Un racconto di Laura Sciacca
Il vento irromperà, urlerà la neve,
sorgerà nella mente per un attimo
quella contrada, la remota sponda…
Ma il fiore è vizzo, langue fra la neve…
E frusciano come erba secca
i miei vecchi mali…Ed è notte.
E nella notte per un’erma viottola
scendo in un baratro avvolto di neve…
Notte, bosco e neve. Ed io trascino
il peso odioso dei ricordi. Ad un tratto
una minuscola casetta nella radura,
e una fanciulla che canta nel bosco.
Aleksàndr Blok
Camminava in mezzo alla neve l’uomo che portava sulle spalle il peso odioso dei ricordi. In mezzo alla neve e nella nebbia. Poco importava che età dimostrasse, perché non la ricordava, che lingua parlasse, non parlava con qualcuno da molto tempo, da quale paese provenisse, l’aveva voluto dimenticare. Ogni passo gli risultava pesante il doppio da quando trascinava con sé l’ingombrante fardello del passato, sarebbe stato possibile liberarsene se l’avesse voluto, eppure non ne aveva intenzione: era attaccato al suo male, diventato unica ragione di vita, tantoché aveva l’impressione, nettissima, che
senza di esso sarebbe stato solo un guscio vuoto.
Camminava nella luce rosata dell’alba nel bosco innevato, mentre soffici fiocchi volteggiavano intorno alla sua figura scarna, curva. Avanzava stremato nel paesaggio di un bianco quasi ipnotico, dove pure il silenzio contribuiva a creare un’atmosfera di irrealtà e a lui pareva di essere l’unico essere vivente rimasto sulla Terra.
Quando scorse la radura era pomeriggio inoltrato. Il cuore fece un sobbalzo alla vista della casa, un cubetto inatteso e al canto che si levava dai dintorni, del tutto fuori luogo. Sbirciando in direzione della casetta, ben nascosto dietro una grossa quercia, occhi e orecchie cercavano la fonte di quel canto, fino a quando si delineò la sagoma di una ragazza, piccolina, infagottata fino ai capelli da una tuta da neve, scoperto a malapena il viso, delicatissimo. Cinguettava allegra, mentre scaricava, senza sforzo apparente, alcuni alberi da un furgone. Sembrava essere nel suo elemento, quanto lui ne era estraneo. Fermarsi a osservarla l’aveva sfinito ancor più che camminare, si accorse solo allora di avere i piedi fradici e lo stomaco vuoto da giorni.
Scaricato l’ultimo albero la ragazza si rivolse proprio a lui con una naturalezza incredibile data la situazione.
– È meglio se ti sbrighi a entrare, fra poco sarà buio e non voglio trovarmi domani un pupazzo di neve umano sulla soglia. Sarei costretta a chiamare la polizia e la cosa mi darebbe parecchio fastidio. – Un ordine? Una cortesia? Quella porta socchiusa era un invito troppo appetibile. E in un attimo l’uomo fu in casa. Casa! Stanza, sarebbe meglio dire. In pochi metri quadri la ragazza aveva concentrato tutto ciò di cui sentiva di aver bisogno: una cucina economica, un letto, un tavolino con una sola sedia, i suoi attrezzi e una catasta di libri che rischiava di cadere da un momento all’altro. Ah sì, e un curioso esemplare di volpe che la seguiva ovunque, pur non essendo propriamente “sua”: le volpi non sono di nessuno. Rientrava negli accordi tra lei e la ragazza lasciarle la libertà di andare e venire come e quando lo desiderasse e la cosa andava benissimo a entrambe. Non sapeva spiegarsi il motivo, eppure la volpe c’era sempre quando lei attraversava uno dei suoi momenti no, aveva bisogno d’aiuto o si prospettava una situazione delicata. Alla comparsa dell’uomo la volpe
c’era. Balenò per la testa all’uomo che della ragazza avrebbe potuto farne quel che voleva e nessuno avrebbe mai saputo nulla. Avrebbe potuto se solo non si fosse sentito altro che un rifiuto umano, per di più mezzo congelato. Così si diresse verso il fuoco, guardingo un animale braccato, mentre la volpe lo annusava frenetica e la ragazza chiariva le sue regole:
– Non so chi tu sia e cosa ti abbia portato qui. Sappi che ti accolgo per pura carità. Il tuo posto stanotte è in quell’angolo e non nel mio letto. – quasi gli avesse letto nel pensiero – Se provi ad avvicinarti ti aizzo contro Spike, se provi a far male a Spike ti inseguo fino alla fine del mondo con la mia vanga. Chiaro? –
Che strano esemplare di donna, pensò l’uomo, la voce era delicata, gioiosa come quella di una bambina, ma dentro il petto teneva stretto un pezzo di ghiaccio forse più duro del suo.
– Tieni – gli porse una ciotola fumante – prendi un po’ di stufato. Lo preparo la mattina, così da trovarlo pronto quando ritorno. – Si servì anche lei e vuotò la ciotola in pochi secondi. All’uomo quel pasto caldo sembrò paradisiaco, riuscì quasi a riprendere a parlare.
– Allora, che ci facevi tutto solo lì fuori? – volle sapere lei, seduta su un ceppo, aveva tirato fuori una bottiglia di vino e se ne serviva generosamente, ma a lui non ne offriva un goccio.
L’uomo alzò le spalle: – Niente che sia degno di essere raccontato. – biascicò. Quant’era difficile articolare le parole! Un tormento. – E tu? – azzardò lui. Meglio fare parlare lei, ascoltarla gli sarebbe riuscito meglio.
– Intendi dire cosa ci faccio qui? Perché vivo sola in un bosco? – ridacchiò – Io trapianto alberi. –
– Sei una giardiniera? –
– Non esattamente…hai presente gli abeti che la gente trasforma in alberi di Natale? Quasi sempre vengono venduti mozzati di netto, nel giro di un paio di settimane diventano legna da ardere. Anche quelli ancora con le radici, asfissiati dal calore dei riscaldamenti, appesantiti dalle decorazioni, sono ridotti a moribondi in attesa del colpo di grazia, che arriva nel momento in cui vengono abbandonati nei pressi di un cassonetto. E lì entro in gioco io! – si diede una fiera manata sul petto e spiegò come andasse in giro con suo furgone alla ricerca di ex alberi di Natale da salvare e li trapiantasse per donargli una nuova vita. – Se va bene ne attecchisce uno, due su dieci. Il mio compito continua, li
vado a trovare, ci parlo, entrano a far parte della famiglia, insomma! –
L’uomo era sbalordito. La ragazza scoppiò in una fragorosa risata.
– Pensi che io sia matta, vero? –
– No… – rispose lui stringendosi nella giacca.
– Mi sa che hai ragione! – continuò lei sorridendo, lo sguardo un po’ vacuo – Lo pensano in tanti, non ti preoccupare.
– Da quanto tempo fai questo…mestiere? –
– Sono quattro anni, ormai. Oh, è un lavoro duro, sai e mi impegna 365 giorni l’anno, perché c’è sempre qualcuno a cui non garba una pianta e vuole disfarsene o chi decide di rinnovare il giardino, così mi chiama e posso adottarli io, dal rosmarino all’abete!
– Ti pagano? –
– Ti sembra che qualcuno possa pagare un servizio del genere? Piuttosto anomalo e considerato inutile? No, no, vivo con un minimo di rendita fornita dai miei, parliamo di 200-300 euro al mese. Me li faccio bastare, vivo contenta. –
Perché una ragazza giovane e carina potesse scegliersi un mestiere così pesante e volesse isolarsi dal mondo sfuggiva all’uomo. Forse avrebbe potuto provare a chiederglielo quando la vide rabbuiarsi senza una ragione apparente e bruscamente augurargli la buonanotte.
– Domattina devo andare in città, ti accompagno. Sveglia all’alba. –
Rincantucciati ognuno nel proprio angolo stentarono entrambi a addormentarsi e dormirono un sonno agitato, poco abituati alla compagnia del respiro, dei pensieri e dei sogni di un’altra persona così vicina. L’indomani la ragazza aveva ritrovato il suo ottimo umore, fecero colazione in fretta e partirono diretti in città, lasciandosi dietro una scia di neve. Mentre la ragazza, incurante del ghiaccio, accelerava, cantando sulle note di una nota canzone folk, l’uomo rimurginava tra sé: lì a poco si sarebbe ritrovato solo per strada, tra i suoi progetti futuri solo un era chiaro: sopravvivere alla meno
peggio, forse scrocchiare una sigaretta a un passante, elemosinare qualche spicciolo, oltre non riusciva ad andare.
La ragazza lo lasciò in centro e rivolgendogli un rapido “Ciao!” con la mano, ripartì subito sgommando, di certo alla ricerca di qualche albero da salvare. Passarono i mesi, tornò l’inverno e l’uomo si ritrovò ancora più smagrito, stufo dei pasti della Caritas, così abbrutito da essere incapace di sostenere una conversazione, decisamente a terra. Si preparava a trascorrere la vigilia di Natale seduto sul pavimento della stanzetta che il parroco gli aveva assegnato, dispiaciuto di vederlo ciondolare per le strade. Tra le mani stringeva la sua ancora di salvezza, una corda bella spessa, il cappio l’aveva già annodato. Aveva deciso di farla finita, sperava solo che il lampadario reggesse il suo peso.
– Vieni a brindare con noi! – La porta vacillò sotto i colpi dell’omone barbuto che attendeva dietro, il capobanda del gruppo Caritas, un tizio che aveva la brutta abitudine di non farsi mai i fatti propri. – Aspetto finché non esci, dovessi passare qui la notte! – blaterava.
Così l’uomo dovette alzarsi a forza e trascinarsi nel salone della canonica addobbato a festa eppure così freddo lo stesso e far finta di brindare al Natale, aspettando una buona occasione per sgattaiolare in camera.
La TV trasmetteva il notiziario locale, nessuno lo guardava, anche i più infelici tra poveri e diseredati invitati a trascorrere la Vigilia là, perché non avevano lo straccio di un parente da cui andare, avevano voglia di scherzare e brindare. A cosa? Boh! Si chiedeva l’uomo. Avevano il nulla davanti, al pari di lui.
A un certo momento un’immagine sullo schermo lo attirò: era il volto della ragazza degli alberi quello in primo piano?
“Un terribile incidente è avvenuto stamattina all’angolo tra via Marconi e via Maiorana: il conducente di un’Alfa 231 dopo aver attraversato l’incrocio ignorando il semaforo rosso e non essersi fermato allo STOP, ha falciato di netto un furgone parcheggiato, sul quale, per una funesta coincidenza, stava la proprietaria, la quale colpita in pieno è morta su colpo. Il conducente è rimasto illeso e si trova in stato di fermo.”
No! A lei che non si fermava di fronte a nulla era bastato un attimo per finire all’altro mondo senza avere il tempo di dire “Ah!”. Ci fosse stato lui su quel furgone! Si sarebbe risparmiato il fastidio di doversi impiccare. Invece era morta lei, traboccante di vita.
E adesso chi si sarebbe preso cura dei suoi alberi? Gli sembrò una cosa crudele, insopportabile. Capì che se valeva la pena vivere, era per portare avanti un impegno come quello, giudicato da matti un anno prima, gli appariva ora un gesto eroico, una resistenza attiva al degrado della società e ancor prima alla devastazione che aveva dentro lui stesso. Prese la decisione quella notte. Tornato nella sua stanza buttò dalla finestra la corda e mise insieme i suoi pochi averi. Nel salone stavano scartando i regali quando, senza far rumore, scivolò come un’ombra verso l’uscita. La notte era amabilissima, per nulla fredda, gli fu fin troppo facile raggiungere il bosco. Sul limitare gli venne incontro Spike e lo condusse senza esitazione fino alla casetta. L’interno era triste senza la presenza vitale di lei, una presenza ancora palpabile, aleggiava
tra le coperte del letto rifatto senza eccessiva cura, nella pagina di un libro aperto, pronto a essere ripreso non appena avesse avuto un attimo libero a sera, nella semplicissima ghirlanda di agrifoglio che aveva intrecciato e appeso sul camino. Fuori, sotto la tettoia annessa alla casa, l’uomo trovò un albero disteso per terra. Reggeva a stento qualche ago, al tatto ancora morbido e profumato di resina, era vivo. E l’uomo cominciò da quell’albero. Non era la stagione adatta al trapianto, le possibilità di salvarlo erano minime, considerata anche la sua inesperienza, eppure l’uomo tentò. Se lo caricò in spalla e con l’aiuto di Spike scelse un angolo del bosco riparato, dove scavare una buca e collocarlo. L’albero sopravvisse e anche l’uomo. Anzi l’uomo Visse.