Se è decrescita è sempre felice, altrimenti è recessione: ma non riusciamo a spiegarlo!

da | 20 Feb 2020

Immagine di Gerd Altmann da Pixabay

 

Contributo redatto dal Gruppo Tematico Decrescita ed Economia del Movimento per la Decrescita Felice (coordinatore Nello DE PADOVA)

 

Apre il cuore sentire in un TG di prima serata un servizio sull’eccessivo consumo di carne come quello di Milena Gabanelli mandato in onda il 17 febbraio 2020 da LA7, in cui sono stati felicemente evidenziati tutti i vantaggi che una diversa alimentazione, specie di noi occidentali, potrebbe portare all’intera umanità e soprattutto alle generazioni future.

Unica nota dolente è stata la conclusione con la solita preoccupazione occupazionale, minaccia utilizzata da tutti i sistemi produttivi inquinanti e devastatori dell’ambiente e della società per giustificare la necessità della loro esistenza.

Ciò che dispiace è stato il sentire dire dalla giornalista che ciò che si auspica non è la “decrescita (che non è mai felice)” ma “di sostituire una produzione con un’altra più sostenibile”, con conseguente richiesta di un piano per garantire i livelli occupazionali.

E dispiace perché vuol dire che nonostante i nostri sforzi per cercare di comunicare le nostre idee e la grande capacità di analisi ed approfondimento di giornalisti come la Gabanelli, la possibilità di cambiare il paradigma interpretativo è preclusa a chi è completamente immerso nel sistema socio-economico occidentale dominante.

Sì perché, modificando il punto di osservazione sarebbe chiaro come il problema non è quello della minore occupazione che deriverebbe dalla sostituzione di un sistema produttivo (e distributivo) del cibo volto a soddisfare una dieta carnea con uno volto a soddisfare una dieta molto più vegetale, quanto le conseguenze che la modifica di questa dieta comporterebbe sulla spesa di chi quella dieta dovesse sposarla.

Ai nostri giornalisti non può infatti sfuggire che se il “nuovo” sistema produttivo del cibo necessitasse di minore lavoro umano (ma anche di consumo di risorse, sprechi, ecc…) a livello macroeconomico ci si dovrebbe attendere una riduzione dei prezzi e quindi dell’incidenza della spesa alimentare sul reddito delle famiglie.

Il tema è allora legato alle scelte di queste famiglie: potrebbero decidere di trasformare l’eccesso” di reddito in risparmio, in investimento, in altri consumi, oppure decidere (se solo potessero facilmente e liberamente) di rinunciare a quel reddito riducendo il tempo dedicato al lavoro retribuito, per godersi la compagnia di parenti, amici e figli o per impegnarsi nella vita civile e pubblica o ancora per recuperare il piacere del “far da sé” (semmai assieme ai vicini di casa per ottenere le interessanti “economie di scala” dell’economia domestica). Tutte cose che possono essere piacevoli e portatrici di benessere, ma anche foriere di ulteriori riduzioni della “necessità” di reddito. Con un ulteriore grande vantaggio: liberare “tempo di lavoro retribuito” a vantaggio di quanti fossero stati espulsi dal “vecchio” sistema produttivo del cibo, chiudendo il cerchio e risolvendo alla fonte quello che sembra il problema di cui un eventuale piano dovrebbe occuparsi. Una trattazione più estesa di questo scenario è disponibile nell’opuscolo Visione MDF su Occupazione&Lavoro.

E’ questa la proposta della Decrescita, che sarà ora chiaro ai due giornalisti (sicuramente fra i migliori presenti sulla scena italiana e non solo), è sempre felice. Ma se ancora non lo fosse potrebbe essere di aiuto leggere i risultati del progetto 2METE sviluppato dal Movimento per la Decrescita Felice in collaborazione con l’Università di Pisa

Anche perché, diciamocelo, se la minor spesa alimentare diventasse maggior spesa in vestiti o viaggi aerei low-cost le conseguenze per ambiente, risorse e -soprattutto- generazioni future, rischiano di essere ben peggiori di quelle di una dieta carnea. Come ben spiegato nel rapporto Decoupling Debunked recentemente tradotto in italiano da MDF che “smonta” il mito della Crescita Verde.

In tutto questo discorso non sarà sfuggito il presupposto che l’ipotizzata riduzione dell’occupazione, conseguente alla trasformazione del sistema produttivo del cibo, si traduca in una riduzione della spesa procapite per cibarsi.

Non è scontato, ma questa è un’altra storia relativa a come si compone il prezzo delle merci e all’incidenza che su di esso hanno variabili come profitto, remunerazione del capitale, incentivi, sfruttamento delle risorse, ecc… Tutte variabili che, queste sì, dovrebbero essere tenute in conto in un piano di riconversione che voglia veramente essere etico e sostenibile da un punto di vista sociale ed ambientale. Ma questa è un’altra storia della quale, è certo, la Gabanelli si tornerà ad occupare con grande professionalità come ha dimostrato di saper fare in passato.