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Un articolo di Bernardo SEVERGNINI e Nello DE PADOVA
I referendum dell’8 e 9 giugno non hanno raggiunto il quorum. Come mai? Molti sostengono che l’iniziativa non fosse stata abbastanza pubblicizzata, altri pensano che fosse stata troppo politicizzata, e che i lavoratori lo abbiano snobbato per segnalare la propria insofferenza verso il “centro-sinistra” e i sindacati, anche a costo di perdere l’occasione per ottenere delle piccole grandi conquiste sul piano dei diritti. Altri trovano altre motivazioni. Paradossalmente comunque tutti considerano il risultato ottenuto un successo dal loro punto di vista.
Non vogliamo certo entrare in questo dibattito, ma ora che le bocce sono ferme vorremmo esprimere una riflessione più ampia di quella che si può ricavare dal teatrino della politica nostrana. Vorremmo soffermarmi su questioni più strutturali, e inquadrare questa iniziativa all’interno del quadro più generale del sistema del lavoro, tralasciando il quesito n.5 sulla cittadinanza, che merita una riflessione a parte.
Innanzi tutto crediamo sia opportuno introdurre dei distinguo anche tra i 4 quesiti sul lavoro. Infatti, mentre il quesito n.4 riguardava i diritti dei LAVORATORI, i primi 3 riguardavano il diritto al LAVORO. La distinzione sembra sottile, ma per come intendiamo noi il concetto di decrescita, fa tutta la differenza del mondo.
Una cosa sono i diritti dei lavoratori, un’altra cosa è il diritto al lavoro. Nessuno mette in discussione i diritti dei lavoratori, ma riteniamo inopportuno (anzi dannoso prima di tutto proprio per i lavoratori) darsi da fare per il “diritto al lavoro”. Perché il lavoro piuttosto che essere un diritto. Semmai dovrebbe essere un dovere.Semmai il diritto da difendere è quello di contribuire con le proprie attività al benessere collettivo e non essere costretti ad un ozio forzoso.
E ora che abbiamo gettato il macigno nello stagno proviamo a spiegare la nostra tesi. Lavorare, specialmente nel caso del lavoro dipendente (ma il discorso si può allargare, con qualche distinguo- a tutto il lavoro retribuito), significa faticare, svegliarsi presto la mattina per andare a eseguire ordini, alienare e mortificare se stessi per un tozzo di pane, produrre cianfrusaglia perlopiù inutile e inquinante per generare profitti per qualcun altro, mettere a rischio la propria incolumità mentre il padrone si arricchisce sulle tue spalle. Come può tutto questo essere considerato un diritto?
I sindacati hanno smesso di fare gli interessi dei lavoratori quando si sono adeguati alla logica dei padroni, e il “diritto al lavoro” è esattamente la logica del padrone: convincere gli schiavi ad accettare e persino desiderare le proprie catene. Il “diritto alla catena”.
Ed ecco che ci viene proposto un referendum per difendere il diritto alla catena. I primi tre quesiti di questo referendum erano sostanzialmente questo. Solo il quarto quesito rispondeva ai diritti dei lavoratori, perché aumentava le responsabilità penali del padrone in caso di infortunio dello schiavo. Gli altri erano solo pubblicità per i sindacati corrotti e per i partiti della “sinistra liberale”, che mentre ti danno una mano, ti pugnalano con l’altra.
La questione del lavoro va ripensata completamente, se si vuole davvero intervenire per migliorare la vita delle persone.
La tragica congiuntura economica attuale, lo strapotere delle multinazionali, i progressi della tecnologia e l’impianto liberista della politica economica globale (al netto delle velleità protezionistiche di Trump) ci impongono una seria riflessione sul concetto stesso di lavoro.
Nelle condizioni attuali, la ricetta novecentesca del social-liberalismo, che individuava nella creazione di sempre nuovi “posti di lavoro” la chiave per il progressivo aumento del benessere della società, è oggi totalmente fuori corso.
Per prima cosa, l’economia occidentale non è più in fase espansiva, anche perchè deve vedersela con i limiti fisici allo sfruttamento delle risorse, e con l’emergere irreversibile di nuove potenze globali non più disposte a concedere all’occidente lo sfruttamento esclusivo del cosiddetto “terzo mondo”. La concorrenza internazionale si fa tanto più spietata che le nostre aziende sono obbligate a tagliare i costi del lavoro (licenziando, delocalizando e automatizzando) per poter sopravvivere. E mentre i moderni Don Chisciotte (leggi “Collettivo GKN”) si affannano a combattere i mulini a vento per sostituirli con le pale eoliche, la realtà è che non è più possibile garantire un “posto di lavoro” per tutti, perlomeno non nelle forme a cui siamo stati abituati nel Novecento.
Non sarà più possibile garantire il benessere delle persone attraverso il “mercato del lavoro” (a proposito dire che esiste il mercato del lavoro e che il lavoro non è una merce é un ossimoro che prima di ogni altra cosa dovrebbe far aprire gli occhi cu cime ci stanno – o forse sare be mevlio dire ci stiamo – prendendo per i fondelli). La sola via d’uscita consisterà nello scollegare una volta per tutte il concetto di lavoro da quello di reddito, e il lavoro retribuito non dovrà più essere la condizione necessaria per poter godere dei diritti sociali (casa, istruzione, sanità, giustizia, energia, mobilità ecc…). Questi servizi dovranno essere garantiti a prescindere dal lavoro e dal reddito. Si dovrà dunque necessariamente procedere alla distribuzione equa delle risorse, per produrre le quali si dovrà ricorrere alla socializzazione del lavoro (lavorare meno, lavorare tutti). Il lavoro tornerà ad essere un dovere, come è sempre stato dall’alba dei tempi fino all’avvento della società industriale.(1)
In una prospettiva del genere, i primi tre quesiti del referendum perdono di significato. Si può obiettare che questa sia una prospettiva utopistica e che oggi la gente deve pur portare a casa la pagnotta. Ma anche allo stato attuale delle cose, se pure avesse vinto il sì, i lavoratori non avrebbero potuto godere degli effetti sperati. Le aziende infatti, per via dei maggiori oneri, sarebbero state costrette o a fallire o a spostare la produzione in paesi con meno vincoli. Forse gli operai licenziati avrebbero avuto un indennizzo, ma finito l’indennizzo si sarebbero trovati con ancora meno lavoro.
Quello che bisogna mettersi in testa una volta per tutte è che se non si prende il toro per le corna, non saranno i piccoli aggiustamenti della legislazione a modificare il destino della nostra società.
I partiti e i sindacati lo sanno benissimo. Sanno benissimo che se l’economia “non tira” il lavoro non si genera con la bacchetta magica. E sanno che l’economia non tira, e con questo sistema non tirerà mai più. Per questo hanno rinunciato a lottare, e piuttosto che impegnarsi per cambiare il sistema, oggi si preoccupano solo di salvaguardare la propria carriera. Ecco perché i loro quesiti referendari non sono altro che specchietti per le allodole, pubblicità ingannevoli, polpette avvelenate. E forse proprio per questo i cittadini li hanno puniti. Ma tanto si sa, loro cadono sempre in piedi.
NOTA (1): Per un approfondito di questa idea vedi Un Altro Lavoro per Un’Altra Società