale, dove avevano realizzato esperienze molto interessanti che nel loro insieme costituiscono i tasselli di una cultura alternativa a quella consumista, materialista e produttivista delle società industriali. La forza e la capacità operativa di questi gruppi è stata potenziata sia dai collegamenti che hanno istituito tra loro, sia dall’esperienza acquisita col lavoro nelle istituzioni. Può darsi che la consapevolezza delle potenzialità che hanno acquisito in questo periodo li induca a liberarsi dalle limitazioni cui vengono sottoposti dalla gestione autoritaria e verticistica del movimento. Questo processo potrebbe essere accelerato se, come sembra, da una parte il ridimensionamento elettorale del Movimento 5 Stelle si confermasse e dall’altra si consolidasse la selezione interna per cooptazione in base alla fedeltà ai capi, come è appena avvenuto con la nomina e la ratifica per plebiscito del direttorio. Poiché ritengo che la causa della crisi sia la crescita, come sostiene il Movimento per la decrescita felice, penso che le politiche economiche finalizzate a rilanciare la crescita, sostenute dei partiti tradizionali, non riusciranno a superarla, il pil continuerà a oscillare tra decrementi e incrementi insignificanti, la disoccupazione non diminuirà. Prima o poi s’imporrà l’esigenza di un cambio di paradigma culturale e la costruzione di un soggetto politico in grado di guidare una decrescita selettiva del pil mediante lo sviluppo di innovazioni tecnologiche finalizzate ad aumentare l’efficienza nell’uso delle risorse – l’energia in primo luogo -, a ridurre gli sprechi e le quantità degli oggetti dismessi che vengono interrati o bruciati, a riparare i danni ambientali causati dalla ricerca del profitto sopra ogni altra cosa, a reintrodurre criteri qualitativi nella valutazione del fare umano finalizzandolo ad aggiungere bellezza alla bellezza originaria del mondo. Sono convinta che nella formazione di questo soggetto politico un ruolo decisivo possa essere svolto dai gruppi dei 5 Stelle che oggi si sentono in difficoltà con la gestione autoritaria e verticistica del movimento, ma in questo movimento hanno avuto la possibilità di compiere un salto qualitativo che altrimenti non sarebbero stati in grado di fare.
Ti invito, caro Totò, ad essere fiducioso con me. Sarei felice se venissi con Filomena e Gennarino a passare qualche giorno da noi. Il nostro gruppo, che hai frequentato quando hai fatto il militare a Cuneo, è sempre attivo. I nostri capelli sono sempre più bianchi e le forze fisiche non sono quelle di una volta. Ma dentro di noi non è cambiato nulla.
Un abbraccio
Delfina