Ha pubblicato Caccia all’uomo (Stampa alternativa/Nuovi equilibri, 2005), Vivere la decrescita: una felice esperienza di autoproduzione (Edizioni per la decrescita felice, 2009) eUn pianeta a tavola: decrescita e transizione agroalimentare,(Edizioni per la decrescita felice, 2013).
GIULIO SAPORI: Buongiorno Filippo, ti sei occupato in due libri differenti del rapporto tra l’uomo e l’ambiente. Vorrei iniziare dal libro che hai curato, Un pianeta a tavola: decrescita e transizione agroalimentare (Edizioni per la decrescita felice, 2013), un saggio molto ben documentato sull’impatto che l’agricoltura e l’allevamento hanno sull’ecosistema terrestre. Argomenti di cui si parla, ma sempre in maniera abbastanza superficiale (vedi Expo). Per capire il problema di questo rapporto forse occorre partire dal neolitico: da lì si aprirà un percorso problematico che ancora oggi stiamo portando avanti.
FILIPPO SCHILLACI: Recentemente (maggio 2017) all’università di Roma Tor Vergata si è svolta un’iniziativa sul “cibo sostenibile”. In realtà ciò che è stato messo in primo piano sono state le tradizioni alimentari, i “prodotti tipici” e simili. Questa identificazione della “tradizione” con la sostenibilità è un equivoco, se non peggio, di cui dobbiamo sbarazzarci al più presto. E un po’ di analisi storica del fenomeno della crescita (che finora è mancata) ci aiuterebbe molto in questo senso.
Tipicamente la responsabilità di tutto si fa risalire alla rivoluzione industriale ma tutto comincia in realtà molto tempo prima, nel quarto millennio a. C. con l’invasione dei Kurgan che ha spazzato via le pacifiche culture agrarie che popolavano allora l’Europa. I Kurgan non erano altro che gli Indoeuropei, ed erano un popolo di allevatori nomadi, e pertanto guerrieri. “Pertanto” perché la pratica dell’allevamento, allora come oggi, richiede enormi estensioni di territorio da rinnovare continuamente, dunque da conquistare, ed è pertanto connessa da sempre a una sociocultura intrinsecamente aggressiva. Basti vedere cosa accade oggi in America Latina.
Quello fu l’inizio di un processo storico di lungo periodo che, fra alti e bassi, non ha conosciuto soste e ha raggiunto oggi il suo compimento con la globalizzazione (perché i Kurgan esistono ancora, e siamo “noi”). È quella che Jeremy Rifkin chiamò «l’espansione della cultura della bistecca». Ora, molta “tradizione” è impregnata di cultura pastorale; l’idea di dominio come valore, che percorre tutta la storia occidentale, nasce da lì. Non a caso Platone, già nel IV sec. a.C., in quel suo progetto di società ideale che è La Repubblica, escludeva la pratica dell’allevamento, e con argomenti di un’attualità impressionante.
La società industriale in altre parole non è altro che lanaturale evoluzione di una società pastorale una volta che essa sia riuscita a rimuovere ogni freno energetico alla propria espansione. Anche quando e dove l’attività produttiva primaria ha cessato di essere l’allevamento, il modello culturale è rimasto quello del pastore nomade, impregnato dunque di espansionismo e dominio. In una parola di crescita.
G.S.: Fermo restando che agricoltura e allevamento hanno un forte impatto sugli ecosistemi, il problema attuale sta nel cercare di capire cosa è possibile fare ora per ridurre la nostra pressione su di essi. E la cosa che potremmo fare subito è diminuire drasticamente – o abolire – i “prodotti di origine animale”. Puoi riassumere i motivi che indicano questa via come fondamentale?
F.S.: Nel realizzare Un pianeta a tavola uno dei punti di riferimento principali è stato uno studio realizzato da un gruppo di ricercatori italiani che analizza l’impatto ambientale di vari tipi di diete per ognuna delle quali è stato considerato sia il ricorso alla produzione biologica che a quella industriale. Da esso risulta che le scelte alimentari sono la variabile più pesante sul piano dell’impatto ambientale; dunque orientare le proprie scelte verso i cibi vegetali è l’azione più importante. Subito dopo viene la modalità di produzione, dunque il discorso del superamento dell’agricoltura industriale a favore dell’agricoltura biologica.
Un altro punto importante è che, mentre l’agricoltura ha un forte impatto solo nella sua versione industriale, l’allevamento è un’attività intrinsecamente pesante in tutte le sue forme, comprese quelle più tradizionali; di meno per i monogastrici, di più per i ruminanti e soprattutto per i bovini. E questo perché la quasi totalità del suo impatto è di natura biologica, non tecnologica. E pertanto in gran parte ineliminabile.
G.S.: Nel libro fai vedere come questo contrapporre intensivo (negativo) ed estensivo (positivo) è un luogo comune ecologicamente ed eticamente non molto fondato…
F.S.: Dal punto di vista dell’impatto ambientale, vale ciò che ho detto prima: se differenze ci sono, sono nella qualità dell’impatto, molto meno nella quantità. Anche dal punto di vista del “benessere animale” però le cose non sono così ideali. Certo, gli animali rinchiusi negli allevamenti intensivi stanno peggio degli altri, e questo l’ho potuto constatare di persona, ma non è vero che negli allevamenti “diversi” gli animali stiano senza alcun dubbio bene. Le condizioni di vita sono spesso distanti da quelle naturali, a volte perfino nel pascolo brado: ad esempio per le dimensioni delle mandrie, necessariamente molto superiori a quelle che si stabilirebbero in natura.
G.S.: Un altro ‘mito’ che sfati è quello che ritiene un cibo più o meno ecologico a seconda della sua provenienza. Il viaggio, invece, incide molto meno rispetto a cosa e a come si produce.
F.S.: Su questo punto abbiamo fatto riferimento a uno studio statunitense centrato sulle emissioni di gas serra, secondo cui orientare le proprie scelte verso i cibi vegetali provoca una riduzione delle emissioni 8 volte maggiore che orientarle verso i cibi locali. Questo perché l’83% delle emissioni avviene nella fase di produzione. Il famoso “cibo a Km zero” insomma, contrariamente a quanto troppi credono, è una variabile di importanza assolutamente secondaria dal punto di vista ambientale.
G.S.: Nel libro, parli anche della pesca come pratica insostenibile. A inizio Novecento c’era già chi denunciava una pesca eccessiva e distruttiva del mare. Le cose, da allora, non hanno fatto che peggiorare: il pesce è a bassissimo costo e spuntano ovunque ristoranti giapponesi con la formula “all you can eat”. Qualcosa non torna, insomma…
F.S.: La pesca, e insieme a essa l’acquacoltura (che è la risposta dei paesi industrializzati allo sterminio delle popolazioni ittiche), sono in mare l’equivalente di ciò che sulla terra è l’allevamento. Anzi, i danni provocati da esse sono, se possibile, ancora superiori. Si calcola che oggi il 90% dei pesci di maggiori dimensioni siano scomparsi dagli oceani. E anche qui vale lo stesso discorso: i problemi iniziano già molto tempo prima dell’industrializzazione per cui ogni discorso sulla pesca “sostenibile” è, alla prova dei fatti, scarsamente fondato a meno che non parta dall’azione che tutti si guardano bene dal proporre: una drastica riduzione dei consumi.
Aggiungo che il problema è aggravato dalla massiccia distruzione dei fondali provocata dalle reti a strascico, equivalente marino della deforestazione, e dal fenomeno, a quanto pare ineliminabile, delle catture accessorie, ovvero dal fatto che quasi tutti i metodi di pesca sono non selettivi per cui rimangono nelle reti anche una gran quantità di organismi marini diversi dalle specie target, che poi vengono ributtati in mare, ovviamente morti. Questi sono spesso la maggioranza degli individui catturati.
G.S.: I politici e molti scienziati ci dicono che, visto la popolazione in aumento, dobbiamo rendere intensiva e sempre più ‘razionale’ anche l’agricoltura, per produrre più cibo. Dopo gli ogm, ora la speranza di un futuro dove tutti potranno mangiare è riposta nel genome editing. Cosa c’è che non torna in questo modo di pensare, apparentemente tanto ‘umanista’?
F.S.: Non torna proprio il fatto che sia umanista, nel senso che dava Lévi-Strauss a questa parola, ovvero antropocentrico. Dietro questo modo di pensare c’è il presupposto che il mondo sia fatto non solo per l’uomo madall’uomo e che tutto il resto del vivente (ciò che asetticamente si definisce “natura”) sia un’entità inerte e infinitamente manipolabile.
La realtà è da una parte che ogni tentativo di trasformare i campi in fabbriche a cielo aperto si è sempre scontrato con limiti sul medio-lungo periodo che la meccanizzazione e la chimica prima, e la genetica oggi, non sono stati capaci di superare; dall’altro che il problema non è aumentare la quantità di cibo prodotto con metodi sempre più tecnologici ma assicurare a tutti l’accesso al cibo, a monte del quale (pochi lo notano) c’è l’accesso alla terra. Sotto questo aspetto due fattori enormemente negativi sono il dilagare del settore zootecnico e il nuovo settore, ancora minoritario ma in rapida espansione, dei biocarburanti che richiedono anch’essi enormi estensioni di territorio ed entrano così in concorrenza con la produzione vegetale (che è e rimane la base di ogni alimentazione umana).
Infine, uno studio delle Nazioni Unite presentato nel 2011 dall’allora relatore speciale per il diritto al cibo Olivier de Schutter ha dimostrato che rimettere l’agricoltura in mano ai contadini rifondandola sulla relazione fra l’uomo e la terra, anche con contributi tecnici innovativi purché concepiti in un’ottica di agro-ecologia, funziona anche sul piano della produttività. «I progetti condotti in 57 Paesi in via di sviluppo» ha dichiarato de Schutter «hanno dimostrato un incremento medio della produzione dell’80%, che giunge al 116% nei Paesi dell’Africa».
G.S.: La fine del libro Un pianeta a tavola, dopo aver citato moltissimi dati a favore di una dieta prevalentemente o totalmente a base vegetale come la più sostenibile, si sofferma sul fatto che conoscere la realtà delle cose non porta necessariamente ad innescare un cambiamento poiché l’uomo – “il signor Rossi” come lo chiami tu – è essenzialmente gregario: più attaccato alla propria identità collettiva, alle abitudini, che alla verità.
F.S.: Avevo già notato in molte occasioni che il tema delle scelte alimentari innesca immancabilmente forti reazioni emotive, non diversamente da temi apparentemente più “forti”, come le fedi religiose o la morale sessuale. Avevo anche notato che in molti contesti in cui si parla di sostenibilità, dall’ambientalismo alla decrescita, i dati sull’impatto ambientale della zootecnia sono ben noti e sistematicamente taciuti e che l’atteggiamento più diffuso su queste tematiche è fortissimamente contraddittorio. Questo mi ha portato a orientare la parte conclusiva della mia ricerca verso discipline come l’antropologia e la psicologia sociale. In sintesi, ecco ciò che accade.
Nell’uomo l’istinto gregario è uno dei più forti per cui l’individuo è inscindibile dal gruppo sociale cui appartiene. Ogni gruppo è caratterizzato da una visione del mondo, da una scala di valori e da regole di comportamento che formano la sua identità. L’individuo immerso in un gruppo ne assorbe l’identità attraverso meccanismi psichici inconsci che prescindono dalle sue capacità di analisi critica, carenti o eccelse che siano. Sotto questo aspetto un’identità di gruppo è indistinguibile da una fede religiosa. Ora, accade che le scelte alimentari siano parte delle regole di comportamento che definiscono l’identità di un gruppo sociale.
Diceva Roland Barthes che il cibo «non è solo una gamma di prodotti che possono essere utilizzati; è anche (…) una forma sofisticatamente orchestrata di comunicazione, che diffonde i valori, le credenze e i principi pragmatici che caratterizzano la cultura nella sua interezza.» Ciò che comunica l’individuo al gruppo (anche) seguendo certe regole di comportamento alimentare è l’eterno, necessario, irrinunciabile messaggio del signor Rossi animale sociale: io sono uno di voi.
Cambiare tale comportamento significa cambiare tale messaggio, ovvero uscire dal gruppo. E il signor Rossi non è “programmato” per farlo. In particolare, nella società occidentale post neolitica, cioè pastoral-industriale, in cui viviamo, i cibi di origine animale hanno forti connotati simbolico-identitari. Ecco perché essi sono sacri. Il fatto che essi rimangano tali anche in molti contesti che si presentano come alternativi (e che sotto molti altri aspetti lo sono) ci dice quanto di quel “loro” mondo che “noi” vorremmo cambiare sia in realtà culturalmente annidato nel nostro. E questo è un fatto molto preoccupante.
G.S.: Attualmente comunque la dieta vegana è sotto i riflettori, anche se spesso in una cornice medicalizzante (carenze di nutrienti) e teriomorfica (genitori infanticidi). Come vedi questo fenomeno? C’è la possibilità che questi piccoli gruppi possano essere ritenuti ciò che Moscovici definiva “minoranze attive” in grado di mutare la cultura in cui sono oppure sono troppo superficiali per incidere efficacemente sulla realtà sociale?
F.S.: Gli studi di Moscovici sulle minoranze attive, ovvero sulla capacità dei gruppi di minoranza di agire sulle maggioranze, credo siano di grande importanza e dovrebbero entrare a far parte del nostro patrimonio culturale. In sintesi Moscovici sostiene, sulla base di prove sperimentali, che un gruppo di minoranza dovrebbe innanzi tutto essere percepito dalla maggioranza come qualcosa di interno a sé. Inoltre, dovrebbe esser fermo nella enunciazione dei propri obiettivi ma allo stesso tempo flessibile nel definire il percorso che conduce a essi. Purtroppo accade invece che le dinamiche identitarie che ho descritto prima, valide per ogni gruppo umano, lo sono anche per i gruppi vegani per cui spesso la loro azione ha il solo scopo (inconscio) di rivendicare la propria identità di gruppo prescindendo dall’effetto che ciò ha sul mondo esterno.
G.S.: Escono anche libri e articoli che cercano di ‘fermare’ il cambiamento come Il mito vegetariano di Lierre Keith. Cosa ne pensi?
F.S.: Non è una novità. Anche i nazifascisti cercavano di “dimostrare” la superiorità della razza ariana con presunti studi “scientifici” e simultanee azioni mediatiche di vario genere. Una volta si chiamava “propaganda”, oggi “scienze della comunicazione”, ma è la stessa cosa.
G.S.: Una critica che viene mossa dagli ecologisti che seguono scelte alimentari convenzionali è che l’impatto dell’allevamento e dell’agricoltura dipenda in realtà dai luoghi. Il bello è che, alla fin fine, qualche animale è sempre ‘sostenibile’ – quindi giusto – da allevare.
F.S.: La prima cosa che si nota in tali comportamenti è la tenacia con cui queste tesi vengono sostenute, la cui causa possiamo far risalire agli aspetti psicosociali delle scelte alimentari descritti prima. La seconda è il divario fra tale tenacia e la “solidità” degli argomenti che vengono addotti a giustificarla. In realtà, in termini numerici, la quasi totalità della popolazione umana vive in aree temperate o tropicali dove è sempre possibile praticare l’agricoltura. E ovunque ciò sia possibile vale la regola, tanto per parlare, ad esempio, di consumo di territorio, che per produrre cibo da animali serve in media 7 volte più terra che per produrlo da vegetali. E non parliamo poi di consumo di acqua, emissioni di gas serra ecc.
Si può ipotizzare non tanto una maggiore sostenibilità quanto una necessità dell’allevamento solo a proposito di condizioni climatiche estreme (e, aggiungo, del tutto innaturali per l’uomo) come la Norvegia, la Groenlandia, forse il Tibet. Ma sono quantitativamente irrilevanti. Ad esempio la Norvegia, su un territorio circa uguale a quello italiano, ospita una popolazione umana pari a un decimo dell’Italia.
G.S.: Un documentario che ha avuto molto successo è statoCowspiracy, in cui si descrivono i problemi dell’allevamento, ma non solo. Mostra anche come molte associazioni ambientaliste – soprattutto le più conosciute – eludano l’impatto delle scelte alimentari sull’ambiente.
Alcuni ambientalisti lo hanno criticato perché sull’impatto dei gas serra, oltre al dato FAO, riporta anche quello di uno studio redatto da due consulenti della Banca Mondiale, in cui si scrive che l’allevamento ha un impatto molto maggiore, causando il 51% delle emissioni.
Pur non prendendo per buono quest’ultimo dato, l’argomentazione sull’insostenibilità dell’allevamento non viene meno. L’inquinamento, poi, – come è ben mostrato nel documentario – non è solo “emissione di gas serra”.
F.S.: Quel valore del 51% è ottenuto considerando anche le emissioni di anidride carbonica provocate dalla respirazione, il che è inaccettabile. Non vedo del resto perché esagerare quando già il valore FAO del 18% (cioè quasi un quinto delle emissioni mondiali complessive) è enorme se consideriamo che è relativo a un settore produttivo che dovrebbe interessare soltanto il vertice della piramide alimentare. Inoltre, zootecnia significa molte altre cose, prima fra tutte, come accennavo prima, l’enorme esigenza di territorio, gran parte della quale viene da sempre soddisfatta a spese delle foreste primarie o dei terreni agricoli. C’è poi il fatto che il pascolo (ancora dominante nel mondo per l’allevamento dei ruminanti) è uno degli usi più sfruttanti del suolo, tanto che nelle aree semiaride è la prima causa di avanzamento dei deserti e ovunque di degrado ed erosione. E parliamo anche della conflittualità sociale che genera l’intrinseca invasività dell’attività zootecnica; pensiamo ad esempio all’interminabile catena di omicidi che da decenni insanguina l’America Latina ad opera degli allevatori, o anche al fenomeno degli incendi boschivi nel mondo di cui sempre gli allevatori sono fra i principali responsabili.
G.S.: Come mostri nel tuo libro, Vivere la decrescita: una felice esperienza di autoproduzione (Edizioni per la decrescita felice, 2009), il problema non è solo cambiare alimentazione, ma è pensare un modello diverso di società. Non basta mangiare in maniera più ecologica: occorre uscire dalla società della crescita e del profitto ed entrare in una società solidale, in cui l’autoproduzione riveste un posto importante. In questa diversa società, la qualità del tempo che si vive è molto importante. Secondo alcuni ‘illuministi’ questo modo di pensare non è nient’altro che un ritorno nostalgico e reazionario al tempo passato. È così?
F.S.: In quel libro ponevo il tema della responsabilità personale che ognuno di noi ha nell’orientamento dell’intera società umana. Una responsabilità che coinvolge appunto non solo le scelte alimentari ma la totalità del nostro stile di vita a cominciare dalla “demercificazione” di tutti i rapporti sociali. Nel cercare una via che piuttosto passi attraverso i rapporti comunitari, la solidarietà reciproca, la collaborazione per il bene comune (e sottolineo: non solo del proprio gruppo ma dell’intera biosfera) non c’è nulla di reazionario, anche perché il passato degli ultimi 6000 anni ci offre ben pochi esempi che io mi senta di considerare validi punti di riferimento. Al contrario vedo in questa ricerca di una alternativa alla società ipereconomicista un passo avanti, un guardare a un futuro che non ha ancora avuto altro spazio che le pagine dei migliori utopisti.
G.S.: Per concludere, i libri che hai pubblicato non si rifanno tanto ad argomentazioni antispeciste (lo sfruttamento animale), ma ecologiche (l’impatto sugli ecosistemi). La tua è una posizione sui generis: dentro e fuori l’antispecismo, dentro e fuori l’ecologismo. Solitamente, l’impatto ecologico è ritenuto un “argomento indiretto” dagli antispecisti mentre, dall’altra parte, gli ecologisti non ritengono problematico lo sfruttamento animale.
Ti distacchi tanto da alcune posizioni antispeciste poiché criticano l’antropocentrismo ma non si oppongono alla società della crescita, ma anche dai tanti “obiettori della crescita” perché rimangono all’interno della tradizione dell’allevamento, e dunque dell’antropocentrismo. Come risponderesti alle rispettive critiche?
F.S.: Il punto è che io non vedo le “due” cose come due ma come diverse angolazioni sotto cui viene guardato lo stesso problema. Entrambe parziali e pertanto bisognose di completarsi a vicenda. Una sociocultura umana si fonda su tre componenti: un insieme di pratiche produttive che ne assicurano il sostentamento materiale, una struttura sociale che consente quelle pratiche e un modello culturale che giustifica le prime e la seconda. La decrescita, convenzionalmente intesa (Latouche e dintorni), si occupa della prima componente e un po’ della seconda, l’antispecismo della terza. Non mi risulta che esista un pensiero alternativo che abbia enunciato la necessità di agire simultaneamente su tutte e tre. È vero che questa è l’impostazione dell’antispecismo politico (Maurizi ad esempio), tuttavia esso è rimasto fino a oggi chiuso nell’ambito della riflessione filosofica, importante di sicuro ma insufficiente. La decrescita da parte sua è carente di pensiero teorico unificante (benché nei suoi ultimi libri Pallante abbia fatto dei chiari passi avanti in questo senso), come l’antispecismo lo è di agganci con la prassi. E tutti sono carenti di capacità progettuali. Se mi si domandasse qual è oggi il problema più grave del pianeta direi: questa nostra incapacità generale di formulare una alternativa sistemica.