Le medaglie quasi olimpiche del Sahel

da | 26 Ago 2016

Ezekiel, gambiano di origine, aveva già deciso di darsi lui stesso una medaglia d’oro. Finiti i soldi ad Agadez voleva andare a scavare in uno dei cantieri minerari per pagarsi il resto del viaggio. Solo che il giorno prima di partire una moto lo investe ed è, in cambio, portato all’ospedale per alcune fratture. La radiografia conferma la diagnosi e Ezekiel, partito dalla Gambia per andare in Libia, si scopre a Niamey. Raggiunge la capitale con un camion che gli offre un posto panoramico sul tetto tra bidoni, capri e oggetti di artigianato tuareg. Invece della medaglia mostra una carta d’identità plastificata che il sudore delle tasche e la polvere del deserto hanno reso color di argento. Nessuna cerimonia protocollare è prevista. Non parliamo dell’inno nazionale che non canta perché nel suo paese c’è un pazzo militare come presidente. Orfano da sempre, era partito per mantenere, oltre che i suoi due figli, una banda di fratelli, sorelle e nipoti. L’unica gara a cui ha preso parte è stata quella da cui è stato eliminato. La Libia dei gruppi armati farà, almeno per ora, a meno di lui. Dice che vorrebbe curarsi pagando un guaritore in grado di rimetterlo in pista.

Erano in cinque e non c’era posto per tutti sul podio. Camerunesi di origine e ora di ritorno dall’Algeria dopo un mandato di espulsione’ manu militari’. Raccolti dall’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM), transitano un paio di centri di passaggio e si prepararano a tornare in patria. Passano perché non hanno di che vestirsi e hanno vergogna di farsi vedere con il poco che indossano. E’ tutto quanto loro rimane dopo l’avventura che era naufragata in Libia. Anzi, prima del naufragio erano già stati derubati della promessa di portarli dall’altra parte del mare. Passavano i giorni e anche le notti e, un poco il mare in cattive condizioni e poi la scomparsa degli scafisti, i nostri hanno abbandonato la corsa. Quattro originari di Douala e uno di Yaoundé, la capitale del Cameroun. Un paese che, assieme a molti altri,  esporta migranti come sport olimpico ancora non riconosciuto dal Comitato Olimpico Internazionale (CIO).  Issa, uno di loro, aveva fatto tre anni di tentativi ed era stato squalificato per tenuta non regolamentare dai passeurs. Di mestiere gioielliere era a suo agio coi metalli preziosi e peccato per la cattiva sorte nei giochi di azzardo.

Gli altri quattro del gruppo, conosciutisi in Libia, avevano rinunciato a gareggiare. Kadj commerciante di vestiti in appalto per matrimoni, Philppe meccanico per moto che vanno quando c’è benzina, Samuel contrattuale per la vendita di alimentari al limite della scadenza e Rodolphe che faceva il saldatore e metteva tutto assieme alla fine del mese. Avevano sborsato il denaro della traversata che non bastava mai. Erano poi stati fatti prigionieri e costretti a chiamare a casa per farsi mandare i soldi della liberazione. Avevano nondimeno  fatto proprio l’ideale attribuito al barone Pierre de Coubertin che l’essenziale della vita non è vincere ma partecipare. Quest’ultimo concetto l’avevano messo in pratica senza i tempi di qualificazione prefissati. Giunti a Arlit, la città dell’uranio, non hanno avuto neppure il tempo sufficiente per contaminarsi e si trovano fino a domani al centro OIM di Niamey. Chiedono i pantaloni e una maglietta per l’uniforme alla parata di ritorno al Paese. Dovranno allora raccontare e giustificare agli amici il resto della competizione dalla quale, loro malgrado, si sono ritirati.

Non ci sarà nessuna  bandiera ad accoglierli e tanto meno la banda musicale di quartiere per festeggiarne il ritorno. Non si trovano neppure medaglie di bronzo da esibire e non sanno nulla del motto olimpico ‘più in fretta, più forte e più in alto’. Senza darlo troppo a vedere lasciano trapelare l’idea che ritenteranno la sorte tra quattro anni. Giusto prima di partire domandano una preghiera.

 

mauro armanino, niamey, agosto 016