Conferenza di Parigi, allevamenti e omertà

da | 14 Dic 2015

Nell’imminenza del vertice di Parigi sulle variazioni climatiche il National Geographic ha dedicato a questo argomento il suo numero di novembre; oltre 160 pagine sui pericoli che corre il mondo e su cosa fare per rimediare. Apro la rivista e sul retro di copertina leggo una frase che mi fa ben sperare: “Il cambiamento siamo noi” ma la speranza dura poco: è una pubblicità delle Poste Italiane. Sfoglio pagina dopo pagina e vanamente cerco ciò che puntualmente non appare ogni volta che si parla di variazioni climatiche, di impatto ambientale, degrado degli ecosistemi e così via: il ruolo che in tutto ciò ha la pesante questione zootecnica, un settore responsabile da solo di un quinto delle emissioni mondiali di gas serra e nonostante ciò mai nominato. A pag. 6 leggo che «nel Mato Grosso, Brasile, negli ultimi decenni quasi un quarto della foresta è stato abbattuto per far posto all’agricoltura liberando nell’atmosfera milioni di tonnellate di carbonio fissate negli alberi.» In realtà almeno il 60% di queste aree sono state deforestate per far posto agli allevamenti, qui inclusi sotto il termine generico e asettico di “agricoltura”. L’unico riferimento esplicito a essi è un po’ più avanti, a pag. 72, ma solo per dire in poche righe che a causa delle variazioni climatiche gli allevatori dovranno passare a specie di bestiame che sopportano meglio il caldo. Ma sul fatto che siano loro una delle principali cause di esse (e di molto altro) nemmeno una parola.

Facciamo un po’ di storia. Il primo a sollevare l’argomento fu, negli anni ’90, Jeremy Rifkin con il suo ormai storico libro Ecocidio, e fu il primo a dire senza mezzi termini che l’unico allevatore ecosostenibile è quello che ha cambiato mestiere. Nel 2006 giunse il rapporto Livestock’s long shadow (La lunga ombra del bestiame) della FAO la quale tenne, al contrario di Rifkin, un atteggiamento ambivalente: mentre da una parte i dati confermavano e completavano, sempre in negativo, il quadro già offerto da Rifkin, l’ottica della FAO non era quella di un cambiamento di rotta ma dell’affannosa ricerca dei modi di rendere sostenibile l’insostenibile. In particolare era presentato come un dato indiscutibile il raddoppio della produzione zootecnica entro il 2050. La FAO stessa tuttavia ammetteva che tutti gli accorgimenti prospettati sono di complessa e difficile attuazione, soprattutto in quelle realtà economicamente disagiate che rappresentano poi la norma nei paesi non industrializzati.

Secondo un articolo pubblicato su The Lancet un anno dopo lo studio FAO, «studi recenti indicano che le tecnologie disponibili potrebbero ridurre le emissioni per unità di prodotto animale di circa il 20% a costi accessibili. Comunque riduzioni al di là di questi livelli non sono attualmente ottenibili a costi realistici». Pertanto, «poiché una rapida riduzione di emissioni di gas serra per unità di produzione zootecnica sarebbe tecnicamente e culturalmente difficile in tempi brevi, il primo obiettivo deve essere ridurre i consumi di prodotti animali nei paesi ricchi.» Tutto ciò era già evidente dallo studio della FAO, la quale tuttavia si guardò bene dal trarne le ovvie deduzioni.

Una cosa che risulta chiara nel rapporto FAO è che a provocare un così alto impatto ambientale non sono solo gli allevamenti industriali (la cui insostenibilità è e rimane indiscutibile) ma anche quelli tradizionali, che sono ancora i più diffusi nel mondo soprattutto per i ruminanti, quelli a impatto ambientale più pesante. A proposito di emissioni di gas serra, elaborando i dati FAO si ottiene che il 91% delle emissioni di origine zootecnica è dovuto a cause scarsamente dipendenti dal tipo di allevamento mentre il 70% è dovuto ad allevamenti basati sulla terra, cioè non intensivi (non perché siano peggio di quelli industriali ma perché, come detto prima, sono più diffusi). Inoltre, solo l’1,3% delle emissioni è dovuto all’uso di combustibili fossili in azienda mentre la quasi totalità delle emissioni è dovuta a desertificazione, deforestazione, fermentazione enterica e decomposizione del letame, tutte cause poco dipendenti appunto dal tipo di allevamento. Non è nemmeno certo che gli allevamenti biologici siano meno impattanti di quelli intensivi. Gli studi comparativi pubblicati in quegli anni davano risultati contraddittori. La realtà è quella espressa nelle conclusioni del rapporto FAO, ovvero che «l’allevamento nel mondo è praticato in tutte le forme possibili, dalle più estensive alle più intensive ma, qualunque esse siano, l’impatto ambientale rimane elevato».

E la “carne a Km 0?” Dei 7,1 miliardi di tonnellate equivalenti di anidride carbonica emesse nell’atmosfera a causa delle attività zootecniche solo 850.000 tonnellate sono dovute ai trasporti, pari allo 0,012% delle emissioni zootecniche totali. Il concetto di “carne a km 0” insomma è del tutto privo di sostanza.

Nonostante ciò ogni volta che nel computo dei disastri ambientali entra miracolosamente in campo la zootecnia ciò avviene sempre con riferimento ai soli allevamenti industriali, e (lo abbiamo letto anche nelle scorse settimane) si invoca come rimedio quella che viene genericamente indicata come “agricoltura contadina”. Ma se è esatto affermare che il futuro è costituito dall’agricoltura contadina, ciò è vero solo a condizione che sia davvero agricoltura. Quanto all’allevamento “contadino”, esso non è meno devastante di quello su grande scala perché immutata è la quantità gigantesca di terreno di cui ha bisogno, immutato è il sistema digestivo degli animali, responsabile dell’emissione di grandi quantità di metano, immutato è l’indice di conversione. Non è un caso se qualche anno fa, durante un seminario sull’agricoltura sostenibile, ho udito da un intransigente sostenitore di questo tipo di allevamento affermare che «le foreste non servono a nulla perché non ci danno cibo». Infatti gli allevatori sono 20.000 anni che le bruciano.

Del rapporto FAO si parlò brevemente sui mass media ma con il solo risultato di suscitare, da parte del mondo degli allevatori, il varo di un gigantesco “progetto greenwashing” globale che dura ancor oggi.

L’ultima perla da esso prodotta è un studio o presunto tale promosso nel marzo scorso da tre grosse associazioni di categoria italiane che rappresentano gli allevamenti di bovini, suini e pollame, secondo cui la produzione zootecnica avrebbe lo stesso impatto ambientale della produzione di vegetali. Essi giungono a questa conclusione considerando che «se si segue il giusto modello alimentare, l’impatto medio settimanale della carne risulta allineato a quello di altri alimenti, per i quali gli impatti unitari sono minori, ma le quantità consumate decisamente maggiori». Ma, a parte il fatto che, come nota in un comunicato stampa il NEIC (Nutrition Ecology International Center), «i consumi reali di carne, pesce, latticini e uova sono molto maggiori di quelli permessi dalle linee guida» proprio questo modo di impostare il problema dimostra che i cibi di origine animale hanno un impatto molto più alto dei vegetali: «in una alimentazione che segua le linee guida», continua il NEIC, «il consumo di carne è basso (molto minore dei livelli attuali di consumo reale), quindi costituisce solo una piccola parte della dieta. Ebbene, nonostante questo, secondo gli stessi allevatori, l’impatto ambientale generato dalla produzione di quella piccola quantità di carne eguaglia quello di tutto il resto della dieta-tipo, vale a dire quantità molto maggiori di verdura, frutta, legumi, pane, pasta, riso e altri cereali, ecc, da cui si ricava la maggior parte dei nutrienti necessari. Il che significa che produrre carne ha un impatto molto maggiore rispetto a produrre vegetali.»

Ma c’è di più: in realtà i due impatti ambientali sono ben lontani dall’eguagliarsi: secondo uno studio recente pubblicato sulla rivista Foods una dieta onnivora bilanciata ha un impatto pari al 463%, di una dieta vegana.

 

Facciamo ora un passo indietro nel tempo. Due anni fa la COOP ha presentato la certificazione degli impatti ambientali della sua filiera di produzione. Particolare attenzione ha riservato alla filiera della carne bovina, la più impattante in assoluto, affermandone la sostenibilità. Con che argomenti? «Che una bistecca impatti più di un cespo di insalata è fuori discussione» dichiarò Claudio Mazzini, responsabile “sostenibilità, innovazione e valori” di COOP Italia, «però dobbiamo ricordarci che sono alimenti con un valore nutritivo decisamente diverso». Magnifico artificio di arte retorica, come se chi si nutre di cibi vegetali andasse avanti solo a cespi di insalata. Molti riflettori furono (e vengono) puntati sull’uso del letame per produrre biogas, ovvero sul recupero delle emissioni di metano dovute alle fermentazione del letame. Nessuno però disse (e dice) che solo un quinto delle emissioni di metano provocate dai bovini viene da quella fonte. I quattro quinti sono prodotte dalla fermentazione enterica, ovvero dal processo digestivo dei ruminanti e vengono emessi direttamente nell’aria. Inoltre la fermentazione del letame genera anche monossido di azoto, gas serra oltre 200 volte più potente dell’anidride carbonica, non utilizzabile in nessun modo. Che fine fa?

 

Ultimo passo indietro nel tempo: nel 2012 la FAO “coerentemente” con i risultati del proprio studio di sei anni prima, ha annunciato la nascita del progetto Livestock partnership. «I nuovi partner della FAO» spiega Robert Goodland, specialista in questioni ambientali del Worldwatch Institute e consulente della Banca Mondiale e dell’International Finance Corporation «includono il Segretariato Internazionale della Carne e la Federazione Internazionale dei Prodotti Lattiero-caseari. Il loro obiettivo dichiarato è quello di “migliorare le prestazioni ambientali del settore zootecnico” partendo con un programma triennale per stabilire “metodi e linee guida”.»

Il Worldwatch Institute è l’unica organizzazione avente rilevanza internazionale che indica espressamente nell’orientamento delle scelte alimentari verso i vegetali nei paesi industrializzati l’unica soluzione realisticamente concepibile per la questione zootecnica. In linea con esso si sono posti recentemente Nicholas Stern, autore dello Stern Review sull’economia del cambiamento climatico, e Rajendra Pachauri, presidente dell’IPCC.

Goodland è anche critico nei confronti dei risultati del rapporto FAO del 2006 valutando la percentuale di emissioni di gas serra dovute alla zootecnia pari al 51% delle emissioni mondiali. «Il report La lunga ombra del bestiame» scrive ancora Goodland «ha sottovalutato di molto la quantità di terreno usata per l’allevamento e la produzione di mangimi, stimandola a un 30% del totale delle terre emerse, mentre l’IRLI (International Livestock Research Institute) porta questa stima al 45%. (…) Il fattore chiave che spiega la differenza tra i due valori, 18% e 51%, sta nel fatto che il secondo tiene conto di come la crescita esponenziale nella produzone zootecnica (che ad oggi conta oltre 60 miliardi di animali allevati ogni anno), accompagnata dalla deforestazione su larga scala e dagli incendi delle foreste, abbia causato una drammatica diminuzione della capacità fotosintetica della Terra, assieme a un aumento sempre maggiore della volatilizzazione del carbonio del suolo.»

Il Worldwatch Institute non è l’unico a essere critico nei confronti delle valutazioni FAO. Lo fu a suo tempo, ma in senso diametralmente opposto, la Coldiretti la quale contestò il fatto che «il dato FAO (che proviene direttamente dalle teorie di Rifkin) è, infatti, riferito all’intera filiera zootecnica, compresi i processi a monte, quali la produzione e il trasporto di mangimi». A parte il fatto che Rifkin nel rapporto FAO non è mai citato, l’affermazione della Coldiretti è esatta. Lo è perché, ovunque e comunque nel mondo, una seria valutazione di impatto ambientale si fa tenendo conto dell’intera filiera e dell’intero ciclo di vita del prodotto, ovvero come la Coldiretti ritiene che non si debba fare. Questi sono gli argomenti dei sostenitori degli allevamenti.

Nonostante la solidità degli argomenti contrari e la pochezza degli argomenti favorevoli la zootecnia continua tuttavia a mantenere una sorta di surreale immunità perfino negli ambienti più “alternativi” in cui il concetto di alimentazione sostenibile si identifica col no ai metodi industriali e col sì al biologico e al fantomatico “Km zero” ma stende un pesante velo di silenzio su quella che è e rimane la principale variabile del problema.

 

Filippo Schillaci

 

Fonti:

– J. Rifkin, Ecocidio, Mondadori, Milano, 2000.

– AAVV, Livestock’s long shadow, FAO, Roma, 2006.

– Baroni, L.; Berati, M.; Candilera, M.; Tettamanti, M., Total Environmental Impact of Three Main Dietary Patterns in Relation to the Content of Animal and Plant Food, Foods 2014, 3, 443-460.

– McMichael A. J. et al, Food, livestock production, energy, climate change, and health,The Lancet, vol. 370, October 6, 2007, p.1259.

– C. Gattoni, Quando la carne crea lavoro e nuova energia, in Settegreen, 6 dicembre 2013.

– Robert Goodland, Record heat spiked by collusion between the meat industry and FAO, 11 luglio 2012.

– Coldiretti, Emissioni agricole e impatto della zootecnia, 2009.