La formula 100:80:100 è una fregatura. Per tutti!

da | 2 Giu 2022

La testata on-line “L’Indipendente” ci informa che in Inghilterra è partita l’ennesima sperimentazione di riduzione dell’orario di lavoro con un breve articolo intitolato “Il regno unito sperimenterà la settimana lavorativa di 4 giorni al 100 di stipendio” nel quale si spiega che l’idea è quella di coinvolgere 3000 lavoratori di vari settori in una sperimentazione che per 6 mesi garantirà loro di essere pagati al 100% lavorando l’80% del tempo, purchè si impegnino a tenere ferma la “produttività” al 100%. La formula 100:80:100 quindi.

In realtà poi leggendo si comprende che ciò che si chiede è di tenere la “produzione” al 100% il che significa portare la produttività al 125% rispetto al valore attuale. Detta così è un po’ come dire che quei lavoratori oggi non lavorano al 100% e che la loro produttività può migliorare. Ma per evitare levate di scudi degli stessi lavoratori (ed ancor più del sindacato) si dice che ciò è dovuto allo stress, al troppo lavoro, al poco tempo per la famiglia con le relative conseguenze negative sull’umore e la serenità, ecc… Tutto vero.

Peccato che, probabilmente, al termine della sperimentazione, tornati al 100% dell’orario di lavoro quei lavoratori saranno spinti a produrre con gli stessi ritmi nei primi 4 giorni della settimana ed utilizzando il 5 giorno per produrre altro!

Anzi saranno i lavoratori stessi a sforzarsi in quella direzione, perchè altrimenti che senso avrebbe andare a lavorare quel giorno in più?

Del resto nell’attuale modello socio-economico l’obiettivo è quello di aumentare la produttività per produrre sempre di più e non per lavorare sempre meno. Chi non segue questo modello e non fa di tutto per portarlo avanti è un anti-sociale, uno sfaticato. La logica dominante è quella produttivistica, competitiva, volta a tenere invariato (per lo meno) il livello dei consumi.

A quei lavoratori sarà implicitamente (e forse pure esplicitamente) detto: nel periodo in cui lavoravate 4 giorni la competitività della nostra azienda è migliorata. Ora se lavorate 5 giorni con quei ritmi potremo migliorarla ancora di più, producendo di più e fatturando di più; quindi (prima o poi, probabilmente, forse, ecc…) potrete anche sperare in un aumento dello stipendio!!!

 

Ma come diceva T.S. Eliot nell’opera “Assassinio nella cattedrale”, “L’ultima tentazione è il tradimento supremo: fare la cosa giusta per la motivazione sbagliata.”

Nessun dubbio che la motivazione che ha spinto il Regno unito a questa decisione sia quella sbagliata. E questo perchè per cercare (e non è affatto detto che ci riusciremo) di salvare l’umanità dal disastro socio-ambientale cui la stiamo dirigendo, occorre non solo non aumentare produzioni e consumi ma ridurli. E pure di molto.

L’unica motivazione, giusta, per proporre riduzione dell’orario di lavoro sarebbe infatti quella di usare questa rivendicazione per innescare un cambiamento culturale che scardini la visione lavoro-centrica e produttivistica che caratterizza la nostra società.

Si dovrebbe cominciare cioè perorando la formula 80:80:80. Lavorare l’80%, guadagnando l’80% e producendo l’80% (il che significherebbe, tra l’altro, mantenere effettivamente la stessa produttività). Certo la proposta è scandalosa per chi ha una paga oraria bassa, per non dire indecente, come quella di tanti precari e di un’importante fetta di lavoratori giovani (anche quando non precari).

Però per fortuna i lavoratori che possono contare su una paga oraria decente (diciamo, per l’Italia dal Sud al Nord di 10-15 Euro l’ora netti effettivi) sono -ancora- tanti. E tanti di loro sarebbero ben lieti di poter accedere alla formula 80:80:80 se non addirittura 60:60:60.

Il sindacato dovrebbe abbracciare questa formula non fosse altro che per il fatto che si creerebbe un nuovo posto di lavoro 80:80:80 ogni 4 dipendenti che passassero a tale formula da quella 100:100:100, tenendo costanti i livelli produttivi.

Se invece fosse così lungimirante da puntare alla riduzione delle produzioni (e dei consumi) ad esempio del 25%, dovrebbe spingere la formula 60:60:60 creando un posto di lavoro per ogni 4 lavoratori che accettassero tale proposta.

Tale formula si potrebbe applicare con successo a molti lavoratori in particolare del terziario: impiegati, commessi, lavoratori della conoscenza. Specie se nella fascia di età fra i 30-50 anni. Lavoratori che, essendo nati dopo il Boom Economico ed avendo potuto godere del BenEssere (oltre che del TantoAvere) procurato dalla generazione precedente non sono cresciuti con la convinzione che “la vita serve per lavorare” ma che “il lavoro serve per vivere”.

Lavoratori che sono consapevoli che “vivere” non significa necessariamente “spendere per avere” ma anche, e soprattutto “avere tempo per essere”. E ciò a maggior ragione per il fatto che non stiamo parlando di operai con paghe indecenti (perchè oramai massivamente sostituiti da macchine) ma di lavoratori che, per loro fortuna, hanno ancora (ma non è detto che sarà così nel prossimo futuro quando l’IA renderà anche molti di loro superflui) paghe orarie decenti.

Tutto ciò sarebbe finalizzato, come detto, ad avviare il cambiamento culturale di cui abbiamo bisogno.

Ciò perchè la formula che probabilmente sarebbe necessaria per garantire piena occupazione e contemporaneamente la riduzione di produzioni e consumi a livelli sostenibili come abbiamo dimostrato col documento Quanta Decrescita? sarebbe 20:20:20!

Che poi è, più o meno, la formula a cui immagina di arrivare chi intraprende il downshifting personale e cui tanti amanti della decrescita anelano e che prevede di rinunciare all’auto privata, aumentare l’autoproduzione e lo scambio non mercantile, aderire a gruppi di acquisto solidale, usare le filiere corte, dedicarsi all’autoriparazione e il dare nuova vita alle cose.

Tutte cose assolutamente necessarie per “decolonizzare l’immaginario”, per aumentare la socialità, il senso di comunità, il benessere individuale e collettivo, aumentare la consapevolezza, per consentire sempre a più persone di intraprendere un cammino interiore più profondo.

Quando si ha più tempo a disposizione, ci si impegna in attività a minore impatto ambientale, quali ad esempio esercizio fisico, apprendimento e socializzazione con amici e parenti; mentre le persone con meno tempo libero sono associate ad un consumo più elevato di beni ad alta intensità ambientale. Tutto bello, ma non basta.

 

Si perchè questa decrescita porterebbe alla riduzione di settori come le produzioni intensive di cibo piuttosto che quella della dell’autotrasporto solo per fare due esempi “di mercato” sui quali oramai siamo -quasi- tutti d’accordo. Ed anche molte ipertrofie di alcuni settori pubblici (come quello delle “grandi opere”).

Ma tanti altri settori dovrebbero essere salvaguardati: salute, istruzione, servizi pubblici, ecc… Settori che però non vendono quello che producono ma dei cui benefici fruiamo tutti gratuitamente (o quasi).

 

Ma se tutti scegliessimo il downshifting, se tutti lavorassimo (e guadagnassimo) la metà o addirittura solo il 20% di quello che lavoriamo e guadagnamo ora si dimezzerebbero anche le risorse che, attraverso le tasse, rendono possibile il pagamento di chi realizza ad esempio salute, istruzione, servizi pubblici, ecc…

Settori protesi al soddisfacimento dei bisogni di base, quelli che “rendono la vita degna di essere vissuta”. Ed è proprio per salvaguardare questi settori che tutti, a tutti i livelli, si affannano a cercare la crescita, a convincere e convincersi che l’obiettivo della vita deve essere lavorare e produrre. Per garantire le tasse che servono per produrre ciò di cui godiamo gratuitamente.

Sembra che non ci sia soluzione. Ed è per questo che si va avanti sempre con le stesse formule. Tutti dicono TINA (There Is No Alternative).

In effetti l’alternativa non c’è all’interno del sistema, ed è per questo che va cambiato.

Partendo dal far desiderare formule tipo 60:60:60 ma contemporaneamente modificando in modo strutturale il modo di realizzare, manutenere, gestire, erogare (o se si vuole di produrre) le infrastrutture ed i servizi che soddisfano i bisogni di base.

E questo si può realizzare solo se queste produzioni si realizzano con il lavoro non retribuito di tutti e di ciascuno: Servizi di Base Universali gratuiti prodotti con lavoro il lavoro gratuitamente messo a disposizione da ciascuno. Un’idea non compendiata in nessuna proposta elettorale ma che è realizzabile mettendo in pista un insieme coordinato e coerente di proposte politiche.

Come quelle sintetizzate nel documento Uscita di Emergenza, scritto da un gruppo di attivisti decrescisti italiani e posto a base di un percorso di confronto a vario livello sul territorio nazionale i cui risultati saranno discussi in un incontro che si terrà dal 6 all’8 settembre a Venezia. Si tratta, in estrema sintesi, di modificare alla base le regole del nostro stare insieme come società: sostituire il nostro patto sociale, basato sul lavoro retribuito necessario a soddisfare i propri bisogni individuali e -tramite il modello redistributivo- quelli collettivi, con uno basato sulla messa a disposizione della collettività di TEMPO necessario a realizzare ciò che serve a soddisfare quei bisogni collettivi.

 

Il dibattito, come detto, è aperto ognuno è invitato a leggere il documento ed inviare agli autori le proprie critiche (meglio se costruttive), le proprie osservazioni, le proprie proposte di modifica ed integrazione. Finanche ad organizzare incontri e dibattiti invitando eventualmente gli autori a prendervi parte.