Sacchetti e contenitori sono il pericolo numero uno individuato dall’Onu. Senza soluzioni concrete entro il 2050 ci saranno più rifiuti che pesci
È UN OCEANO di plastica che soffoca gli animali marini e le nostre coste. Per la Giornata mondiale degli oceani, che ricorre oggi, l’Onu mette in primo piano l’inquinamento da plastica. Certo, come ha ricordato Greenpeace, la salute dei nostri mari è minacciata anche dal riscaldamento globale e da uno sfruttamento delle risorse ittiche ormai non più sostenibile, ma se non si agisce con prontezza per ridurre la quantità di plastica che ogni anno finisce negli oceani, presto nuoteremo sempre in mezzo a sacchetti e resti di contenitori.
L’Onu ricorda oggi che gli oceani coprono tre quarti della superficie terrestre, garantiscono la sopravvivenza di 3 miliardi di persone e generano circa 3 mila miliardi di dollari all’anno in termini di risorse e industrie, il 5% del Pil globale. Salvaguardare la loro salute è dunque essenziale per assicurare non soltanto la sopravvivenza delle specie che li abitano, ma anche la nostra. E la priorità, sottolinea l’Onu, è ridurre la quantità di plastica che viene gettata in mare, quantificata in circa 1,09 milioni di chili ogni ora, 8,8 milioni di tonnellate ogni anno. Soltanto nel nostro Paese la plastica rappresenta fino all’80 per cento dei rifiuti in mare aperto e sulle coste.
I danni di queste isole galleggianti di plastica sono spaventosi. I primi a farne le spese sono gli animali marini, che ingeriscono soprattutto i sacchetti, credendoli prede. La diminuzione nel Mediterraneo delle tartarughe dipende in gran parte dalla plastica, le Caretta caretta si cibano di meduse e scambiano le buste per cibo o finiscono impiglate in fili di plastica. Mancando le tartarughe marine, aumentano le meduse, con uno scompenso generale della catena alimentare che porta al progressivo depauperamento di tutta la fauna. Alcuni studi hanno inoltre accertato che, indirettamente, anche noi finiamo per “nutrirci di plastica”, o meglio delle sostanze tossiche che la compongono. I pesci ingeriscono infatti quelli che gli esperti chiamano “coriandoli di plastica” e mangiando le loro carni assimiliamo microframmenti con sostanze tossiche.
L’Onu auspica una azione globale per ridurre l’uso della plastica, così come raccomandato anche dal World Economic Forum che nel suo dossier “La nuova economia della plastica – Ripensare il suo futuro” dello scorso gennaio, aveva sottolineato che è prioritario trovare un nuovo modello di utilizzo degli imballaggi e delle plastiche in genere. L’usa e getta provoca infatti una perdita per l’economia pari a 80-120 miliardi di dollari l’anno, il 95% del valore materiale di questi imballaggi. Trovare efficaci sistemi di riciclo e riutilizzo, riducendo il rilascio dei rifiuti nell’ambiente, farebbe dunque bene non soltanto agli oceani, ma all’economia in generale.
Non c’è Paese che possa dirsi innocente nell’azione di soffocamento degli oceani con la plastica, ma ci sono economie che incidono più di altre sullo stato di salute dei nostri mari. Cina, Filippine, Thailandia, Vietnam e Indonesia, da soli, sono responsabili per il 60% della plastica che ogni anno finisce negli oceani e sempre il rapporto del World Economic Forum prevede che se non ci sarà un deciso cambio di rotta entro il 2050 negli oceani ci sarà più plastica che pesci.
Ed è un coro di voci che si leva oggi chiamando all’azione. Insieme al rapporto sullo scioglimento dei ghiacci pubblicato ieri da Greenpeace, oggi anche il Wwf sintetizza le principali minacce per la salute degli oceani. “Il concorso tra attività umane come la pesca condotta con metodi non sostenibili, l’acidificazione degli oceani e il cambiamento climatico, può portare – sottolinea il Wwf Italia – a una riduzione considerevole (anche del 25%) della biodiversità nel mare, cosi’ come alla perdita delle possibilità di pesca ed un impatto significativo su molti settori produttivi come il turismo”.
Fonte: Repubblica.it