«Ma tu vuoi venire a vedere?» Quando Sergio mi fece questa domanda non esitai un momento a rispondere di sì. Parlavamo già da quasi due ore di allevamenti intensivi, ne avevo letto molto in precedenza, visto fotografie e filmati ma ho sempre pensato che solo il vedere con i propri occhi dà un’immagine esatta della realtà.
Qualche settimana dopo viaggiavamo in automobile lungo la pianura emiliana verso uno degli allevamenti nei quali Sergio ha lavorato per oltre tre decenni come veterinario. Da fuori appare come una serie di grandi capannoni grigi separati da ampi spazi sterrati. Accanto a uno di essi alcuni silos. «Questo allevamento non è fra i più intensivi», mi dice Sergio mentre arriviamo. Scendiamo dall’automobile e Sergio mi consiglia di lasciare il mio giaccone lì «perché il cattivo odore si attacca ai vestiti».
«Qui ci sono vacche da latte e maiali.» Cominciamo dalle vacche, un’introduzione morbida all’ambiente dato che esse sono fra tutti gli animali “da reddito” quelle che hanno il trattamento migliore: spazi relativamente ampi, una certa possibilità di movimento, in qualche caso perfino uno spazio esterno. Non perché gli allevatori abbiano un debole per loro ma semplicemente perché pare siano queste le condizioni che massimizzano la produzione.
«Questa», mi dice Sergio, «si può considerare una stalla modello secondo gli standard di 35 anni fa». L’atmosfera è piuttosto grigia, desolata, ma nulla di più. La lettiera delle cuccette non è pulitissima ma Sergio mi dice che di solito non è così. In alto sono sospesi degli enormi ventilatori per stemperare il caldo estivo. Le vacche si direbbero tranquille. Se dovessi paragonarlo a un luogo dantesco direi che questo è il limbo.
Intanto arriva l’allevatore e passiamo ai capannoni dei maiali. Cominciamo dalla sala parto. Il capannone è una sorta di antro semibuio; la prima sensazione visiva che ho dell’interno è quella di una selva di sbarre metalliche, poi in quella selva comincio a intravedere un ordine, simile a quello percepibile in una catena di montaggio. C’è uno stretto corridoio centrale e, da una parte e dall’altra, due file di gabbie. In ogni gabbia è rinchiusa una scrofa. Le dimensioni di ciascuna gabbia sono tali che alla scrofa è impedito ogni movimento che non sia quello di sdraiarsi su un fianco e rialzarsi. Alcune scrofe sono ancora in attesa di partorire, altre hanno già i “lattonzoli”, cioè i suinetti lattanti. Ogni cucciolata è di dieci o più, e stanno tutti ammucchiati formando mobili matasse rosa sul fondo delle gabbie.
In questi allevamenti, mi aveva detto Sergio durante il nostro primo incontro, la scrofa trascorre quasi il 40% delle sua vita in gabbia. E anche l’allattamento dei suinetti avviene là dentro. E accade che qualcuno venga schiacciato.
«Questo è dovuto al fatto che la scrofa è chiusa in gabbia o accadrebbe anche se fosse libera?», avevo domandato durante quel nostro dialogo che poi divenne un capitolo di Un pianeta a tavola.
«Se fosse libera forse meno.» mi aveva risposto Sergio. «Il problema è il controllo della bestia e soprattutto l’esigenza di spazio. Le scrofe sono molte e fanno da 8 a 12 piccoli con un ciclo molto rapido per cui nel caso dell’allevamento al pascolo gli spazi sono immensamente superiori a quelli dell’allevamento intensivo. Si potrebbe però anche dire che probabilmente starebbero più tranquille in un box da sole anziché in una gabbia.»
«Quindi lo scopo per cui vengono messe in queste gabbie è solamente quello di massimizzare l’efficienza dell’allevamento.»
«Certo.»
«E fra un ciclo di gravidanza-allattamento e l’altro ci sono appena cinque giorni di riposo, mi dicevi: un tempo brevissimo.»
«Sì, i ritmi sono decisamente contro natura e le conseguenze ci sono: pensa che la scrofa produrrebbe molti suinetti fino al settimo parto; nella media reale non arriva alla quinta gravidanza per patologie varie.»[1]
Quando mi affaccio sulla porta le scrofe sono tutte sdraiate. Faccio qualche passo lungo il corridoio centrale. A questo punto accade qualcosa. La prima scrofa alla mia destra scatta improvvisamente in piedi fissandomi, tesa. Un cupo rumore metallico rimbomba nel locale. Poi la seconda, poi la terza… È come un’onda di tensione che si propaga fino al fondo della “sala”. E a ogni movimento, anche piccolo, consegue quel rimbombare metallico di sbarre scosse. Questo è dunque il modo in cui le scrofe trascorrono quasi metà della loro vita. E so già dalle descrizioni di Sergio che l’altra metà è solo di poco “migliore”.
Esco dalla “sala parto” e passiamo ai locali da ingrasso, ovvero quello che sarà il futuro dei suinetti che ho appena visto. Sono quattro fasi, mi dice l’allevatore, ognuna in un capannone diverso. Entriamo nel primo. Anche qui la stessa atmosfera cupa, l’illuminazione è scarsa e proveniente da finestre poste in alto, che non lasciano vedere l’esterno. Anche qui un corridoio centrale e ai lati due file di box, ovvero grandi vasconi ognuno dei quali contiene numerosi maiali. La prima cosa che colpisce è che gli animali sono tutti uguali, non solo per le dimensioni ma in ogni dettaglio, come fossero fatti in serie. In effetti sono fatti in serie.
Faccio qualche passo all’interno e anche qui si ripete la scena della sala parto. I maiali del primo vascone sono presi da un’improvvisa agitazione, stridono, corrono urtandosi gli uni con gli altri a causa dello spazio molto ristretto, quelli che erano sdraiati e che non fanno in tempo ad alzarsi vengono calpestati, si rialzano a fatica. L’agitazione si trasmette velocemente da un vascone all’altro.
«Quanto spazio ha a disposizione ogni maiale?» domando all’allevatore cercando di superare il frastuono.
«Dipende dalle categorie comunque circa una bestia ogni metro quadro quando sono grassi, da 100 Kg in su.» mi risponde tranquillo, come se stesse dicendo la cosa più normale di questo mondo. Un metro quadro per un animale che giunge a pesare ben più di un quintale.
«E cosa gli date da mangiare?»
«Mais, orzo, frumento e soia.»
Ovvero tutti alimenti utilizzabili direttamente per l’alimentazione umana. Domando se c’è anche il fieno. L’allevatore mi risponde come se stesse dicendo un’ovvietà: «No. Il maiale è monogastrico.» E in effetti è un’ovvietà. Questa infatti è la maledizione della zootecnia: qualunque strada prendi vai sempre a sbattere contro un muro. I ruminanti possono mangiare cibo non adatto all’alimentazione umana ma hanno un impatto ambientale enorme, i monogastrici hanno un impatto ambientale minore ma sono diretti concorrenti dell’uomo nell’alimentazione. Non c’è niente da fare.
Passo a domandare se ci sono problemi con le emissioni di ammoniaca provocate dalle feci. Mi risponde di no. «C’è l’odore del maiale» precisa per spiegare l’origine del tanfo che impregna l’aria «ma non c’è ristagno di gas». Aggiunge che hanno un efficiente impianto di ricircolo che rimuove le feci due volte al giorno e mentre me lo mostra interviene Sergio.
«Hai letto sul giornale che negli Stati Uniti è scoppiato il sesto allevamento dell’anno? Scoppiato letteralmente.»
«Cosa vuol dire scoppiato? » chiede l’allevatore.
«Per il metano. Si vede che c’era stato un accumulo eccessivo, l’allevatore va dentro, è scoppiato. Ci sono stati anche dei morti. Dipende dalla struttura. Avevano sottovalutato la cosa. Probabilmente fermentazioni pazzesche causate da ristagni d’acqua perché per creare queste fermentazioni ci vuole una certa umidità.»
Dunque gli allevamenti possono anche esplodere. Non lo sapevo. Ne prendo nota e andiamo avanti. Giungiamo davanti ai silos dei mangimi.
«Quanta terra avete?» domando.
«Circa 100 ettari, coltivati a mais, cereali e prati stabili per la fienagione delle vacche.»
«Vengono interamente da lì i mangimi che usate?»
«Per l’alimentazione delle vacche siamo autosufficienti; produciamo tutto sui nostri campi. Invece per il mais qui ne faremo circa un 10-20%. Non siamo autosufficienti.»
Dunque 100 ettari non bastano a un allevamento di medie dimensioni. È facile credere alla FAO quando afferma che la zootecnia occupa il 30% delle terre emerse essendo con ciò fra tutte le attività umane quella che usa (e degrada) la più ampia porzione di territorio.
Domando se il liquame proveniente dai capannoni viene usato come concime.
«Certo. Tutto il liquame che viene prodotto viene sparso per uso agronomico. Come concime. Cerchiamo di chiudere il ciclo. Prendiamo il prodotto dalla terra, lo trasformiamo in carne e quello che rimane lo torniamo a portare sulla terra. Questo è il ciclo.»
Un ciclo possibile quando si hanno 100 ettari di terra. Il problema però è che non tutti gli allevamenti hanno così tanta terra, anzi la maggior parte non ce l’ha (e meno male se no non ne resterebbe per l’agricoltura propriamente detta) e fa fronte alle proprie esigenze di mangimi tramite massicce importazioni, e infatti quello degli “spandimenti” di letame è un problema non indifferente ovunque ci sia una forte presenza di allevamenti.
«Qui però siamo in una zona dove non si riesce a espandersi.» aggiunge poi, «Siamo limitati, il terreno qua è diventato una cosa rara.» e mi viene da pensare che ho già sentito da qualche parte questa storia dell’espansione, della crescita, chissà dove… ma è ora di andare, è prevista la visita a un secondo allevamento, un po’ diverso, mi dice Sergio. Diverso? Andiamo a vedere.
Filippo Schillaci
[1] Questo dialogo è parte dell’intervista a Sergio Simonazzi contenuta nel capitolo “Viaggio nella produzione animale” di Un pianeta a tavola, Edizioni per la Decrescita Felice, Roma, 2013.