Un articolo su “La luna e i calanchi”, la festa della paesologia (ideata e curata da Franco Arminio) ospitata ad Aliano (Matera) a fine agosto, pubblicato sul blog Comunita provvisorie.
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di Franco Arminio*
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La religione della festa
La luce è in ogni luogo e sopra ogni luogo c’è il cielo. Fare festa a un luogo, raccontarlo, attraversarlo, cantarci dentro. Questo abbiamo fatto ad Aliano, passando dalla coscienza di classe alla coscienza del luogo.
La luna e i calanchi è una festa religiosa. La questione teologica è più importante della questione meridionale, il cuore della vicenda è il tentativo di resistere alla miseria spirituale dilagante.
Le lacrime delle cuoche non me le aspettavo. E i genitori dei ragazzi dello staff, preoccupati di non poter offrire ai loro figli la gioia che ha offerto la festa. Le lacrime delle cuoche appartengono alla religione più che alla cultura. Le lacrime per un legame che si spezza. Noi che ce ne andiamo e loro che restano. Due fragilità che si dividono, si piegano sotto il peso del vuoto bagaglio della vita.
Che nome posso dare a questa religione che arriva fuori tempo massimo? Gli uomini e le donne sono animali superati. Forse il filo che ci legava agli altri esseri e alle cose si è spezzato per sempre. Siamo animali postumi e la mia è una religione per i postumi. Gigio Borriello, uno degli ospiti più intensi, in una sua canzone dice che è morto e dunque non può più morire.
Una visione improvvisa nella mia testa: La luna e i calanchi è un gioioso funerale, proviamo a fare il funerale a una salma che possiamo chiamare modernità. La gioia di un funerale liberatorio.
Ad Aliano c’erano moltissimi ragazzi, di certo attratti dalla musica, ma non solo. Ci sono vari focolai di ragazzi che si sono messi a fare qualcosa per restare nei luoghi dove sono nati o per tornarci dopo aver studiato fuori. Mi pare una notizia che non è contenuta nei rapporti sul Sud basati sulle cifre.
Adesso penso all’arcaico. La Lucania emoziona perché in qualche modo l’arcaico non è stato sterminato. Ma non è l’arcaico che ci interessa, non è il suo fulgore, piuttosto un arcaico ferito, in forma di relitto, di reliquia. L’arcaico fuori forma. Adesso il compito è di concepire qualcosa che già mentre la concepiamo si dissolve. La festa di Aliano è finita e quella che forse faremo l’anno prossimo accadrà in una nuova epoca: in un anno ormai si avvicendano molte epoche.
Oggi è difficile che qualcuno mi possa parlare veramente di questa festa. È come fare una carezza a una bestia ferita con mani che non esistono. Oppure è una profanazione questo fuoco d’artificio di letizia in una terra che non ama esultare, in una terra consacrata al soffrire.
Quest’anno abbiamo fatto anche due uscite nei paesi vicini. In Lucania ogni paese è un’emozione sicura, non esistono luoghi vacui, sfiatati. A Gorgoglione mi hanno colpito i vecchi che stavano seduti davanti alle porte del paese. Mi ricordo il cerchio di sangue di uno intorno a un occhio piccolo e rotondo. Lì ho pensato al petrolio come a un’ingiuria, lì ho sentito che non potrò mai stare dalla parte degli uomini del profitto. La mia gloria è la perdita.
Dovrei pensare a quello che ha detto Aldo Bonomi. Lui ha inquadrato la paesologia tra le speranze del nuovo secolo, non so spiegare bene cosa ha detto, anzi saprei anche spiegarlo, ma non ne ho voglia, il mio corpo oggi vuole indugiare sulle pieghe, sui dettagli. E poi non ha molto senso fare proclami intorno alla paesologia. Mi basta dire che è un piccolo tentativo che a che fare con la religione, nel senso che vuole legare delle emozioni, delle vaghe suggestioni intorno al finire di un mondo e all’inizio di un altro. Senza la fine dalla modernità non ci sarebbe paesologia, ma non è una disciplina rurale e neppure paesana. Qui si tratta di inventare uno spazio impensato, capace di intercettare i flussi buoni e tenere lontani quelli cattivi. I paesi dell’Appennino vanno benissimo come approdo per i profughi, ma non altrettanto per lo sviluppismo dell’ultima ora. In estrema sintesi: sì ai profughi, stop al consumo di suolo.
In fondo la nostra è una guerra partigiana. Si tratta di resistere al nemico comune che possiamo chiamare denaro. Nel momento in cui il denaro diventa teologia, allora bisogna scendere sul terreno del sacro e creare altre teologie. La parola cultura per le mie azioni mi pare fuori luogo. La cultura è nicchia inerte o populismo vacuo. Quello che a me interessa è portare i corpi in un luogo. In effetti gli ospiti più interessanti sono quelli più sbilanciati dalla parte del corpo. Chi balla, chi suona, chi fa l’amore, chi ara il suo corpo per farne luce.
Bisogna avere il coraggio di mostrarsi per quello che siamo, infimi e immensi. Questo è il tempo dell’immenso, la medietà non esiste, è una patina con cui molti si rivestono per nascondersi. Tendo a pensare che ogni individuo è un abisso, una voragine in cui il bene e il male si prendono a calci. C’è una furia in ogni vita e bisogna portarla in superficie. Il mio sogno è fare il festival degli anonimi, invitare solo persone che non conosce nessuno. Magari prima o poi ci riesco, dovrei trovare qualche finanziatore che sfugge al ricatto della fama.
La paesologia mette l’accento sui luoghi sgraziati, sui luoghi che fanno luce da soli. Aliano sarebbe un luogo luminoso anche se non ci fosse nessun essere umano dentro. La forza di questo luogo viene dal suo avere poca vita intorno.
La festa della paesologia dice addio anche a un certo modo di stare a sinistra, tutto centrato sull’opinionismo a costo zero. Mi piacciono i percettivi, gli attenti, quelli che prima di dire il male provano a dire il bene. E per fare questo bisogna lavorare di più perché il bene è raro e sfuggente. Ad Aliano si capisce benissimo che il canto e la poesia stanno un passo avanti rispetto ai ragionamenti rinsecchiti. Il secolo che abbiamo davanti non sappiamo che strada può prendere, per ora è il caso di aver cura della bellezza che si è salvata dal diluvio della modernità. Dunque, la prima cosa da fare è parteggiare per le colline, per i cani, per i baci, parteggiare per le albe, per chi cammina, riunirsi per leggere un libro, per sentire un suonatore di fisarmonica, per zappare un orto, per raccogliere l’uva di una vigna. Ecco le assemblee del nuovo secolo. La sinistra si rifonda qui, si rifonda nei luoghi dove si ripianta il grano buono, si potano gli ulivi con cura, si dà foraggio buono alle mucche. Ecco le tracce di una politica che parte dalla natura, ogni cosa che abbiamo tra le mani viene dalla terra prima che da una fabbrica.
La festa paesologica produce felicità in luoghi che di norma sono affranti, luoghi in cui si cresce con l’idea della fuga. Questo è il tempo di restare dove si nasce, è il tempo di credere ai paesaggi che ci hanno formato, perché se siamo qualcosa è dentro l’aria che abbiamo respirato.
L’alfabeto è continuamente da rivedere. Personalmente non credo più neppure alla letteratura. Credo a qualche pagina, credo a qualche frase, ma la letteratura si è arenata, non toglie e non aggiunge, è un treno d’ombre su un binario morto. La festa della paesologia è il mio libro, un libro scritto con i corpi dei visitatori e degli artisti invitati, con il corpo degli abitanti del paese. Chiamo questi intrecci comunità provvisorie.
La festa ha messo insieme persone assai lontane tra di loro, ma le persone quando danno il meglio di sé un po’ si avvicinano. Il senso della festa sta tutto in questo clima in cui ognuno dà il meglio. Ad Aliano è tutto un fiorire di abbracci, gli abbracci che mi hanno tenuto sveglio a oltranza per sei giorni.
C’è soprattutto una visione, ho capito prima di altri che in certi luoghi del Sud oggi si puòconcepire qualcosa di nuovo. Ho capito che la mia scrittura doveva essere agganciata a delle azioni di militanza collettiva, una militanza festosa, lontana dal grigiore di chi vive sotto la dittatura del problema. In realtà il mondo è già bene accordato ovunque, il problema di solito lo aggiungiamo noi. Con questo punto di vista si possono fare tante cose belle, non solo la festa della paesologia. Dunque, mettiamoci al lavoro fuori dal piombo dei discorsi. Sa di polvere il mondo di chi parla e non crede. Ora c’è da credere in chi crede e guarda.
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* Franco Arminio, paesologo, scrittore e poeta
Fonte: comune-info.net