Il 10 gennaio 2024, solo qualche giorno fa, l’Associazione Decrescita – di cui non crediamo rappresenti l’opinione generalizzata – a cui fa capo il sito internet www.decrescita.it ha deciso di divulgare nella versione italiana contemporaneamente un’intervista al filosofo francese Dany-Robert Dufour e un intervento del fondatore della rivista La Décroissance Vincent Cheynet in occasione delle “Tre giornate contro le tecno-scienze” risalenti alla scorsa estate e pubblicati in originale dalla stessa rivista di cui poco sopra.
Nel corso dell’intervista e dell’intervento vengono rispettivamente affrontati diversi temi quali – citando testualmente – «transessualismo, transumanesimo, eugenetica et similia». Tali questioni non vengono affrontate in quanto esperienze complesse di persone sistematicamente oppresse né in quanto risultanti da scelte consapevoli e soprattutto personali. Bensì vengono intese appunto come argomenti teorici, quasi astratti, a proposito dei quali, secondo gli intervistatori, sarebbe necessario riflettere in modo collettaneo poiché considerati come “stampelle” del «capitalismo libidinale» dal filosofo Dufour.
Dopo una breve introduzione all’intervista di stampo transfobico e biologizzante nei confronti di tutte quelle esperienze di genere che deviano dalle norme e dalle aspettative sociali di un’organizzazione culturale altamente sessista, patriarcale e queerfobica, le due controparti dell’intervista di cui sopra iniziano nella loro discussione sempre più problematica. Passaggio dopo passaggio, non solo il filosofo si auto-cita quasi aprioristicamente presentandosi come un’autorità scientifica credibile e affidabile, ma entrambi – l’intervistatore e l’intervistato – si dilungano nella creazione di un patchwork teoretico fondato soltanto su punti di vista e prospettive maschili cis-gender eterosessuali occidentali.
Alla luce di questa estrema e intersecata complessità, che rende evidente il posizionamento politico chiaramente non inclusivo di tali personalità e che, ancora, reitera forme di dominazione nei confronti di soggetti profondamente segnati nella quotidianità da molteplici forme di oppressione simbolica ma anche fisica, crediamo che sia doveroso fornire una risposta chiara, assertiva, decisiva e situata. Difatti, tali posizioni non sono rappresentative del movimento – in senso lato – della decrescita in Italia, come dimostrato anche dalla emergente sensibilità delle persone coinvolte in tali rivendicazioni tanto sociali quanto ecologiste a lasciarsi positivamente contaminare dalla teoria e dalla pratica femminista intersezionale che si riflette in laboratori, webinar, attività e così via.
Buona lettura a tuttɜ, anche in questo caso la transfobia e la misoginia ¡no pasarán!
La politicità pervasiva di ogni nostro atto
Con questo testo intendiamo prendere una posizione contraria e politicamente situata nei confronti dell’intervista Il regno del mercato totale al filosofo francese Dany-Robert Dufour e dell’intervento Homo Deus, l’umano il cui cervello è un computer fatto di carne del fondatore de La Décroissance Vincent Cheynet pubblicati nell’estate del 2023.
Anzitutto ci sembra essenziale sottolineare le esperienze da cui partono i suddetti soggetti coinvolti nell’intervista, dato che nonostante idealmente quest’ultima si riproponga di essere legata a «temi un po’ nuovi (come transessualismo, transumanesimo, eugenetica et similia), che non riflettono le posizioni dell’associazione ma mirano ad avviare un confronto che riteniamo importante» i protagonisti della stessa sono ancora una volta uomini bianchi occidentali appartenenti alle dinamiche relazionali asimmetriche tipiche di quel Nord globale in senso lato che mirano, invece, a decostruire.
Come ci insegna il femminismo, o meglio, come ci insegnano i femminismi plurali e intersezionali a cui oggi ci ispiriamo per un reale lavoro di trasformazione personale e collettiva, il personale è politico e ognuna delle nostre singole decisioni e azioni ha degli effetti a favore della reiterazione o della distruzione dei paradigmi oppressivi a cui le nostre esistenze occidentali si sono adagiate, pregne di privilegio e supremazia.
Prima di cominciare nell’esposizione della lettura critica che collettivamente abbiamo deciso di maturare, consapevoli e amareggiatɜ dalla gravità dell’intervista di cui sopra, ci pare importante sottolineare che è presente nel discorso del filosofo un punto a proposito del quale abbiamo anche noi espresso una simile perplessità. Si tratta del ragionamento relativo alla caparbietà e alla capacità del capitalismo di agganciarsi ai desideri di libertà individuali e trarne profitto per la sua stessa sopravvivenza. Tuttavia respingiamo radicalmente la fallace conseguenza logica secondo la quale le esperienze dissidenti nei confronti degli stereotipi binari di genere sarebbero l’esito di ciò che viene definito come un «capitalismo libidinale» reiterato e riprodotto quasi con malizia da persone che non vengono tanto considerate nelle loro complesse esistenze potenzialmente sempre assoggettate a violenze verbali, fisiche e più generalmente simboliche a causa del circostante mondo maschilista, sessista, patriarcale e transfobico; quanto piuttosto sono considerate come «perfetti utili-idioti del capitale» i quali «non hanno capito che la richiesta che il mercato e la tecnologia, chiamate a soddisfare ogni desiderio individuale, si assumano una responsabilità sempre maggiore, fa il gioco di un “capitalismo libidinale” sempre più radicale». Centrale in questo passaggio è il sentimento di superiorità che invade il pensiero filosofico di Dufour e da cui derivano, inevitabilmente, tratti paternalistici e infantilizzanti nei confronti di tutte quelle esperienze che egli considera erronee, sbagliate, insomma che vengono condotte da persone le quali non avrebbero realmente compreso la portata e la gravità del capitalismo nelle sue forme tentacolari e che dunque vivrebbero nella più o meno evidente ignoranza.
Ciò si evince anche da una delle riflessioni che Dufour propone verso la fine dell’intervista, dove sembra assimilare le vite delle persone trans* e dissidenti del genere binario asfissiante con delle vite infantili, bambinesche e incapaci di decidere per loro stesse con coscienza e autonomia. E infatti sostiene che: «Se io, genitore, impedisco a mio figlio di passare delle ore con dei videogiochi idioti e compulsivi, non è per privarlo di qualcosa, ma, al contrario, affinché sia capace di desiderare, affinché abbia il tempo e gli strumenti per esercitare una volontà propria». A noi compagne del Movimento, questo tipo di discorso risuona e rituona nella mente e va a incanalarsi perfettamente con tutte quelle voci maschili che nel corso della nostra vita ci hanno ripetutamente rivolto domande del tipo “ma sei sicura?”, “te lo spiego io”, “no, guarda, non hai capito”, “ma cosa vuoi saperne tu di …” e così via.
Il maschile singolare come unica identità degna di esistenza e il castigo per chi si ribella dall’egemonica maschilità patriarcale
Sebbene tutti questi passaggi siano già alquanto agghiaccianti e basterebbero per evidenziare la problematicità di una personalità maschile in una posizione di visibilità teoretica la quale riproduce quelle stesse forme di potere gerarchico e squilibrato che si propone di decostruire, l’imbarazzante riflessione di Dufour continua.
Poco dopo, infatti, l’intervistato sembra allinearsi quasi perfettamente con quei discorsi di matrice destrorsa, reazionaria, conservatrice ed escludente che egli sembra solo superficialmente e comunque debolmente ripudiare. Effettivamente, egli ripete che: «transessualismo (o transumanesimo) e crescita infinita fanno parte della stessa lotta. Infatti, queste ideologie ignorano il limite. Esse sono vittime della hybris, la dismisura. Eppure, lo sappiamo, di questo rischio eravamo stati avvertiti sin dall’inizio della nostra civilizzazione: i greci dicevano che colui che è vittima della hybris e infrange il limite va incontro alla nemesi, il castigo. Il castigo della crescita infinita sono gli squilibri ambientali che minacciano la vita sulla terra. Quanto ai castighi che si abbattono sull’attivismo trans, possiamo menzionare gli squilibri psichici, giuridici e sociali che scaturiscono dall’affermazione grottesca per cui un uomo può essere una donna (o viceversa)».
Antecedentemente all’analisi critica a livello politico-ideologico e linguistico di tale passaggio, ci sembra imprescindibile porgere la nostra solidarietà alle persone a cui queste parole sollecitano pensieri negativi o talvolta traumi socio-familiari: tale solidarietà è estesa a tutto il testo e alle varie riflessioni e iniziative politiche che ci impegniamo come Movimento a portare avanti. Detto ciò, è possibile osservare come si riproducono in parte quelle riflessioni che sono altresì tipiche delle destre contemporanee che identificano nei percorsi di affermazione di genere e nella educazione sessuale e affettiva una presunta ideologia gender che porterebbe i bambini e le bambine a diventare tuttɜ queer. Difatti, Dufour ne parla come se tali scelte consapevoli e nient’affatto semplici fossero non soltanto il risultato di una idealtipica ingordigia, di una hybris, appunto, destinata a causare disordine, caos e conseguenti disastri, ma anche e soprattutto una «grottesca» strategia per piegare quelle che vengono considerate come dogmi naturali e che porterebbe dunque a credere che «si può scegliere il proprio sesso – quando nella realtà è impossibile». E di conseguenza, secondo Dufour, tali esperienze meriterebbero un castigo.
Tuttavia, tale affermazione è alquanto inattendibile poiché innanzitutto ciò è possibile ed esistono percorsi che, seppur nella maggior parte dei casi patologizzanti e difficoltosi a livello fisico e psicologico, permettono alle persone che non si riconoscono nel sesso a loro assegnato alla nascita di affermare la loro vera identità attivando così un processo di allineamento corporeo e mentale. Inoltre, ci sembra rilevante sottolineare che l’origine del binarismo di genere trae origine dal presunto binarismo fisico tra persone considerate biologicamente donne o biologicamente uomini. Eppure tale convinzione è di stampo più biologizzante che effettivamente biologico, dato che, secondo un rapporto delle Nazioni Unite, la percentuale di persone intersessuali oscilla tra lo 0,05% per cento e l’ 1,7% della popolazione. È importante fare qui attenzione al fatto che il filosofo utilizza in questo caso un linguaggio distaccato e fa sì che siano delle credenze tipiche della Grecia antica a dimostrare e dare valore quasi scientifico alla sua riflessione.
Se può risultare condivisibile quanto egli afferma relativamente agli effetti di una crescita illimitata sul piano economico a discapito del contesto ambientale del pianeta, risulta però problematico e degno di critica il suo ragionamento secondo il quale la contemporaneità del corrente 2024 potrebbe essere assimilata all’organizzazione sociale e culturale dell’antica Grecia. Ancora, è particolarmente preoccupante che attraverso questa riflessione pseudofilosofica Dufour cerchi di nascondere il fatto che è come se si sentisse lui, autoproclamatosi – seppur invisibilmente – illuminato della nostra epoca, in grado di giudicare chi si merita di continuare nella propria vita e nelle proprie scelte e chi merita, invece, un castigo. Quasi come se egli occupasse un ruolo divino. Ma d’altronde, i discorsi femministi che evidenziano le manie di potenze degli uomini prevalentemente bianchi cisgender eterosessuali sono discorsi validi che si riproducono nelle loro battute negli spogliatoii, nelle loro barzellette con gli amici, nelle loro micro-discriminazioni sui luoghi di lavoro e nei locali pubblici e nelle loro azioni moleste e violente che fanno tutte parte di quella che viene comunemente definita, dalle compagne femministe, come “piramide” della violenza dove stereotipi e pregiudizi conducono alla fine a violenze verbali, violenze fisiche, stupri e, in ultima istanza, femminicidi.
L’eterno vittimismo maschile
Infine, un altro elemento dell’intervista ci ha profondamente turbato ed è quello relativo agli accenni malfatti e fuorvianti alla questione della mascolinità tossica la quale viene sfigurata e presentata sotto forma di capro espiatorio di queste lotte così insensate e incomprensibile dal punto di vista del filosofo, quali i movimenti queer e le rivendicazioni femministe e transfemministe. Difatti, in uno degli ultimi scambi prima della conclusione, l’intervistatore incalza l’intervistato chiedendogli un approfondimento sulla mascolinità tossica che è da egli considerata come una «colpevolizzazione dell’uomo nella sua virilità, squalificandolo dal ruolo di figura di riferimento per i ragazzi di oggi» e una «causa principale del “fenomeno trans” e un imperativo del capitalismo liberale». Dopo essersi gongolato nella domanda, Dufour risponde assertivamente e si affretta ad aggiungere scientificità alle sue idee tipiche di un uomo di mezza età che, incapace di venire a patti con questa maschilità tossica che pervade il filosofo stesso, si trova ad “aggrapparsi sui vetri” teoretici di riflessioni sessiste che non rappresentano più – e forse non hanno mai rappresentato – una lente davvero utile ad osservare e interpretare la complessità del mondo sociale.
In effetti, Dufour collega il concetto di maschilità tossica a ciò che Lacan definì “eterni bambini” che egli considera l’una causa degli altri. Tale processo logico è altamente fallace, impreciso e potentemente ideologico dato che in primo luogo sembra creare una linea diretta tra la maschilità e la paternità quasi ad implicare che tutti gli uomini dovrebbero essere padri, dovrebbero procreare, dovrebbe continuare la specie in una visione alquanto deterministica ed evoluzionista. In secondo luogo, si dice anche che «la funzione del padre, oggi così vituperata, è di separare il bambino dalla madre» lasciando così intendere che la madre sarebbe una figura dalla quale lə bambinə dovrebbe essere salvatə e dunque una figura incapace, senza la guida maschile eterosessuale altera, di affrontare e gestire la genitorialità – data, ancora una volta, per scontata. Gli uomini diventano quindi non solo salvatori delle nuove generazioni e dunque idealmente del futuro del mondo ma anche nella contemporaneità vittime indifese delle donne; tale vittimismo sembra essere l’origine dell’odio viscerale che molti uomini nutrono nei confronti di specifiche donne e della loro vita che percorrono strade di emancipazione e raggiungimento dell’indipendenza e anche, più in generale, nei confronti dei movimenti femminili, anzi, femministi che rivendicano tali percorsi emancipatori e autonomizzanti. Eppure, come specifica – tra le molte altre autrici – bell hooks nel suo estremamente disarmante libro La volontà di cambiare. Mascolinità e amore (Il Saggiatore, 2022), il femminismo non odia gli uomini né ha come obiettivo la distruzione del genere maschile e di tutto ciò che ad esso connesso, quanto piuttosto mira alla decostruzione del potere asimmetrico e violento a cui gli uomini vengono allenati e abituati sin dall’inizio del loro processo di socializzazione all’interno di società altamente problematiche e intersezionalmente oppressive come quelle in cui viviamo attualmente. Tale potere asimmetrico e violento ferisce non solo le donne nei ruoli di madri, compagne, mogli, figlie, amiche o colleghe, ma colpisce anche gli stessi uomini in quanto impedisce loro di scoprire se stessi oltre le aspettative che la società proietta su di loro e da loro si attende, non permette loro di liberarsi dalle catene di una maschilità rigida – appunto, tossica – che opprime i sentimenti, avvelena l’empatia e soffoca la vulnerabilità. Ed è proprio in questo complesso incrocio di violenza agita verso gli altri, o meglio le altre, ma anche verso se stessi che gli uomini devono iniziare a riavvolgere il nastro e sciogliere i nodi di una matassa oscura e vorticosa. E devono farlo con una certa urgenza perché altrimenti ogni singola nostra azione – secondo il paradigma il personale è politico – riproduce lo stesso problema: tale maschilità tossica.
Sviscerare le sfaccettature del paradigma di violenza per una trasformazione femminista collettiva
Dufour e Cheynet fanno indubbiamente parte del problema, ma fanno parte del problema anche tutti coloro che hanno permesso loro di realizzare questa intervista e questo intervento, di esprimere pubblicamente queste loro inquietanti idee e credenze, coloro che hanno voluto tradurre questa intervista e questo intervento e li hanno reputati utili per «avviare un confronto che riteniamo importante». Se tale confronto fosse ritenuto davvero importante, non dovrebbero essere uomini a chiamare altri uomini per parlare tra uomini di temi sui quali tali uomini non hanno mai forse davvero riflettuto percependosi onestamente come parte del problema e come membri attivi del patriarcato, del sessismo e della transfobia che altro non sono se non la cosiddetta “altra faccia della medaglia” del capitalismo.
Come possiamo pensare di decostruire le dinamiche di potere tra Nord e Sud globali, tra contesti colonizzatori e contesti soggetti a nuove forme di colonialismo e colonialità, se non riusciamo neppure a decostruire le forme di violenza che reiteriamo quotidianamente nei confronti delle persone che ci vivono accanto, che siano le nostre figlie, le nostre compagne, le nostre madri, le persone dissidenti dal genere con cui lavoriamo, frequentiamo la scuola o l’università, facciamo uno sport e così via? Come possiamo pensare di cambiare il mondo in modo rivoluzionario se rimaniamo seduti comodi nelle nostre poltrone di privilegio e potere senza mai subentrare in quel limbo di disagio e scomodità che è l’unico luogo dal quale possono realmente essere generate riflessioni, scelte, decisioni e azioni decostruttive, anti-capitaliste e soprattutto femministe?
Per questo, riprendiamo uno dei punti (ma soprattutto una delle pratiche) focali dei femminismi contemporanei con cui intendiamo concludere questo contributo e questa lettura critica non solo dell’intervista a Dufour e dell’intervento di Cheynet, ma anche della scelta a rispettivamente intervistarlo e ascoltarlo in prima battuta, cioè un estratto scomposto dal libro di bell hooks Elogio del margine: «Costrettɜ al silenzio. Temiamo chi parla di noi, chi non parla a noi e con noi. Sappiamo che cosa significa essere costrettɜ al silenzio. Certo, sappiamo che le forze che ci hanno fatto tacere, poiché non hanno mai voluto farci parlare, sono ben diverse dalle forze che dicono: parla, raccontami la tua storia. Unica condizione: non parlare con la voce della resistenza. Parla soltanto da quello spazio al margine, che è segno di privazione, ferita, desiderio insoddisfatto. Racconta solo del tuo dolore.». Insieme con: «La marginalità è un luogo di radicale possibilità, uno spazio di resistenza. Un luogo in cui abitare, a cui restare attaccati e fedeli, perché di esso si nutre la nostra capacità di resistenza. Un luogo capace di offrirci la possibilità di una prospettiva radicale a cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi.».
Ci auspichiamo di trasformare questa voce dal margine addolorata e privata di sé in una voce di resistenza, arrabbiata e al contempo desiderosa di trasformare le condizioni dell’esistente, conscia, consapevole e mai dimentica dei margini da cui molte e moltɜ di noi provengono e in cui sono spesso e volentieri rilegatɜ dalla società gerarchica ed escludente.
Il nascente gruppo di lavoro Decrescita e Femminismi