L’omicidio di Colleferro e la religione dell’immagine

da | 11 Ott 2020

“Che danno ci farà un sistema che ci stordisce di bisogni artificiali per farci dimenticare i bisogni reali? Come si possono misurare le mutilazioni dell’anima umana?” Eduardo Galeano

Un articolo di Bernardo Severgnini, socio MDF

L’omicidio di Willy Monteiro Duarte a Colleferro si può catalogare tranquillamente tra gli omicidi a sfondo razzista. Ma si tratta di un razzismo diverso da quello che ha mosso Traini nella sparatoria di Macerata. Mentre Traini era ispirato da un sottofondo ideologico (delirante), i fratelli Bianchi si sono mossi secondo altre logiche, per certi versi ancora più preoccupanti: la violenza come manifestazione di potere, il bisogno di apparire come strumento di affermazione personale. L’immagine come ragione di vita. Questa degenerazione ha ormai pervaso la coscienza collettiva e rappresenta una delle molte perversioni dell’era del consumismo, che ha posto il culto dell’immagine al di sopra di ogni valore civico.

Nell’episodio di Macerata, l’obiettivo di Traini era quello di “purificare” il suolo italico dalla presenza di africani, secondo i principi della purezza della razza e di tutte quelle idiozie che caratterizzano la tradizione di pensiero riconducibile al nazismo. Nell’episodio di Colleferro invece, l’obiettivo dei fratelli Bianchi era quello di aumentare il proprio prestigio come “boss” all’interno della loro piccola comunità. Il fatto che la vittima avesse la pelle nera era un aspetto di secondo piano: avrebbero fatto (e avevano già fatto) la stessa cosa se al posto di Willy Monteiro ci fosse stato un bullo di un quartiere vicino, un pusher inaffidabile, un rivale per questioni di donne: l’importante per loro era manifestare a tutti di essere i boss del quartiere. E per dimostrarlo si sono vigliaccamente scelti una vittima debole, in modo che si notasse meglio la loro forza.

La debolezza di Willy stava nel fatto di appartenere a una categoria sociale debole (i neri, gli stranieri). Prendere di mira i neri può portare consensi e rispetto all’interno di un contesto triviale come quello nel quale loro vivevano, anche perché rafforza lo storytelling degli “eroi” che proteggono il quartiere dai “corpi estranei”. L’occasione di dare una lezione a Willy era quindi un modo per acquisire prestigio: il razzismo come mezzo, e non come fine, a differenza di Traini. Traini vedeva nei neri una minaccia alla purezza della fantomatica “razza italica”, i fratelli Bianchi vedevano in Willy uno sfigato (nero = sfigato) da pestare per farsi belli agli occhi delle ragazze e per guadagnarsi il timore e il rispetto del quartiere. Entrambi sono episodi di razzismo ma si tratta di due tipi di razzismo molto diversi, che solo in parte si sovrappongono, e che segnalano due malattie diverse della società.

E mentre la società italiana sembra attrezzata per affrontare la malattia di Traini (tutte le mobilitazioni anti-fasciste, anti-razziste, le giornate della memoria ecc), non sembra affatto attrezzata per affrontare la malattia dei fratelli Bianchi, che viene impropriamente confusa con quella di Traini, e quindi viene affrontata con gli arnesi retorici classici dell’antirazzismo. Ma la malattia dei fratelli Bianchi è più grave, origina da una perversione ancora più profonda della società e del modello socio-culturale nel quale l’occidente è oggi immerso: quello del culto consumistico dell’immagine.

L’immagine è oggi una religione in grado di trasformare l’umanità dal punto di vista antropologico. Ai giovani non interessa coltivare valori umani e crescere nella saggezza e nel buon senso. Hanno capito che per affermarsi, o anche solo per stare a galla, bisogna mettere in mostra sui social networks i propri muscoli, le proprie curve, i propri tatuaggi. Devi farti vedere, devi metterti in mostra, devi ottenere likes, o non esisterai. 

La categoria dell’immagine è sempre esistita, certo. E anche la violenza come strumento per costruirsi un’immagine. Del resto, ostentare violenza, come ci insegna Machiavelli e come sanno bene i nuovi brand del terrorismo globale, è un ottimo metodo per accrescere il proprio potere. Ma oggi la categoria dell’immagine è diventata la base dell’intero sistema delle relazioni sociali, al punto da soffocare le altre componenti. Ciò che ha elevato il culto dell’immagine a paradigma del comportamento sociale è il modello consumistico, con la sua ossessiva necessità di promuovere, pubblicizzare, sponsorizzare i prodotti da collocare sul mercato. Le strategie di marketing sempre più aggressive determinano, attraverso le mode, l’affermazione di stili di vita sempre più tesi al consumo a-critico, all’ostentazione compulsiva di ciò che si possiede e alla cura maniacale di come si appare, confinando il senso civico in una posizione del tutto marginale nella scala generale dei valori.  E’ stato in sostanza scardinato tutto un sistema di princìpi di base acquisiti dalla comunità che costituivano un intralcio alla necessità di incentivare i consumi.

La società non ha ancora trovato terapie adeguate a fronteggiare questa malattia, anche perché non l’ha ancora adeguatamente messa a fuoco: fatica a percepire la sua pericolosità, si rifiuta di considerarla come causa di una serie di problemi che invece con questa malattia sono direttamente collegati. E tra gli effetti c’è anche la forma di violenza che abbiamo osservato a Colleferro. Se l’immagine è il valore più importante, infatti, anche la violenza diventa un valore nel momento in cui viene esercitata per accrescere la propria immagine. La violenza dei fratelli Bianchi non era fine a se stessa, era il modo che usavano per “marcare il territorio”, lo strumento che garantiva loro il successo. Il tema della violenza quindi, come quello del razzismo, è anch’esso un aspetto successivo e consequenziale rispetto al tema dell’ostentazione di sé, che era la principale preoccupazione dei fratelli Bianchi. Willy, prima ancora di essere vittima del razzismo e della violenza, è vittima di questa moderna religione dell’immagine, uno dei frutti più velenosi della società consumistica, specialmente da quando hanno fatto la loro comparsa i social networks, che non a caso erano il luogo dove i fratelli Bianchi amavano esibire il proprio fisico, raccontare le proprie gesta, ostentare la propria forza: insomma, il luogo dove coltivavano la propria immagine.

L’aspetto più preoccupante è che, mentre di Traini ce ne sono fortunatamente pochi, i fratelli Bianchi appartengono a una categoria molto più numerosa, rappresentano un fenomeno più radicato nella mentalità collettiva contemporanea e più sottovalutato dalle agenzie di promozione del sistema capitalistico, che non hanno interesse a mettere in discussione la religione dell’immagine, così fondamentale per sostenere i consumi, come ci ricordano quotidianamente tutti gli spot pubblicitari che ci vengono scaricati addosso. La pubblicità è in effetti la liturgia di questa religione dell’immagine, il rito che celebra il culto dell’apparire, che modella i comportamenti sociali sui parametri dell’esibizione.

Il sistema è disposto a condannare il razzismo come anche il sessismo, il bullismo e ogni forma di discriminazione e violenza. Ma non è disposto ad andare più in profondità nell’analisi della degenerazione sociale, perché significherebbe dover mettere in discussione i pilastri sui quali esso stesso si poggia. Ma per evitare che si ripetano episodi come quello di Colleferro non basterà ripeterci “black lives matter!” o altri mantra che il sistema di comunicazione di massa ci propone: dovremo andare più in profondità, interrogarci sull’intero modello socio-culturale dominante ed essere in grado di individuare gli effetti che produce. Un’operazione molto più complessa, che dovremo portare avanti consapevoli di non avere il supporto dei media mainstream, che dell’attuale modello dominante sono le casse di risonanza.

Dovremo perciò far leva sul sistema educativo e sugli spazi indipendenti di azione culturale di cui ancora la nostra società dispone, che si dovranno impegnare nella promozione di modelli e stili di vita alternativi a quelli proposti dalla società dei consumi. Dovranno diventare il centro di diffusione di vaccini efficaci contro questa degenerazione. Solo una società affrancata dal culto dell’apparenza sarà in grado di promuovere valori più veri e più sani. Per questo il nostro sistema educativo e culturale deve avere il coraggio (se non ora quando…) di mettere in discussione una volta per tutte l’economia di mercato e il consumismo, con tutto il loro corollario di “mutilazioni dell’anima umana”. Uscire dalla società dei consumi significa soprattutto recuperare ciò che la società dei consumi ci ha tolto sul piano civile, morale e spirituale.

L’episodio di Colleferro è uno specchio dei nostri tempi, un altro campanello d’allarme che ci chiama al cambiamento.