Il Costa Rica nell’immaginario collettivo è un’oasi di pace verde nel turbolento Centro America: non ha esercito, è probabilmente il Paese più stabile e democratico dell’area, l’ecoturismo nei suoi magnifici parchi e riserve nazionali è una delle maggiori voci del PIL del Paese, Christiana Figueres, la segretaria esecutiva dell’ Executive Secretary of the United Nations Framework Convention on Climate Change, è nata qui ed è anche per questo che il Costa Rica ha preso molto sul serio la lotta contro il riscaldamento globale, tanto che è di questi giorni la notizia che è arrivato a produrre quasi il 100% (esattamente il 99,2%) della sua energia elettrica da fonti rinnovabili. Ma questo Paese virtuoso ha un lato nascosto che sembra riportarci indietro allo sciopero ed alla strage del 1928 nelle piantagioni dell’United Fruit Company in Colombia raccontato da Gabriel Garcia Marquez in Cent’anni di solitudine”: da gennaio uno sciopero che paralizza tre grandi fincas bananiere nella costa caraibica meridionale del Costa Rica, alla frontiera con Panama, ha portato alla luce gli abusi di un’industria saldamente nelle mani delle multinazionali, obbligando ad intervenire i governi costaricense e panamegno.
Come spiega La Razón San Luis «più di 300 lavoratori, quasi tutti indigeni panamegni impiegati nei latifondi bananieri per una filiale della compagnia statunitense Del Monte Foods, sono in sciopero dal 16 di gennaio, protestano contro le persecuzioni sul lavoro, cambiamenti di orario e condizioni di lavoro, mancati pagamenti e licenziamenti illegali». Infatti, dietro le immagini accattivanti e patinate della frutta tropicale che ci ammanniscono le multinazionali in TV c’è un’altra realtà che sembra davvero venire dai romanzi di Marquez: secondo un rapporto Onu del 2014, tra il 70 e il 90% dei 417.000 indigeni panamensi vivono in povertà e La Razón sottolinea che «L’ultimo conflitto tra lavoratori e la multinazionale alimentare nel municipio caribeño di Talamanca, 250 chilometri a sud-est di San José, si pensa sia il risultato di decenni di accumulazioni delle terre nella costa atlantica del Costa Rica, la maggioranza da parte di grandi gruppi bananieri stranieri, però negli ultimi anni anche per lo sviluppo delle coltivazioni di ananas». Insomma una colossale operazione di landgrabbing in America Centrale che ha preso di mira Talamanca, che secondo l’United Nations Development Program è il penultimo degli 81 municipios del Costa Rica per Indice dello sviluppo umano, che ha una popolazione in maggioranza indigena e dove le piantagioni di banana e platano (la banana da cucinare) si estendono sul 37% del territorio.
In Costa Rica quasi tutte le piantagioni di banane sono in mano alle multinazionali, oltre a Del Monte sono presenti filiali della statunitense Chiquita Brands, che controlla il 24% delle esportazioni di frutta, o della Dole Food Company. L’industria bananiera è fondamentale per il territorio caribeño del Costa Rica: secondo Corbana, da lavoro al 6,2% della popolazione attiva costaricense ed al 77% di quella del Caribe, le esportazioni di banane rappresentano il 7% delle vendite all’estero e nel 2014 hanno apportato circa 900 milioni di dollari. La Corbana è un ente creato dallo Stato e dalle compagnie bananiere per favorire la produzione e il commercio, in passato sfruttava direttamente i terreni che ora affitta alle multinazionali che praticamente ne fanno ciò che vogliono.
Gerardo Vargas, un deputato della sinistra del Frente Amplio eletto nella provincia atlantica di Limón, la più grande provincia bananiera del Costa Rica, spiega che «Le fincas in sciopero appartengono alla Corbana (Corporación Bananera Nacional) e le ha affittate a Del Monte. Due anni fa c’è stato uno sciopero molto grande per le condizioni subumane, per i salari e l’immigrazione e così si creò un sindacato. A dicembre hanno ottenuto un contratto con Corbana e, nel rinnovarlo, l’impresa è stata sleale: ha formato un nuovo sindacato, ha liquidato tutti i lavoratori ed ha fatto contratti solo a quelli che stavano nel nuovo sindacato. Così è nato il nuovo conflitto. La concentrazione della proprietà dei terreni a Limón sta diventando pericolosa. Oggi, centinaia e centinaia di famiglie devono vendere le loro terre per trasformarsi in peones».
«L’azienda ci ha congedato il 31 dicembre e, quando ci ha ripresi il 3 gennaio ha detto che siamo nuovi lavoratori e dobbiamo accettare qualsiasi modifica del lavoro, però la giurisprudenza dice che per essere un nuovo lavoratore deve passare almeno un mese», spiega Federico Abrego, uno degli oltre 250 braccianti in sciopero delle piantagioni di Sixaola 1, 2 e 3 che appartengono ai popoli ngöbe e bugle che vivono in una comarca (una zona di autogoverno) indigena di Panama, dall’altro lato della frontiera con il Costa Rica, da dove migrano per lavorare nelle piantagioni che producono le banane e gli ananas che arrivano sulle nostre tavole. Abrego, che è a capo della seccional sindical della Finca Sixaola 3, è un indio gnöbe 53enne che dal 1993 lavora nelle fincas bananiere costaricensi ed è tra i più fortunati, visto che ha il permesso di soggiorno ed attualmente vive con sua moglie ed i suoi figli in età scolare in una casa di proprietà della Banana Development Corporation (Bandeco), la sussidiaria della Del Monte in Cosa Rica, spiega cosa sta succedendo nelle piantagioni di questo Paese “felice”: «I compagni mi chiedono cibo e mi dicono le stesse cose che mmi dicono a casa: che non hanno niente da mangiare e che stanno aspettando che ci reintegrino. Io sto vivendo senza redditocon quel che posso trovare, però ci sono compagni che hanno bambini piccoli e se la stanno passando brutta». Ma gli scioperanti, che al 95% se sono indigeni panamegni, si stanno preparando a resistere ancora: «Siamo qui per lavorare in questo lato della frontiera. Non veniamo a rubare o a togliere il pane a nessuno. E’ raro vedere un nacional (costaricense) dentro in un bananal», sottolinea Abrego.
Lo sciopero ha assunto proporzioni bi-nazionali quando, tra il 20 e il 21 febbraio, i lavoratori bananeros ngöbe e bugle hanno occupato il ponte sul fiume Sixaola, uno dei due punti di collegamento tra Costa Rica e Panama, bloccando per diverse ore il traffico frontaliero. Questa azione e il fatto che i protagonisti fossero degli indios panamegni che lavoravano in una finca costaricense hanno costretto i governi di Panama e Costa Rica ad istituire il 27 febbraio un tavolo di trattativa che dovrebbe fornire delle indicazioni entro un mese. Alle trattative partecipano Bandeco, il Sindicato de Trabajadores de la Empresa Pública y Privada (Sitepp), il Ministerio de Trabajo y Seguridad Social del Costa Rica ed il Ministerio de Trabajo y Desarrollo Laboral di Panama. Harold Villegas, viceministro del lavoro del Costa Rica, ha spiegato a La Razón San Luis che «L’impegno dell’impresa è di riassumere immediatamente 64 lavoratori licenziati e, intanto, i lavoratori non saranno sfrattati dalle loro case».
Troppo poco per sedare un conflitto sociale che dura da anni nelle fincas del Caribe costaricense tra lavoratori e multinazionali bananiere. Nel 2013 il Sitepp organizzò un grande uno sciopero contro le pessime condizioni di lavoro e da allora le denunce al ministero del lavoro si sono moltiplicate. Nel maggio del 2014 un’ispezione ministeriale constatò numerose violazioni delle leggi sul lavoro e degli obblighi per i datori di lavoro e ordinò alle multinazionali di mettersi in regola. Secondo la Dirección Nacional de Inspección del Costa Rica, i dirigenti delle grandi imprese «A volte utilizzano diversi modi per intimidire i loro lavoratori, sia maltrattandoli a parole, sia gridandogli contro, che utilizzando pratiche di molestie sul lavoro. Tra queste denunciamo l’avvio per costruire un sindacato al servizio dell’impresa. Stavano cercando, attraverso questo sindacato, di infiltrarsi nel negoziato sulla convenzione scaduta a dicembre». Il presidente del Sitepp, Luis Serrano, spiega cosa vuole fare Bandeco/Del Monte: «Hanno cominciato una campagna contro di noi a beneficio del sindacato filo-padronale che hanno creato».
Ma nonostante l’accordo bi-nazionale, i leader sindacali dicono che, anche se sono stati riassunti 64 lavoratori come previsto, dalle istituzioni non sono arrivati i promessi aiuti alimentari per i lavoratori in sciopero. Ma i migranti-lavoratori non mollano e la multinazionale sembra aver trovato davvero degli ossi duri, anche perché, parafrasando qualcuno, i bananeros ngöbe e bugle non hanno niente da perdere se non a loro povertà.
FONTE. GREENREPORT.IT