Un contributo di Vito MANZARI (*)
Perché il virus non è il pericolo, ma la nostra tecnologia, i nostri sistemi di produzione, i nostri sistemi di comunicazione, che l’hanno reso tale, facendolo entrare in simbiosi con la nostra mega-macchina e trasformandolo nella epidemia che stiamo vivendo.
Dobbiamo spostare l’analisi, la chiave di lettura, dalla natura alla società.
Abbiamo messo a disposizione del virus le nostre infrastrutture, i trasporti, gli ospedali, le ambulanze, i nosocomi, le istituzioni e, non ultimo, i mezzi di comunicazione, internet, i social.
Abbiamo, nostro malgrado, costruito lo scenario perfetto in cui la catastrofe si poteva esibire. Se accettiamo questa lettura dei fatti, allora capiamo come i rimedi che abbiamo messo in campo sono persino peggiori del male che vogliamo evitare.
Come detto dalla contestatissima virologa Ilaria Capua, questa “influenza”, in un diverso contesto storico, sarebbe nata e morta in qualche angolo della terra, o avrebbe impiegato decenni per diffondersi dando il tempo di realizzare il tanto famoso effetto gregge.
Noi, invece, gli abbiamo messo a disposizione il nostro sistema tecnologico, abbiamo attivato tutti i “ripetitori”, tutti gli “amplificatori”. In primis il nostro sistema sanitario. E come non bastasse stiamo riversando soldi e energie per rendere il sistema più efficiente, perché ci illudiamo che più soldi mettiamo, più saremo in grado di contrastarne la sua diffusione. Ma l’efficienza del sistema, amplifica l’efficienza del contagio, e accelera il processo di costruzione della “trappola”.
Dobbiamo invece accettare l’idea (so che sembra un paradosso) che la crisi è stata resa possibile non “malgrado” un sistema sanitario d’eccellenza, ma a causa delle caratteristiche connaturate in esso.
Il sistema d’informazione ha fatto la sua parte. Il panico diffuso attraverso tutti i canali a nostra disposizione ha favorito una corsa controproducente agli ospedali.
Come ho letto da qualche parte, il coronavirus non ci ha fatto ammalare, ci ha hackerato. Come un virus informatico ha utilizzato le nostre infrastrutture, se ne è impossessato e ha colonizzato la mega-meccanica.
Ma soprattutto ha preso possesso della nostra società, dei nostri pensieri, bloccando alcune funzioni (come succede nei computer), inducendo in noi comportamenti, reazioni, azioni, finalizzate a compiere la sua vocazione. Ovvero, riprodursi.
Già nel 1974, con “Nemesi medica”, Illich ci metteva in guardia dall’abuso della medicina, dalla “industrializzazione della salute”.
Non dobbiamo dimenticare la teoria dei “rendimenti decrescenti” (che Illich applica molto bene anche al problema della mobilità ed all’elogio della bicicletta come mezzo di trasporto), ma potremmo applicarla anche alla ricerca e al sistema educativo.
L’industria della salute ha ben superato tali limiti entro i quali produceva valore, vantaggi. Eccesso di diagnosi, eccesso di trattamenti, eccesso di paure, eccesso di psicofarmaci, produzione di continue minacce per garantire, in una logica di mercato, nuovi bisogni da soddisfare.
Tutti siamo stimolati, indotti, coinvolti, nel tenere in vita il mercato, che dovrebbe garantire l’approvvigionamento di risorse, la sicurezza, la sopravvivenza fisica. Non possiamo permetterci nessun «calo di tensione» senza mettere in pericolo i milioni di persone che vivono in simbiosi con esso e di conseguenza con la mega-macchina. Le megalopoli sono l’esempio più lampante.
Siamo piccoli ingranaggi, consumatori consumati, che hanno bisogno di correre per poter bere l’acqua e respirare l’aria. La nostra vita, la sopravvivenza sono ormai per gran parte della popolazione mondiale mediate dal sistema capitalistico.
L’omologazione, derivata dalla ricerca di sistemi solo apparentemente più efficienti, ha nel tempo cancellato sistematicamente la diversità, le alternative (vedi quello che stiamo facendo alla natura, al cibo, alle diverse culture, al linguaggio, ai mestieri, alla musica).
L’assenza di alternative, l’omologazione, è la strategia sottostante allo sviluppo del sistema tecnologico, alla mega-macchina. L’assenza di alternative ci costringe ad andare sempre avanti e a rilanciare, per sperare di risolvere i problemi generati dal sistema stesso. Ma i rischi aumentano e la nostra capacità di sopravvivere senza le sovrastrutture, che costruiamo incessantemente, diminuisce. Più andiamo avanti, più rilanciamo e meno alternative, meno risorse, meno possibilità, ci rimangono; non abbiamo più le navi per tornare indietro; non le abbiamo bruciate, ma le abbiamo lasciate disgregare all’incuria del tempo.
Il capitalismo si sta mangiando tutto, compresa la democrazia e le nostre libertà. Non possiamo trascurare il rischio di imbarbarimento della società. A meno che non ci rifugiamo nel “sistema cinese” e barattiamo la sicurezza per la libertà. Ma quanto potrà durare? Probabilmente saremo condannati a un’esistenza non più degna di essere vissuta.
Resistere forse ci salverà dal coronavirus, ma quello che oggi ci sembra essere il rifugio più sicuro potrebbe presto rivelarsi come la “trappola” perfetta.
Cambiare, ravvedersi, mutare (non rassegnarsi o lasciarsi andare) o morire.
Che detta con Lucio Battisti suonerebbe: “come può uno scoglio, arginare il mare….”
Domenica, 29 marzo 2020 D.C.
D.C. = Durante il Coronavirus
(*) Imprenditore. Ideatore e coordinatore dei Colloqui di Martina Franca