Niente petrolio dell’Artico per la compagnia petrolifera anglo olandese Royal Dutch Shell. Ieri l’annuncio del colosso, che non continuerà le esplorazioni a 80 miglia dalle coste dell’Alaska.
Non facile operabilità, ostilità da parte delle popolazioni locali e mondo ambientalista, costi elevatissimi e forte instabilità legislativa. Queste le motivazioni addotte dalla multinazionale, che ha già speso sette miliardi di dollari per la prima fase del progetto per lo sfruttamento di petrolio e gas naturale nei mari di Chukchi e Beaufort dal 2007, in Alaska. Una decisione che costerà cara alla Shell: 4,1 miliardi di dollari, tra permessi e futuri impegni contrattuali, che verranno annoverate sotto la voce “perdite”.
La compagnia minimizza. «Continuiamo a vedere un grande potenziale nel bacino, e l’area resterà di importanza strategica per gli Stati Uniti», però ammette che la prima grande esplorazione dell’Artico è fallita. «In ogni caso, questo è un risultato deludente per l’esplorazione di questa parte dell’area» spiega Shell in un comunicato.
La motivazione chiave del ritiro per gli analisti non sono tanto le proteste degli ambientalisti quanto il prezzo ai minimi storici del greggio. «Questa decisione è una chiara reazione ai prezzi bassi», spiega l’analista petrolifero Louise Cooper.
La congiuntura non è infatti delle migliori. Nel 2015 il settore petrolifero ha ridotto del 20% i suoi investimenti nel settore e licenziato oltre 200mila lavoratori in tutto il mondo, il 5% del totale della forza lavoro. Big Oil è in ritirata da varie aree geografiche: Mare del Nord, West Africa, North Dakota. Quindi meglio non rischiare negli investimenti, specie se dai prospetti geologici risultano più difficili del previsto.
Greenpeace esulta: «Questa è una vittoria per tutti coloro che si sono opposti alle perforazioni nell’Artico», dichiara Kumi Naidoo, direttore dell’organizzazione internazionale.
Ma mentre la stampa scrive a lettere cubitali “abbandono”, l’abbandono dell’Artico è tutt’altro che definitivo. «Appena i prezzi torneranno alti, Shell e le altre torneranno alla carica», continua Cooper.
L’annuncio di Shell arriva mentre Eni procede con l’avvio della produzione nel giacimento di Goliat, nel mare di Barents (acque norvegesi), dove si prevede si estrarranno 100mila barili al giorno. Non è certo l’Alaska. Ma comunque un segnale che l’Artico, rimane –purtroppo – una rotta d’interesse per l’industria petrolifera.
Di Emanuele Bompian
Fonte: Bioecogeo.com