di Domenico Finiguerra*
Nel 1795, nel romanzo di formazione Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister, Goethefaceva cantare così Mignon, la ragazzina di origini italiane che Wilhelm incontra tra un gruppo di danzatori di strada, decidendo di prenderla sotto la sua protezione:
Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni?
Brillano tra le foglie cupe le arance d’oro,
Una brezza lieve dal cielo azzurro spira,
Il mirto è immobile, alto è l’alloro!
Lo conosci tu?
Laggiù! Laggiù!
O amato mio, con te vorrei andare!
Conosci tu la casa? Sulle colonne il tetto posa,
La grande sala splende, scintillano le stanze,
Alte mi guardano le marmoree effigi:
Che ti hanno fatto, o mia povera bambina?
La conosci tu?
Laggiù! Laggiù!
O mio protettore, con te vorrei andare.
Conosci tu il monte e l’impervio sentiero?
Il mulo nella nebbia cerca la sua strada,
Nelle grotte s’annida l’antica stirpe dei draghi,
La roccia precipita e sopra lei l’ondata:
Lo conosci?
Laggiù! Laggiù,
Porta la nostra strada, andiamo o padre mio!
Il poeta inglese Robert Browning, venuto a vivere in Italia su consiglio dei medici perché ilclima mite avrebbe meglio curato la malattia polmonare di sua moglie Elizabeth, definì il nostro Paese «la terra delle terre».
Lo scrittore E. M. Forster chiamò l’Italia «un luogo che sconvolge tutti sin dagli inizi del mondo».
La letteratura mondiale ci restituisce una visione dell’Italia che fortifica la convinzione che la nostra penisola sia il Paese più bello del mondo. E quante volte ce ne siamo vantati! Ma in cosa consiste la bellezza dell’Italia? Cosa ha fatto guadagnare alla nostra penisola l’appellativo di Belpaese?
La bellezza dell’Italia sta nel suo paesaggio, nella sua natura, nella sua biodiversità, nella sua varietà di colori, nelle storie che ha vissuto, nella sua architettura, nei suoi mille e piùborghi, nei prodotti della sua terra, nella sapienza con cui i prodotti vengono elaborati e consegnati ai palati di tutto il mondo, nelle sue colline, nelle sue montagne, nei corsi d’acqua che attraversano le sue pianure, nelle sue spiagge, nelle sue rive, nei suoi 49 siti Unesco patrimonio dell’Umanità. La bellezza dell’Italia sta in tutte queste fortune: siamo stati baciati dalla storia, abbiamo dato i natali e stiamo stati attraversati da geni e artisti, siamo un lembo di pianeta Terra che concentra una biodiversità incredibile, una delle maggiori in Europa. Biodiversità che si accompagna ovviamente anche a una varietà di meraviglie del creato.
Questo stato di eccellenza sta sicuramente alla base di un fatto “storico-costituzionale”: l’Italia è stato il primo Paese al mondo a prevedere la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico nella propria Carta Costituzionale. Con l’art. 9, infatti, i cosiddetti padri costituenti hanno deciso di prevedere tra i compiti fondamentali della Repubblica la salvaguardia dell’ambiente e della bellezza, obbligando i governanti a trasmettere integro ciò che è stato ereditato dal passato alle prossime generazioni, attraverso una costante azione di tutela.
Ma tra il dire (della Costituzione) e il fare (dell’azione politica sostanziata nella gestione del territorio) c’è stato un profondo abisso. Dal dopoguerra a oggi lo stato di salute dell’ambiente (e degli abitanti) ha subìto un progressivo peggioramento.
Appurato che paesaggio e biodiversità hanno bisogno di terra bella, pulita e viva, la sola lettura di alcuni dati del 2014 e del 2015 raccolti ed elaborati dall’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) relativamente al consumo di suolo dovrebbe pietrificare gran parte dei politici, o quantomeno le loro decisioni (se davvero si volesse rispettare l’art. 9 della Costituzione):
– consumiamo terra al ritmo di 8/9 mq al secondo;
– oltre il 20 per cento delle nostre coste è stato cementificato, le Marche e la Liguria raggiungono il 40 per cento;
– il 30 per cento delle aree non montuose della Valle d’Aosta è ormai irrimediabilmente consumato, come pure il 20 per cento di quelle delle Lombardia e il 17 per cento della Campania;
– nelle aree della Liguria soggette a rischio idraulico oltre il 30 per cento del suolo è ormai totalmente impermeabile alle acque;
– dagli anni Settanta a oggi, una superficie agricola grande come Liguria, Lombardia ed Emilia Romagna messe insieme è andata persa.
Ma, oltre a questi crudi dati quantitativi, aiuta molto a descrivere il fenomeno del consumo di suolo l’esperienza personale. Come sono cambiati gli scenari delle nostre passeggiate? Che fine hanno fatto i campi dove eravamo soliti vagabondare nei pomeriggi della nostra adolescenza? Ci sono ancora i fossi, i canali, le rogge dove andavamo a pescare, noi ragazzini in cerca di avventura nelle periferie agricole e boschive di medie e grandi città?
E come sono cambiati i paesaggi delle nostre mete di villeggiatura? Le coste liguri, ad esempio, sono le stesse dei primi anni Sessanta? E il litorale laziale? Il profilo della terra ferma che ammiravamo facendo un bagno al largo di Agrigento o di Villasimius è lo stesso? Le Ville Palladiane sul Brenta le ricordiamo circondate da capannoni e centri commerciali? Sarebbe interessante porre queste domande anche ai turisti stranieri. Chissà cosa ci direbbe Goethe oggi, tornando in Italia accompagnato da Mignon.
Se il sentimento di nostalgia per i bei luoghi scomparsi (e anche per quelli meno belli, ma carichi di ricordi) può considerarsi soggettivo, è comunque riscontrabile da tutti come nel volgere di mezzo secolo il paesaggio e il territorio in generale siano mutati notevolmente, e quasi sempre in peggio. A parte poche eccezioni, sono sicuramente ben impresse le sensazioni di privazione di bellezza che ci assalgono quando, tornando a distanza di decenni negli stessi luoghi e mettendoci nella stessa posizione da cui ammiravamo un panorama mozzafiato o una vista serena, ci accorgiamo del disastro compiuto in poco tempo dall’homo sapiens (sapiens?) italiano.
Ma la terra libera dal cemento non ci serve solo per stare bene dal punto di vista psicologico, ci serve anche e soprattutto per mangiare. Il nostro Paese negli ultimi anni ha visto decrescere costantemente la propria sovranità alimentare. La superficie agricola utilizzata, negli ultimi quarant’anni, è scesa del 28 per cento (“Rapporto sul consumo di suolo agricolo” a cura del ministero delle Politiche agricole, 2013). Se nel 1991 avevamo un’autonomia alimentare che superava il 92 per cento, in vent’anni l’abbiamo vista costantemente scendere fino a quota 80 per cento (nel 2010). Inoltre l’Italia è il terzo Paese in Europa e il quinto nel mondo nella classifica del deficit di suolo. Per garantire i nostri consumi e gestire lo smaltimento dei nostri rifiuti (impronta ecologica) ci servirebbero 61 milioni di ettari di suolo libero, ma avendone a disposizione meno di 13 milioni (ne avevamo 18 milioni nel 1971!), ce ne mancano 49!
Basterebbe la consapevolezza di questi dati per fermare immediatamente le ruspe e approvare una moratoria immediata del consumo di territorio. Così come dovrebbe essere sufficiente osservare i disastri e i drammi settimanali, i morti e gli sfollati provocati dal dissesto idrogeologico. Alluvioni, esondazioni e frane che ci indicano anche l’urgenza di intervenire per contrastare il cambiamento climatico che, è bene ricordare, è causato anche dalla cementificazione (leggi anche Gli alluvionati di domani ringraziano di Giorgio Nebbia, ndr). Perché asfaltare e gettare calcestruzzo significa produrre anidride carbonica e diminuire la capacità di assorbimento della stessa CO2, e perché impermeabilizzare equivale a ridurre l’assorbimento di pioggia nel suolo, con effetti diretti sul ciclo idrogeologico ed effetti indiretti sul microclima a livello di temperatura e umidità del suolo (qui il dossier in vista della conferenza internazionale sul clima, Cop21, Il bivio di Parigi,ndr).
Ma, nonostante i fatti scientifici, nonostante l’azione di comitati ambientalisti e di cittadini, nonostante le opinioni e le voci autorevoli, nonostante la Costituzione,nonostante tutto, in Italia si procede con le solite politiche a base di colate di cemento, di saccheggio e intossicazione del territorio: dallo Sblocca Italia che rilancia le grandi opere, che promuove le trivellazioni, che apre al silenzio assenso (sogno di speculatori e palazzinari), che prevede nuovi inceneritori, alle pianificazioni urbanistiche della grande città e dei piccoli paesi che vedono nella monetizzazione del territorio l’unico modo per restare a galla in una situazione di precarietà finanziaria in cui la rendita domina sui diritti delle persone a un ambiente pulito.
L’Europa ha fissato l’obiettivo consumo suolo zero entro il 2050 ma, se non ci fermiamo subito, “affamando la bestia” che divora terra al ritmo di 252 chilometri quadreati all’anno e avviandoci verso la conversione ecologica, in quali condizioni porteremo lo Stivale alla scadenza della prima metà del primo secolo del terzo millennio?
Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni?
Brillano tra le foglie cupe le arance d’oro,
Una brezza lieve dal cielo azzurro spira,
Il mirto è immobile, alto è l’alloro!
Lo conosci tu?
Laggiù! Laggiù!
O amato mio, con te vorrei andare!
.
Domenico Finiguerra, già sindaco (2002-2012) di Cassinetta di Lugagnano (vincitore del premio nazionale “Comuni Virtuosi” nella categoria “Gestione del territorio”) e copromotore della campagna nazionale “Stop al Consumo di Territorio” e del Forum nazionale Salviamo il Paesaggio, è oggi consigliere comunale ad Abbiategrasso (MI), alla guida di una lista civica. Altri articoli di Finiguerra sono leggibili qui
.
Questo articolo fa parte di un quaderno di Adista, dal titolo Non esiste un piano B, dedicato ai problemi ecologici, pubblicato in vista della conferenza sul clima di Parigi. Il numero speciale – tutto on line – raccoglie anche interventi di Leonardo Boff, Marcelo Barros, Cristina Mattiello e Paolo Maddalena (Territorio bene comune. Nel nome del popolo sovrano).