Il Club di Roma: nel 70% dei comparti, sottraendo i costi ambientali ai guadagni, le aziende andrebbero in rosso. La situazione peggiore? In agricoltura.
di Emanuele Isonio per Valori.it
Considerando i costi naturali e lo sfruttamenio dell’ambiente – quelle che gli esperti amano definire “esternalità negative” – le attività economiche in molti settori industriali non sarebbero redditizie. Continuare a portarle avanti sarebbe quindi antieconomico. Una scomoda verità che i paladini della “crescita del Pil a ogni costo” tendono a rimuovere. E, purtroppo, la maggior parte media tende a non conoscere.
A metterlo nero su bianco ci pensa l’ultimo rapporto del Club di Roma, intitolato “Come On!”, redatto a quasi mezzo secolo di distanza dal celebre Limits to Growth(che con 9 milioni di copie vendute e traduzioni in 36 lingue è uno dei testi più diffusi sul tema dello sviluppo sostenibile).
Quasi tutti in “zona rossa”
Nel rapporto si cita l’analisi svolta, su dieci diversi settori economici, da parte del Teeb (il programma internazionale sull’economia degli ecosistemi e della biodiversità dell’Unep, Programma Onu per l’ambiente). Inserendo il calcolo dei costi naturali nei margini di profitto delle due aziende leader di ogni singolo settore il risultato è sconcertante: solo tre comparti – peraltro tutti legati alle attività estrattive e minerarie – rimarrebbero in attivo. Gli altri finirebbero in “zona rossa”, facendo segnare passivi rilevanti. Un discorso che vale per la produzione di energia da carbone, per i fertilizzanti chimici e le attività cementifere.
Il comparto più insostenibile? L’agricoltura intensiva
Ma il discorso vale, soprattutto, per il comparto agricolo. «Oggi – si legge nel rapporto Come On! che cita analisi dello Iaastd (il nucleo di valutazione internazionale delle conoscenze agrarie, scienza e tecnologia per lo sviluppo della Banca Mondiale) – l’agricoltura si rivela infatti il business più costoso e con margini di profitto drammaticamente negativi, se le spese esterne si aggiungono al mero costo di produzione».
L’allevamento del bestiame e la coltivazione di grano, entrambi veri e propri pilastri del settore, evidenziano infatti le maggiori perdite, sopo l’inclusione nei calcoli del “costo in capitale naturale”.
- al continuo disboscamento e al prosciugamento delle zone umide, attuati per ottenere nuovi terreni agricoli;
- al deflusso dei fertilizzanti distrugge i cicli di azoto e fosforo, generando zone morte nei corsi d’acqua;
- ai pesticidi ed erbicidi che uccidono un’infinità di animali e piante non bersaglio».
Il motivo di tutto questo è presto detto, secondo il rapporto: «si sono privilegiate vaste monocolture per incrementare la produttività del lavoro agricolo e si sono utilizzate sostanze chimiche tossiche per consentire un alto rendimento (molte colture tradizionali tendono a resistere naturalmente ai parassiti). Le nuove supervarietàrichiedevano un’irrigazione massiccia, e gli acquedotti sono stati molto sfruttati. Poiché insetti, parassiti ed erbe infestanti sviluppano con facilità una resistenza ai veleni sono bastate poche stagioni perché alcuni riprendessero a causare seri problemi» spiegano gli autori del rapporto.
A suffragare la denuncia dello Iaastd, è anche l’International resource panel 51 (IRP) dell’Unep. In un suo recente report sottolinea come gli attuali sistemi alimentari siano responsabili del 60% della perdita terrestre globale di biodiversità, e di circa il 24% delle emissioni globali di gas serra.
Per invertire la rotta, l’IRP propone un’agricoltura fondata sull’uso intelligente delle risorse e basata su tre principi:
- impatto ambientale limitato,
- uso sostenibile delle risorse rinnovabili,
- impiego efficiente di tutte le risorse: il report IRP indica che sono realizzabili aumenti dell’efficienza pari al 30%.
Anche i modelli di consumo sono insostenibili
«Oltre a produrre eccedenze, l’attuale sistema agricolo minaccia anche i nostri suoli, l’acqua, la biodiversità e tutti gli ecosistemi e le loro funzioni vitali, insieme al clima globale» denuncia il Club di Roma. Ma un modello agricolo insostenibile porta con sé anche problemi sul fronte del consumo: «mentre 800 milioni di persone sulla Terra ancora soffrono la fame – ricorda il rapporto – quasi 2 miliardi sono sovrappeso o obesi e altri 300 milioni soffrono di diabete di tipo 2, causato soprattutto dalla qualità e dalla varietà inadeguate dell’offerta alimentare odierna e dai modelli di consumo».
Due su tutti gli esempi ricordati nel rapporto del Club di Roma:
- Il consumo di pesce: «Quali il 90% delle risorse ittiche o è sovrasfruttato o è completamente esaurito».
- E l’eccessivo consumo di carne, che dai Paesi sviluppati si sta diffondendo in quelli in via di sviluppo.Dal 1961 ad oggi, la crescita è più che quadruplicata, soprattutto in Asia e Nord America.
Di pane per i decisori politici ce n’è quindi a bizzeffe. Ed è proprio la politica una delle parole più citate fra i relatori intervenuti sul palco della conferenza romana del Club di Roma.
«La politica mordi e fuggi, che prende le sue decisioni solo rispetto al termine dei pochi anni che intercorrono tra una tornata elettorale e l’altra, e una filosofia economica nata nel Settecento, quando il pianeta era poco densamente popolato e sfruttato, stanno facendo prevalere interessi di parte su quelli comuni».
Lo ha ricordato Sandrine Dixson-Decleve, nuovo copresidente del Club di Roma e analista con decine di collaborazioni in istituzioni mondiali (UNEP, OCSE, UNFCCC, OPEC e IEA tra le altre). Una delle 30 donneconsiderate più influenti nello stimolare la transizione verso un’economia decarbonizzata. «Questo avviene nonostante esistano già oggi valide alternative nella finanza, nell’economia, nella produzione, nell’energia. Se non si cambia rotta ora, il futuro può solo peggiorare. In termini di guerre, povertà, perdita di interi habitat e specie».
«L’economia di libero mercato non risolve il problema né sarà in grado di farlo. La questione si risolverà solo dove ci sarà un governo e una politica forte: quest’ultima è la nuova audace ambiziosa iniziativa che dovremo sostenere» osserva Jorgen Randers, professore di strategia climatica alla Norwegian Business School che ha ricordato come «miliardi di persone non hanno più fiducia nei loro governi e nella politica, crescono i populismi aggressivi, la povertà si è allargata e approfondita in molti Paesi del mondo. Valutare il successo di una società in termini di PIL è sempre più inadeguato, anche per misurare la crescente disuguaglianza tra ricchi e poveri. La massimizzazione del profitto e la salvaguardia del Pianeta sono in un conflitto ormai insanabile».