La città della decrescita – 2° parte

da | 2 Nov 2021

Come può funzionare la decrescita in città?

Di Karl Krahmer

Distruggere è più facile che creare e mentre è piuttosto facile criticare una città apparentemente virtuosa come Copenaghen (come fatto nella prima parte di questo articolo), è molto più difficile immaginare la città della decrescita. È relativamente giovane il dibattito che cerca di portare a una dimensione urbana (e territoriale in generale) il dibattito sulla decrescita, però per fortuna recentemente si sta evolvendo velocemente e sono comparsi molti articoli e alcuni libri (Housing for Degrowth, Degrowth in the Suburbs e Postwachstumsstadt). Attualmente sto collaborando al progetto di un libro in italiano sul tema e alla costituzione di una rete internazionale di ricercatori-attivisti1.

Studiando la storia del capitalismo e della crescita economica a partire dal commercio medievale e coloniale e la rivoluzione industriale si può essere tentati a pensare che il problema siano proprio le città in sé. E che quindi debbano essere smantellate e che bisogna rilocalizzare tutto, società, economia, politica, vivendo in comunità dalle dimensioni ridotte. A primo acchito ci sono buoni argomenti per questo pensiero: è vero che le città sono stati e sono tutt’ora fulcri del commercio e della crescita economica. Ed è altrettanto vero che le comunità possono autogovernarsi se sono di scala abbastanza ridotta. E infatti queste idee hanno avuto una certa fortuna nei dibattiti sulla decrescita: Serge Latouche mette “ri-localizzare” tra le sue 8 R, si cita molto Fotopoulus sulla dimensione delle comunità e nel libro Housing for Degrowth sopracitato vari contributi vanno in questa direzione.

Temo però che queste proposte sottostimino gli enormi ostacoli e problemi legati alla loro realizzazione. Innanzitutto il mondo, la geografia umana, non sono una tabula rasa2. C’è una millenaria stratificazione di storia e storie che hanno fatto sì che in certi luoghi si evolvessero delle città e in altri no, che certe città diventassero poli importanti e altre perissero. Ciò non significa che questa storia è stata “giusta” o “buona” ma implica, a mio modo di vedere, che è inimmaginabile trasformare, come se non ci fosse questa storia, i nostri territori in una serie di comunità autonome di dimensioni sostanzialmente omogenee (e sono sicuro che se anche questo riuscisse, storia e geografia tornerebbero ad agire e trasformerebbero di nuovo queste comunità facendo fiorire le une e perire le altre). E tanto meno pare pensabile poterlo fare nei pochi anni che ci rimangono per affrontare la crisi climatica. A questo si aggiungono altre questioni; vorrei sottolinearne qui una sola3: ogni trasformazione costa energia come ben sa chi si occupa di decrescita4: come argomenta bene Jin Xue5, una trasformazione radicale delle strutture insediative umane corrisponderebbe a un costo enorme in termini di materia ed energia e contraddirebbe in questo senso gli obiettivi ecologici della decrescita. Inoltre ci sarebbero evidentemente enormi ostacoli sociali, culturali e politici a una trasformazione del genere.

Ora, ammetto che ho qui un po’ semplificato che cosa molti autori hanno inteso parlando di rilocalizzazione e il mio intento non è certamente ridicolizzare quei lavori. Ho però voluto rendere con chiarezza che decrescita, in prospettiva territoriale, non può significare semplicemente e soltanto rilocalizzazione come processo e comunità locali omogenee come risultato. Forse neanche se pensato nei termini più interessanti di un localismo aperto (e quindi di comunità fortemente interconnesse e in dialogo); un’idea oggi abbastanza diffusa nella decrescita e proposta per esempio qui.

Se non è la rilocalizzazione, cosa rimane di un progetto di decrescita per città e territorio?

In primo luogo credo sia importante prendere sul serio molte delle proposte valide nei contributi sulla rilocalizzazione. Se per rilocalizzazione non intendiamo un progetto universale di comunità dalla giusta dimensione6 ma una tendenza, il concetto acquista nuova rilevanza. Doreen Massey (info qui e qui), una geografa inglese, propone di interpretare lo spazio come fatto di relazioni e i luoghi (le città, per esempio) come incroci di queste relazioni. Relazioni che possono essere di tutti i tipi: personali, politiche, commerciali; flussi di materia ed energia… L’intensificarsi senza freni di queste relazioni si può chiamare globalizzazione, partita con le crudeltà del colonialismo (da cui la nostra sproporzionate ricchezza nel Nord globale ha avuto origine7) e oggi realizzata in una densa rete di relazioni commerciali che estraggono risorse da ogni parte del mondo, sostanzialmente indifferente agli impatti che l’estrattivismo ha (pensate alla distruzione dell’Amazzonia per la coltivazione della Soia, la guerra silenziosa in Congo finanziata dall’estrazione del coltan per i nostri cellulari e così via8).

È evidente che la decrescita che centralmente chiede una riduzione di produzione e consumo e dunque del metabolismo umano si può tradurre nello spazio come riduzione di queste relazioni. Delle relazioni commerciali in primis. Ma anche, per esempio, i viaggi in aereo per turismo devono avere dei limiti9. Riduzione e limitazione di queste relazioni, di questi flussi, però non corrisponde alla loro eliminazione. Ho già spiegato perché non credo che l’eliminazione di queste relazioni, e quindi “tornare” a uno scenario di autonomia localistica che in realtà non è mai esistito, sarebbe una strada percorribile. Se non significa eliminazione, allora vuol dire che le modalità di queste relazioni vanno ripensate per essere sostenibili ma soprattutto più giuste socialmente rispetto all’attuale sistema estrattivista10. Ulrich Brand e Frank Eckardt11 parlano in questo senso di “Città solidale della decrescita” e propongono di politicizzare le relazioni che le città hanno con gli altri luoghi da cui traggono risorse. Questo per esempio potrebbe tradursi nel reperire il caffè da una cooperativa di produttori e che venga pagato il giusto prezzo – questo già succede in alcuni casi, certo, ma dovrebbe diventare lo standard. In una prospettiva di decrescita questo può anche tradursi in un quotidiano in cui di caffè se ne bevono di meno ma ci si dedica più tempo: per gustarlo, per chiacchierare…

Molto di quanto scritto fin qui ovviamente non si applica soltanto a quello che comunemente intendiamo come “grande città”. Infatti il concetto di città è difficilmente definibile in modo chiaro (soprattutto per chi le studia) e in un paese come l’Italia c’è, dal punto di vista dei consumi di beni e servizi, uno stile di vita piuttosto simile, abbastanza indipendentemente da dove esattamente si vive (a parte, ovviamente, alcune scelte più radicali, come vivere negli ecovillaggi).

Finora ho scritto soprattutto delle relazioni tra i territori, quelle che le città hanno con il loro esterno. Questo perché credo sia un tema di fondamentale importanza e perché è relativamente poco discusso. Però ovviamente è fondamentale anche parlare di cosa succede dentro i luoghi, dentro le città. Qui sarò un po’ più sommario (sono certo che molte delle cose che menziono vi saranno chiare) e mi concentrerò su quello che, approssimativamente nel linguaggio comune identifichiamo come città (una concentrazione abbastanza densa di persone, edifici, traffico, con funzioni di commercio, cultura, politica ecc.) perché di questo so di più rispetto alla “campagna”.

Intendendo la decrescita come un progetto che vuole aumentare equità e giustizia sociale, migliorare la qualità della vita e questo sulla base ecologica di una riduzione complessiva di produzione e consumo, è chiaro che diventa fondamentale ripensare le città partendo dal principio della sufficienza: cioè offrire una quantità di beni e servizi, materia ed energia sufficiente per una buona vita delle persone. Principio questo della sufficienza, al principio dell’efficienza. Efficienza senza sufficienza (traducibile in riduzione di costi senza limiti a produzione e consumo) è sempre stato una delle forze motrici della crescita economica come già osservò Jevons nel ‘800 in Inghilterra, e non serve di certo a ridurre i nostri impatti sull’ambiente (info qui e qui). Una volta che si ragiona su quanto è sufficiente e consistente con i limiti di sostenibilità., allora sì che l’efficienza può aiutare ad aumentare il benessere.

In una città questo fa pensare a una quantità sufficiente di spazi e dunque limiti agli spazi abitativi pro capite (è dispendioso costruire case, è dispendioso riscaldarle, tanto spazio invita al consumo di oggetti per riempirlo) e dall’altra parte al sostegno a condividere lo spazio (ci sono progetti di CoHousing con spazi comuni, ci sono idee per favorire lo scambio di case per evitare la comune situazione in cui una persona anziana rimane in una casa molto grande e una giovane famiglia in una casa troppo piccola). Ma fa pensare anche a limiti agli spazi del consumo: no nuovi centri commerciali per esempio. Ma forse invece in molti luoghi più spazi pubblici, spazi in cui riunirsi senza dover consumare, più orti e spazi verdi al posto di parcheggi di cui ce ne sono troppi. E più spazi (perché oggi spesso non sufficienti) per i poveri che una casa non se la possono permettere mentre molte case (in una città come Torino quantomeno) sono vuote o sottoutilizzate.

Altrettanto si dovrebbe pensare a una quantità sufficiente di mobilità e certamente al tipo di mobilità e dunque: meno auto e più bici, più aree pedonali (ma non sempre dedicate allo shopping), più verde, più trasporto pubblico locale.

E, qui ci si collega al punto delle relazioni di sopra, una sufficiente quantità di consumi e quindi di materia ed energia che viene portata nelle città; spazi commerciali non eccessivi come detto e spazi dove stare senza consumare. Altro lato della medaglia sono gli spazi di lavoro: se ci serve una quantità limitata di prodotti e a maggior ragione con aumenti di efficienza, allora serve anche una quantità limitata di spazio-tempo dedicato al lavoro.

Come penso già traspaia, sufficienza non in tutto significa una riduzione rispetto ad oggi. Ci sono senz’altro aspetti oggi insufficientemente serviti: case per persone povere, spazi verdi, spazi cullturali fuori dai centri, orti, spazi per fare politica nel senso migliore del termine (sale per riunioni ed associazioni per esempio), spazi per il gioco, spazi dove convivere senza dover consumare…

In sintesi quindi il principio della sufficienza ci invita a limitare il benessere economico individuale, accompagnato da una ridistribuzione ma dall’altra parte, attraverso la condivisione, ci offre possibilità di vivere bene, addirittura godere di alcuni lussi, attraverso i servizi pubblici: “Sufficienza privata e lusso pubblico”, lo definisce il giornalista del Guardian, George Monbiot (info qui). E questo, come ho argomentato in queste righe, trova una sua forma nello spazio.

Due cose ancora vanno dette. Certamente molte di queste proposte sono già state avanzate (molto poco ho inventato io) in un modo o nell’altro di chi si è interrogato su decrescita ed economia e lavoro e politica ecc. Credo che pensarle nello spazio di una città, in un territorio, sia un modo per connetterle, pensarle insieme in interazione.

E poi infine è chiaro che questo della sufficienza è un principio più complicato in pratica che in teoria: non esiste un dato di per sé su quanto è sufficiente di una cosa o l’altra; non è calcolabile. Al più ci possono essere delle approssimazioni (p.es. Si può stimare quante calorie servono ad un organismo umano quotidianamente per funzionare bene) – ma non così tanto ci aiutano. Che cosa è sufficiente deve quindi essere oggetto di una discussione politica, ben informata ma politica, che deve avvenire in tutti i luoghi ed a diverse scale. Una discussione difficile che è tanto più urgente da intraprendere con urgenza.

Gli esempi che dal basso che cercano di portare avanti questo tipo di obiettivi sono moltissimi. Per parlare davvero di un processo di trasformazione socio-ecologica nella prospettiva della decrescita però, questi sforzi devono fare sistema, se no si rischia sempre o la marginalità o la cooptazione. E anche le migliori politiche per la bici come a Copenaghen (politiche da cui comunque bisogna imparare!) rischiano di rimanere inefficaci. Anton Borkow-Loga si basa su Erik Olin Wright per proporre un “pluralismo strategico” per costruire il cambiamento necessario12: In primo luogo una strategia “interstiziale” di piccoli progetti di cambiamento che operano negli spazi lasciati liberi dell’attuale sistema. Poi una strategia “simbiotica” di impegno politico negli spazi politici attuali. Che insieme devono tendere a una strategia di “rottura” del sistema, non concepita come rovesciamento violento ma come trasformazione fondamentale a cui arrivare attraverso riforme con un vero potenziale trasformativo. Spero che in queste righe sia riuscito a delinearne alcune.

Alcuni dettagli in più e molti più riferimenti alla letteratura si possono trovare qui (articolo gratuito in italiano): Krähmer, Karl. “Territori in Decrescita: Da Descrizione  Del Declino a Progetto Desiderabile.” In Tecniche Urbanistiche per Una Fase Di Decrescita Atti XXIII Conferenza Nazionale SIU VOLUME 01, 1:160–64. Torino: Planum Publisher e Società Italiana degli Urbanisti, 2021. https://doi.org/10.53143/PLM.C.121.

Disponibile gratuitamente qui: http://www.planum.net/atti-della-xxiii-conferenza-nazionale-siu-volume-uno

Per dubbi, questioni, commenti potete scrivere a Karl: karl.kraehmer@polito.it

NOTE

1Se qualcuno ha interesse a collabotrare in questa rete, mi può scrivere qui: karl.kraehmer@polito.it

2RIF A CONTRIBJUTO HfD

3Elisabetta Mocca ne ha discusso altre qui: Mocca, Elisabetta. “The Local Dimension in the Degrowth Literature. A Critical Discussion.” Journal of Political Ideologies 25, no. 1 (2020): 78–93. https://www.tandfonline.com/doi/pdf/10.1080/13569317.2019.1696926

4Heikkurinen, Pasi. “Degrowth: A Metamorphosis in Being.” Environment and Planning E: Nature and Space 2, no. 3 (August 21, 2019): 528–47. https://eprints.whiterose.ac.uk/150608/3/Degrowth%20as%20metamorphosis.pdf

5Xue, Jin. “Is Eco-Village/Urban Village the Future of a Degrowth Society? An Urban Planner’s Perspective.” Ecological Economics 105 (2014): 130–38. https://ipe.hr/wp-content/uploads/2019/10/15.xue2014.pdf

6Non discuto questo aspetto qui in dettaglio ma credo sia anche importante considerare la decrescita non come progetto “universale” e cioè per tutto il mondo ma come parte di un “pluriverso di alternativa”, cfr. https://degrowth.org/2018/04/14/new-book-pluriverse-a-post-development-dictionary/; in un certo senso come contributo del Nord del Mondo a questo Pluriverso di Cambiamento.

7Hornborg, Alf. “Footprints in the Cotton Fields: The Industrial Revolution as Time–Space Appropriation and Environmental Load Displacement.” Ecological Economics 59, no. 1 (August 2006): 74–81.

8Molti esempi si trovano qui: www.ejatlas.org

9Limiti ai voli aerei chiede la campagna Stay Grounded: https://stay-grounded.org/

10La mia ricerca di dottorato, attualmente in corso si concentra su questa questione. Ne scriverò di più in futuro.

11In due contributi al già citato libro tedesco “Postwachstumsstadt”: https://postwachstumsstadt.de/

12In un contributo al già citato libro tedesco “Postwachstumsstadt”: https://postwachstumsstadt.de/