Sono 150 i milioni di tonnellate di materie plastiche già presenti in mare, 8 i milioni di tonnellate che vi finiscono ogni anno. Come se, ogni minuto per 365 giorni un camion della spazzatura riversasse tutto il suo contenuto in acqua. Una situazione che peggiora di giorno in giorno, tant’è che, entro il 2050, i camion al minuto potrebbero essere quattro. In quella data, se non vi sarà un cambio di rotta immediato, gli oceani conterranno più plastica che pesci*.
Malgrado questa drammatica situazione (che vede il Mar Mediterraneo al primo posto di questa sconfortante classifica) l’entrata in vigore della legge che vieta l’uso dei sacchetti di plastica nei supermercati in questi giorni sembra essere il problema principale del nostro Paese.
La legge impone che i sacchetti con spessore della singola parete inferiore a 15 micron siano biodegradabili e compostabili, certificati da enti appositi. I nuovi sacchetti dovranno essere composti da materiali biodegradabili per il 40 per cento, che diventerà 50 per cento dal primo gennaio 2020 e 60 per cento dal primo gennaio 2021. Per chi non rispetta la nuova legge si prevedono sanzioni che vanno dai 2.500 ai 25 mila euro.
La questione che ha creato una sorta di psicosi collettiva sarebbe il prezzo di queste shopper: 1-2 centesimi a sacchetto da segnare sullo scontrino. Dal Codacons tuonano che l’aggravio di spesa potrà raggiungere i 50 euro a famiglia, l’Osservatorio di Assobioplastiche stima un costo fra 4,17 e 12,51 euro. Ma da quel che si legge sui social la questione non è il costo ma è il principio.
Un complotto contro i consumatori, un imbroglio del governo per favorire chi produce questi sacchetti. In particolare Catia Bastioli, amministratrice della Novamont, azienda italiana che realizza sacchetti prodotti da materie prime naturali anziché da petrolio e che detiene l’80% del mercato in questione. C’è da dire che Bastioli ha nel suo curriculum cose come “Inventore Europeo dell’anno” nel 2007, premio Giulio Natta nel 2015, lauree honoris causa presso prestigiosi atenei italiani, pubblicazioni, centinaia di brevetti nazionali e internazionali e tante altre cosette non di poco contro. Certo, se non ricoprisse anche la carica di presidente di Terna forse ci sarebbero state meno polemiche ma, detto ciò, di aziende nostrane che operano nel settore ce ne sono altre e anche molto virtuose.
A parte complottismi e favoritismi vari la polemica è su quei 2 centesimi sullo scontrino. Una tassa inaccettabile. E poco importa se nesso stesso mese di gennaio sono aumentati anche elettricità, gas, rifiuti, ticket, banche, poste, autostrade, assicurazioni, trasporti (con l’inevitabile ricaduta su alimenti e prodotti agricoli) per una stangata da quasi mille euro in più a famiglia. Il problema sono i sacchetti del supermercato.
Un paradosso se si pensa che l’Italia è il secondo consumatore in Europa di prodotti ortofrutticoli di IV gamma, cioè quelli pronti al consumo come insalate in busta, macedonie in scatola, minestroni pronti, aromi surgelati eccetera. Prima di noi c’è solo la Gran Bretagna. Secondo dati raccolti da Nielsen, Iri, e Ismea, ed elabo- rati da Monitor F&V Agroter, le famiglie italiane spendono per questi prodotti oltre 740 milioni di euro all’anno (dati 2015). Insomma, siamo disposti a pagare un’insalata 15 euro al kilo per la comodità di non doverla lavare e non siamo disposti a pagare 2 centesimi per tutelare l’ambiente!
Centesimi che di fatto abbiamo sempre pagato, ma che in precedenza, erano nascosti nel prezzo dei prodotti. A quanto pare a disturbare i consumatori è quindi l’addebito sullo scontrino. Un atteggiamento che fa molto riflettere sulle nostre abitudini di consumo e che sottolinea quanto ci si fermi all’apparenza, a quel pezzetto di carta che stabilisce il costo di ciò che compriamo, nascondendoci il valore reale delle merci.
Pensate se nei supermercati fossero esplicitati i veri costi dei prodotti. Pensate se negli scontrini fossero resi noti i costi di gestione, trasporto, packaging, co2 emessa, petrolio consumato, risorse utilizzate… e poi ancora costo della manodopera, costo dello smaltimento, costi sanitari e sociali. Tutte cose che non si vedono ma che ci sono! E che purtroppo troppo spesso ci si dimentica che paghiamo a caro prezzo tutti quanti.
Così come tutti noi stiamo pagando a caro prezzo i sacchetti di plastica e tutti gli altri imballaggi che solo sullo scontrino non appaiono. Ma sono ben presenti nel conto – salatissimo – che ci sta presentando il nostro pianeta. Per questo la messa al bando della plastica non è una fissazione degli ambientalisti ma una necessità dell’umanità, se vogliamo continuare ad abitare questo pianeta (l’ipotesi per ora più plausibile visto che altri ad oggi non ne abbiamo).
Certo, questa legge non è risolutiva e sì: si poteva fare meglio. La norma è contraddittoria e poco chiara. Non si capisce perché il sacchetto si paga lo stesso, anche se non si prende (sui social sono circolate e decine e decine di foto di frutta presa senza busta associata a scontrini con il costo della busta addebitato). Non si spiega che l’etichetta con il prezzo incollata sul sacchetto non è compostabile e dunque deve essere accuratamente tolta o sarà tutto inutile. Non si capisce perché i nuovi sacchetti debbano essere composti da materiali biodegradabili solo per il 40 per cento quando già esistono sacchetti totalmente compostabili. Ma, soprattutto, è incomprensibile, in un’ottica di tutela ambientale, che non si possano riciclare i sacchetti o utilizzare le retine in stoffa lavabili (come già fanno in altri paesi) e come è già successo anche in Italia quando, alcuni anni fa, sono state introdotte le buste a pagamento alle casse e in molti iniziarono a portarli da casa.
I motivi per cui questa idea è stata bocciata, secondo quanto riportato dal Fatto Alimentare, sarebbero «igienici, logistici (impossibilità di controllare i prodotti acquistati se i sacchetti non sono trasparenti), e di sicurezza (contenitori di materiale inadatto al contatto con gli alimenti)».
Una questione, quella igienica, davvero poco plausibile. L’utilizzo di sacchetti di plastica e guanti di plastica nei supermercati è quanto di più paradossale ci possa essere: davvero si pensa che il problema igienico sia nel prendere una mela con le mani nude e infilarla in una busta di carta o di stoffa? In tal caso sarebbe curioso verificare come quella mela sia stata coltivata, raccolta e trasportata… di certo non con i guanti e non in casse sterilizzate. Tant’è che questa pratica nella filiera corta, nei Gas, nei mercati e nelle botteghe non si è mai verificata (per fortuna!). E proprio da loro, dai piccoli produttori e dai consumatori critici, ancora una volta dovremmo prendere spunto.
Per questo come Movimento della Decrescita Felice chiediamo al governo di modificare questa norma al fine di renderla ancora più virtuosa: dare la possibilità a chiunque e, ancor meglio, incentivare l’uso di sacchetti riutilizzabili, come retine, cassette, sporte e di sensibilizzare verso l’utilizzo di prodotti sfusi con imballaggi portati da casa, convinti che il miglior rifiuto sia sempre quello che non viene prodotto.
di Elena Tioli