Maurizio Pallante, La visione del mondo espressa nell’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco.

da | 26 Nov 2015

Pubblichiamo di seguito uno scritto di Maurizio Pallante sull’ultima encilica papale “Laudato Si”. Uno scritto, quello del Papa che non è stato ancora ben affrontato o meglio inquadrato nella sua valenza e nel profondo cambiamento di visione del mondo che esso porta.

Lo scritto che segue, anche se un po’ lungo, è molto approfondito e cerca di gettare luce su quanto lo scritto del Papa può portare nel mondo contemporaneo.

Ricordiamo anche che l’articolo che segue è  una scheda del libro “Destra e sinistra addio. Per una nuova declinazione dell’idea di decrescita”, Lindau editore, che sarà in libreria a gennaio.

Buona lettura.

L’Enciclica Laudato si’ (=LS) analizza le cause e gli effetti dei più gravi problemi ambientali con un’accuratezza scientifica che non trova riscontri in nessun altro documento firmato da un leader politico o religioso. Tuttavia è riduttivo considerarla un testo ecologista, perché la crisi ecologica viene analizzata come la manifestazione più grave di una crisi di civiltà che sta causando sofferenze sempre maggiori non solo alla specie umana, ma a tutte le specie viventi. «Ciò che sta accadendo – scrive Papa Francesco – ci pone di fronte all’urgenza di procedere in una coraggiosa rivoluzione culturale».  E, citando la Carta della Terra, approvata all’Aja nel 2000, afferma: «Come mai prima d’ora nella storia il destino comune ci obbliga a cercare un nuovo inizio» (n. 207). In tutta l’Enciclica questo concetto viene ribadito più volte: siamo alla fine di un’epoca storica ed è necessario costruire su fondamenta culturali completamente diverse una nuova fase della storia umana. Nella premessa vengono indicati gli assi portanti che attraversano tutta l’Enciclica:
«L’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita» (n. 16).
Il secondo di questi assi, «la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso», che ogni specie vivente ha una funzione insostituibile nella fitta rete di relazioni in cui tutte sono inserite, ha il suo fondamento nell’ecologia, la disciplina scientifica che studia le interazioni degli organismi viventi tra loro e con gli ambienti in cui vivono, fondata nella seconda metà del diciannovesimo secolo dal biologo e zoologo tedesco Ernst Haeckel. Da questa concezione fondata scientificamente deriva una conseguenza di carattere filosofico, da cui il papa deduce anche un’indicazione etica e comportamentale
«Poiché tutte le creature sono connesse tra loro, di ognuna deve essere riconosciuto il valore con affetto e ammirazione, e tutti noi esseri creati abbiamo bisogno gli uni degli altri. Ogni territorio ha una responsabilità nella cura di questa famiglia, per cui dovrebbe fare un accurato inventario delle specie che ospita, in vista di sviluppare programmi e strategie di protezione, curando con particolare attenzione le specie in via d’estinzione». (n. 42)
Nell’Enciclica il valore in sé di ogni specie vivente non viene riconosciuto soltanto filosoficamente sulla base delle acquisizioni scientifiche dell’ecologia, ma riceve una connotazione spirituale, derivante dalla concezione del mondo come creato e dei viventi come creature, a cui il Creatore ha assegnato una collocazione specifica nel suo disegno divino. Non è necessario credere nella visione religiosa di Papa Francesco per capire che in questo contesto tutti i viventi ricevono una valorizzazione ulteriore:
«Dunque, si capisce meglio l’importanza e il significato di qualsiasi creatura, se la si contempla nell’insieme del piano di Dio. Questo insegna il catechismo: «L’interdipendenza delle creature è voluta da Dio. Il sole e la luna, il cedro e il piccolo fiore, l’aquila e il passero: le innumerevoli diversità e diseguaglianze stanno a significare che nessuna creatura basta a se stessa, che esse esistono solo in dipendenza le une dalle altre, per completarsi vicendevolmente, al servizio le une delle altre». (n. 86)
Se ogni specie vivente ha una funzione insostituibile nella rete delle relazioni che la interconnettono a tutte le altre, il male subito da ognuna di esse si ripercuote su tutte, anche su chi lo commette:
«… essendo stati creati dallo stesso Padre, noi tutti esseri dell’universo siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia universale, una comunione sublime che ci spinge a un rispetto sacro, amorevole e umile. Voglio ricordare che «Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che ci circonda, che la desertificazione del suolo è come una malattia per ciascuno, e possiamo lamentare l’estinzione di una specie come fosse una mutilazione». (n. 89 che cita Francesco, Esort. Ap. Evangeli gaudium, (24-11-2013), n. 215).
La consapevolezza della pari dignità di ogni specie vivente e della necessità di ognuna di esse nella fitta trama delle relazioni che le connettono tra loro e con i luoghi della terra in cui vivono, non consente di considerarle risorse al servizio della specie umana, come è stato fino ad ora nelle società industriali.
«Oggi la Chiesa non dice in maniera semplicistica che le altre creature sono completamente subordinate al bene dell’essere umano, come se non avessero un valore in se stesse e noi potessimo disporne a piacimento. Così i Vescovi della Germania hanno spiegato che per le altre creature “si potrebbe parlare di priorità dell’essere sull’essere utili”». (n. 69).
La convinzione che tutte le specie viventi siano al servizio della specie umana, non è soltanto la causa di fondo della crisi ecologica, ma genera anche gravi conseguenze sociali, perché induce gli esseri umani a competere per impadronirsene e favorisce i più forti a danno dei più deboli.
«Sarebbe […] sbagliato pensare che gli altri viventi debbano essere considerati come meri oggetti sottoposti all’arbitrario dominio dell’essere umano. Quando si propone una visione della natura unicamente come oggetto di profitto e di interesse, ciò comporta anche gravi conseguenze per la società. La visione che rinforza l’arbitrio del più forte ha favorito immense diseguaglianze, ingiustizie e violenze per la maggior parte dell’umanità, perché le risorse diventano proprietà del primo arrivato, o di quello che ha più potere: il vincitore prende tutto. L’ideale di armonia, di giustizia, di fraternità e di pace che Gesù propone è agli antipodi di tale modello, e così Egli lo esprimeva ai poteri del suo tempo: «I governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra di voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore» (Mt, 20, 25-26). (n. 82)
La visione del mondo e dei rapporti tra la specie umana e le altre specie viventi delineata da questi passaggi dell’Enciclica capovolge i due capisaldi, strettamente interconnessi tra loro, su cui si è fondata la cultura europea a partire dal diciassettesimo secolo e si è successivamente sviluppata la rivoluzione industriale:
– una concezione dell’antropocentrismo come superiorità ontologica della specie umana su tutte le altre specie viventi, da cui deriverebbe il suo diritto di utilizzarle ai suoi fini, che trovò la sua formulazione filosofica più compiuta nel pensiero del filosofo francese René Descartes (Discorso sul metodo, 1637);
– una concezione della scienza e della tecnologia come strumenti di dominio della specie umana nei confronti di tutte le altre specie viventi, che fu formulata dal filosofo inglese Francis Bacon qualche anno prima (Novum Organum, 1620).
Questa concezione dell’antropocentrismo, che papa Francesco definisce deviato, è stata dedotta da un’interpretazione di due passi del libro della Genesi in cui viene descritta la creazione dell’uomo. Nel primo racconto più recente (sec. VI-V a.C.) si legge che Dio, dopo averlo creato a sua immagine e somiglianza, gli affidò il compito «di dominare sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame e sulle fiere della terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». (Gen 1,26)
Nel secondo racconto (più antico, sec. IX-X a.C.) è scritto che «il Signore rapì l’uomo e lo depose nel giardino dell’Eden perché lo lavorasse e lo custodisse». (Gen 2,15) Commentando questi passaggi, Papa Francesco respinge l’interpretazione che attribuiscano agli esseri umani il compito, e quindi il diritto, di dominare e utilizzare ai propri fini gli altri viventi, come è stato sostenuto in passato dalla Chiesa stessa, ma sostiene che il potere derivante dal fatto di essere gli unici viventi ad essere stati creati a immagine e somiglianza di Dio, un Dio che agisce per amore («l’amor che move il sole e l’altre stelle», scrive il papa citando (cfr n. 77) La Divina Commedia di Dante (Par. XXX, 145), conferisca ad essi la responsabilità di proteggere e avere cura di tutti gli altri:
«Dobbiamo rifiutare con forza che dal fatto di essere creati a immagine di Dio e dal mandato di soggiogare la terra si possa dedurre un dominio assoluto sulle altre creature. […] Mentre coltivare significa arare o coltivare un terreno, «custodire» vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare. Ciò implica una relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura. Ogni comunità può prendere dalla bontà della terra ciò di cui ha bisogno per la propria sopravvivenza, ma ha anche il dovere di tutelarla e di garantire la continuità della sua fertilità per le generazioni future. In definitiva, «del Signore è la terra» (Sal 24,1), a Lui appartiene «la terra e quanto essa contiene» (Dt 10,14). Perciò Dio nega ogni pretesa di proprietà assoluta: «Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti (Lv 25,23)». (n. 67)
Non solo Papa Francesco respinge la lettura antropocentrica di questi passaggi biblici, ma ne ricava due indicazioni che conferiscono una connotazione spirituale alle scelte comportamentali e politiche rispettose confronti della terra. La prima: «Ogni comunità può prendere dalla bontà della terra ciò di cui ha bisogno per la propria sopravvivenza, ma ha anche il dovere di tutelarla e garantire la continuità della sua fertilità per le generazioni future», definisce la differenza tra l’agricoltura organica, che potenzia e regolarizza la naturale fertilità dei suoli arricchendone il contenuto humico, e l’agricoltura chimica, che per estrarne la maggiore produzione possibile li impoverisce mineralizzandoli.
La seconda: «Dio nega ogni pretesa di proprietà assoluta: “Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti” (Lv 25, 23)», conferisce un valore universale a scelte storiche e giuridiche come l’articolo 42, comma 2, della Costituzione italiana, che recita: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». Per capire la rivoluzione culturale insita nella lettura fatta da Papa Francesco di questi passaggi della Bibbia, occorre leggere l’interpretazione che ne è stata, data appena cinquant’anni prima, da un altro Papa, Paolo VI, nell’Enciclica Populorum progressio.
«“Riempite la terra e assoggettatela”, (Gen 1, 28): la Bibbia, fin dalla prima pagina, ci insegna che la creazione intera è per l’uomo, cui è demandato il compito d’applicare il suo sforzo intelligente nel metterla a valore e, col suo lavoro, portarla a compimento, per così dire, sottomettendola al suo servizio. […] Il recente concilio l’ha ricordato: «Dio ha destinato la terra e tutto ciò che contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, di modo che i beni della creazione devono equamente affluire nelle mani di tutti, secondo la regola della giustizia, ch’è inseparabile dalla carità. (Const. past. Gaudium et spes, n. 69)». (Pop. Pro., n. 1)
Paolo VI era indotto a scrivere queste righe nel 1967 dalla constatazione delle profonde diseguaglianze esistenti tra una minoranza dell’umanità, i popoli ricchi, che disponeva di una quantità sovrabbondante di beni, e la maggioranza dei popoli, a cui mancava il necessario per vivere dignitosamente, o semplicemente per vivere. Attraverso l’Enciclica chiedeva ai popoli ricchi, che dal 1949, a partire dal discorso d’insediamento alla Casa Bianca del presidente americano Harry Truman, venivano definiti sviluppati, di aiutare i popoli poveri a superare la miseria in cui vivevano, di favorire il loro sviluppo, fornendo ad essi l’assistenza tecnologica necessaria per ricavare dalla natura le risorse necessarie ad aumentare la quantità di beni a loro disposizione.
Paolo VI ha esercitato i suoi mandati al vertice della Chiesa cattolica, come pro-segretario di Stato dal 1944 al 1954, come arcivescovo di Milano dal 1954 al 1963 e come papa dal 1963 al 1978: nei trent’anni dal 1945 al 1975 che gli economisti francesi chiamano gloriosi, in cui nei paesi europei e negli Stati Uniti si è realizzata una crescita economica straordinaria, priva di corrispettivo negli altri Paesi del mondo. La cultura progressista di quel periodo riteneva che il modello economico e produttivo dei paesi ricchi fosse buono, anzi il migliore mai apparso nella storia, perché creava ricchezza, ma che fosse ingiusto perché non la distribuiva equamente.
A partire da queste premesse Paolo VI sollecitava i Paesi sviluppati a sostenere con l’apporto delle loro tecnologie i Paesi sottosviluppati, affinché potessero aumentare la loro capacità di sfruttare le risorse della terra e trasformarle in beni. Le componenti progressiste della cultura industriale pensavano che l’obbiettivo etico di una maggiore equità tra gli esseri umani si potesse ottenere aumentando il dominio della specie umana sulle altre specie viventi, perché la percezione che questo dominio fosse una iniquità era stata cancellata dalla convinzione che esse nell’ordine divino fossero state poste al suo servizio.
In meno di cinquant’anni le applicazioni tecnologiche fondate su un antropocentrismo così duro e assoluto hanno sortito l’effetto contrario di impoverire sempre di più i popoli sottosviluppati, a cui i popoli sviluppati hanno sottratto in misura sempre maggiore «i beni della creazione» per alimentare la loro crescita economica, hanno persuaso i popoli sviluppati che il senso della vita consista nell’acquistare quantità sempre maggiori di merci da buttare nei rifiuti sempre più in fretta, hanno causato sofferenze indicibili a un numero sempre più ampio di specie animali, hanno superato la capacità della terra di fornire alla megamacchina industriale le materie prime da trasformare in merci e di metabolizzare gli scarti generati dalla produzione e dall’uso delle merci.
Oltre ad aggravare le ingiustizie nei confronti dei popoli sottosviluppati, le tecnologie finalizzate ad accrescere il dominio della specie umana sulla natura, hanno provocato alterazioni sempre più gravi degli ecosistemi, in particolare dei fattori climatici, che verranno pagate in misura sempre maggiore dai popoli sottosviluppati, accrescendo ulteriormente le loro sofferenze e la loro povertà. L’iniquità della specie umana nei confronti di tutte le altre specie viventi oltre ad essere stata la principale causa della crisi ecologica, ha aumentato anche le iniquità tra gli esseri umani.
A cinquant’anni di distanza, Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’ capovolge la visione antropocentrica sostenuta da Paolo VI affermando che tutto nel mondo è intimamente connesso, che le altre specie viventi non sono risorse a disposizione della specie umana, ma hanno la loro necessità e la loro dignità, che il male fatto a ognuna di esse si ripercuote su tutte le altre, esseri umani compresi, in particolare sui più poveri. E ne deduce che la riduzione delle iniquità tra gli esseri umani e la riduzione delle iniquità tra la specie umana e le altre specie viventi sono intrinsecamente correlate, che non si può perseguire l’una senza perseguire anche l’altra, che l’aggravamento di una aggrava anche l’altra. Nel Cantico delle Creature la percezione dei legami che connettono tutte le specie viventi tra loro, con i fattori abiotici e con i luoghi in cui vivono, è espressa da San Francesco in termini di rapporti fraterni. Dà una valenza ulteriore, empatica ed etica, alla consapevolezza scientifica che ne abbiamo oggi. Scrive il papa che salendo al soglio pontificio ha voluto prendere il nome del poverello di Assisi:
«[…] quando il cuore è veramente aperto a una comunione universale, niente e nessuno è escluso da tale fraternità. Di conseguenza, è vero anche che l’indifferenza o la crudeltà verso le altre creature di questo mondo finiscono sempre per trasferirsi in qualche modo al trattamento che riserviamo agli altri esseri umani. Il cuore è uno solo e la stessa miseria che porta a maltrattare un animale non tarda a manifestarsi nella relazione con le altre persone». (n. 92)
Il modo di perseguire l’equità indicato da Paolo VI costituisce la variante progressista cattolica della cultura industriale. Il modo indicato da Francesco I è una critica radicale del modo di produzione industriale. Per riprendere le argomentazioni sviluppate da Norberto Bobbio nel suo libro Destra e sinistra: ragioni e significati di una distinzione politica, la destra rappresenta la tendenza culturale e politica che ritiene naturali e immodificabili le diseguaglianze esistenti tra gli esseri umani, mentre la sinistra è la tendenza opposta che si propone a favorire l’eguaglianza.
Pertanto la posizione di Paolo VI, per quanto possa sembrare strano sostenerlo, rientra culturalmente nell’ambito della sinistra. È la componente della sinistra che fonda la pulsione all’eguaglianza sull’idea della fratellanza umana. Non ha niente a che fare con la componente della sinistra che si propone di perseguirla con la lotta di classe, anzi ne è sempre stata l’antagonista vincente. La posizione di Papa Francesco non rientra nella sinistra, anche se è stata interpretata così, sia dalla sinistra, sia dalla destra, perché non si limita a criticare l’iniquità con cui i più forti gestiscono ai danni dei più deboli un modello economico di cui si valuta positivamente la capacità di creare ricchezza e benessere, ma indica esplicitamente nella finalizzazione della produzione al profitto, che caratterizza questo modello, la causa sia dell’iniquità sociale, sia del degrado ambientale che accresce ulteriormente l’iniquità sociale perché le sue conseguenze più gravi vengono pagate dai più poveri.
«Il principio della massimizzazione del profitto, che tende ad isolarsi da qualsiasi altra considerazione, è una distorsione concettuale dell’economia: se aumenta la produzione, interessa poco che si produca a spese delle risorse future o della salute dell’ambiente; se il taglio di una foresta aumenta la produzione, nessuno misura in questo calcolo la perdita che implica desertificare un territorio, distruggere la biodiversità o aumentare l’inquinamento». (n. 195)
Individuando la causa del degrado ambientale nella finalizzazione dell’economia al profitto, la critica di Papa Francesco non si appunta sul capitalismo, che non viene mai nominato nella Laudato si’ (a differenza della Populorum Progressio, che invece lo chiama in causa), ma si riferisce al modo di produzione industriale, di cui il capitalismo è la variante vincente a livello mondiale, dopo la sconfitta della variante socialista, sancita definitivamente nel 1989 dall’abbattimento del muro di Berlino. La sua critica ha per oggetto la razionalità strumentale, da cui sono accomunate entrambe le varianti del modo di produzione industriale: il capitalismo e il socialismo.
«La razionalità strumentale, che apporta solo un’analisi statica della realtà in funzione delle necessità del momento, è presente sia quando assegnare le risorse è il mercato, sia quando lo fa uno Stato pianificatore». (n. 195)
L’Enciclica di papa Francesco supera la contrapposizione tra l’ideologia liberista e l’ideologia socialista, che ha caratterizzato la dialettica culturale e politica nell’epoca storica in cui si è sviluppato e si è gradualmente esteso a tutto il mondo il modo di produzione industriale. Indica nella finalizzazione dell’economia al profitto la causa di una crisi ambientale e di una crisi sociale interdipendenti tra loro, che non possono essere risolte all’interno di questo modello economico e produttivo. Propone alcuni cambiamenti radicali, nella tecnologia, negli stili di vita, nella concezione del progresso, nel sistema dei valori, come anticipazioni di un paradigma culturale alternativo da costruire. «Si attende ancora – scrive il papa – lo sviluppo di una nuova sintesi che superi le false dialettiche degli ultimi secoli». (n. 121).
Impossibile non capire che si riferisca alla contrapposizione tra le varianti dell’ideologia liberista e le varianti dell’ideologia socialista. Inevitabile che suscitasse diffuse incomprensioni, per lo più da sinistra, critiche rabbiose, per lo più da destra, interpretazioni distorte. Ma anche un grande interesse in tutti coloro che non sono stati appiattiti dal consumismo sulla dimensione materialistica della vita e hanno mantenuto viva la loro spiritualità. Di coloro che non ritengono che lo scopo della vita sia produrre sempre di più per consumare sempre di più e consumare sempre di più per poter continuare a produrre sempre di più.
La finalizzazione dell’economia alla crescita del profitto richiede l’uso di tecnologie sempre più potenti che aumentano in continuazione la produzione di merci. E di conseguenza il prelievo di risorse da utilizzare nei processi produttivi e le emissioni di sostanze non metabolizzabili dalla biosfera. Se l’economia continuerà ad essere finalizzata alla crescita, la crisi ecologica e la crisi sociale si aggraveranno fino al collasso perché le risorse della terra non sono infinite, né è infinita la sua capacità di metabolizzare le emissioni dei cicli produttivi e dell’uso dei prodotti.
«Da qui si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia. Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a “spremerlo” fino al limite e oltre il limite. Si tratta del falso presupposto che «esiste una quantità illimitata di energia e di mezzi utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente assorbiti». [Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 462]». (n. 106)
Anche se non ne è diffusa la consapevolezza, scrive Papa Francesco, la causa di fondo della crisi ecologica è la crescita economica. E, se la crisi ecologica è strettamente interconnessa con la crisi sociale, come viene ripetuto più volte nell’Enciclica, è inevitabile dedurne che è anche la causa delle iniquità tra gli esseri umani e tra i popoli. «Non ci si rende conto a sufficienza di quali sono le radici più profonde degli squilibri attuali, che hanno a che vedere con l’orientamento, i fini, il senso e il contesto sociale della crescita tecnologica ed economica». (n. 109)
Non dovrebbe stupire che da queste premesse il pontefice abbia dedotto, suscitando l’indignazione delle vestali della crescita e di chi ne ricava benefici e potere, che sia «[…] arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti» (n. 193). In questa frase i termini crescita e decrescita non vengono usati nel loro significato economico di aumento e diminuzione del valore monetario dei beni finali scambiati con denaro nel corso di un anno, e quindi con l’aumento e la diminuzione del reddito pro-capite, perché, se così fosse, si ricadrebbe nell’interpretazione dell’equità come estensione ai popoli poveri del modello economico dei popoli ricchi, basato sulla crescita dell’iniquità nei confronti di tutti gli altri viventi.
Il concetto è espresso in termini di risorse, cioè di una diminuzione dei consumi di risorse della terra da parte dei popoli che hanno più del necessario, al fine di aumentare la quantità di risorse utilizzabili dai popoli che hanno meno del necessario per sostenere una loro crescita economica sana, cioè diversa da quella non compatibile con i limiti della biosfera dei popoli ricchi.
Anche se sarebbe stato auspicabile un approfondimento di questi concetti, per la prima volta la decrescita riceve un riconoscimento della massima autorevolezza morale e viene indicata come la condizione indispensabile per realizzare in questa fase della storia la pulsione all’eguaglianza insita nell’animo umano, che costituisce l’elemento caratterizzante dell’insegnamento di Cristo.
Dopo due secoli e mezzo di esaltazione acritica della crescita da parte di tutte le correnti di pensiero, di destra, di sinistra e della stessa Chiesa cattolica, a fronte dell’irrisione riservata sino ad ora alla decrescita da politici, imprenditori e intellettuali che pure si vantano della loro formazione cattolica (e, per quanta buona volontà ci mettano, non riescono dal 2008 a far ripartire la crescita economica), questa apertura di Papa Francesco indica il nuovo inizio che, secondo la Carta della Terra, approvata all’Aia nel marzo del 2000, il destino comune ci obbliga a cercare.
24 novembre 2015