Di Francesco Lombardi del Circolo MDF di Brescia.
In tutti i principali programmi educativi pubblici [1] l’esercizio del pensiero critico occupa un posto speciale e costituisce un’abilità irrinunciabile per il cittadino del XXI secolo. Sul pensiero critico esiste una vastissima letteratura specializzata; John Dewey lo definisce una “considerazione attiva, persistente e attenta di qualsiasi credenza o presunta forma di conoscenza alla luce dei motivi che la supportano e delle successive conclusioni a cui tende” [2].
Il pensiero critico è dunque un atteggiamento di guardia da sviluppare e mantenere esercitato come individui e cittadini in tutti i momenti in cui recepiamo delle informazioni per darne la giusta rielaborazione e interpretazione. È una delle abilità che fondano la competenza chiave europea in materia di cittadinanza [3], requisito fondamentale per una corretta partecipazione democratica alla vita pubblica. Qual è il problema, quindi? Ci sono dei possibili effetti collaterali all’esercizio del pensiero critico? È possibile condurre una “critica al pensiero critico”?
Proviamo a metterci nei panni di un onesto e bravo cittadino – lo chiameremo X – che, consapevole del suo dovere civico, cerca di informarsi attraverso tutti i canali che conosce. E lo fa cercando di rimanere il più possibile critico nei confronti di tutto ciò che recepisce. Legge le notizie, conosce i fatti e poi prova a farsi un’opinione in merito. Supponiamo che legga il titolo (assolutamente fantascientifico) “La nazione A ha bombardato la nazione B”. Il fatto suscita molte domande in X: in che senso ha bombardato? Perché? Ha fatto bene A a bombardare B? Ha fatto male? È giusto, sbagliato, ordinaria amministrazione? Quali sono le cause? Quali saranno gli effetti?
X legge alcuni giornali: non uno, almeno due o tre che hanno linee editoriali diverse, per non fossilizzarsi su un’unica visione. Visita alcuni siti internet, segue alcuni profili social, ascolta podcast, guarda video, legge i commenti degli altri utenti. Tutto nel segno della pluralità e, ovviamente, con spirito critico. E nel giro di poco tempo X viene a contatto con un ventaglio di idee riguardo alla notizia di partenza che vanno dal “A ha fatto bene a bombardare B, anzi B deve scomparire dalla faccia della Terra” al “A ha compiuto un crimine, la pagherà, anzi A deve scomparire dalla faccia della Terra”. E nel mezzo una miriade di opinioni intermedie. A questo punto X, che ha provato a barcamenarsi in questo mare magnum di opinioni ma che nel frattempo ha avuto anche altro da fare, arriva stremato a fine giornata senza una conclusione definitiva e, rassegnato, si convince che nessuno ha la piena ragione, la verità sta un po’ di qua e un po’ di là, forse l’attualità è davvero troppo complicata per lui… forse è più appagante dedicarsi ad altre attività più divertenti. E insomma alla fine il nostro X, cittadino volenteroso partito con le migliori intenzioni, ce lo siamo giocato. Forse a votare ci andrà ancora, ma fare attivismo… molto difficile!
Sarà pure un esempio paradossale ed esagerato, ma forse non così lontano dal rappresentare la situazione di molte persone comuni che, disposte a impegnarsi per sapere cosa accade nel mondo adottando un vero pensiero critico, di fronte alla complessità del reale semplicemente si arrendono e rinunciano a comprenderlo; magari non si preoccupano neanche più di andare a votare.
Ovviamente il problema non è l’uso del pensiero critico in sé, ma la fiducia incondizionata in un atteggiamento cognitivo che si scontra con una mole di informazioni che il cervello umano difficilmente è in grado di gestire. L’individuo si propone di affrontare criticamente il mondo, ma la sua posizione nei confronti della conoscenza rimane passiva: il pensiero critico diventa un meccanismo di difesa per salvare la sua pretesa di razionalità; e non riuscendo a rielaborare la moltitudine di suggestioni che riceve, a un certo punto si auto-convince che per salvare questa razionalità è preferibile non partecipare al gioco.
Meglio non avere un’opinione che correre il rischio di passare dalla parte del torto. Di conseguenza, non riuscendo a comprendere le dinamiche politiche, sociali ed economiche del mondo in cui vive, rinuncia anche a chiedersi se esso sia giusto o sbagliato e quindi se si debba provare a migliorarlo. Se immaginiamo questo stato mentale applicato a una buona parte della popolazione ci rendiamo conto
dei rischi che corriamo anche solo a livello di partecipazione democratica.
Come se ne esce? Il cittadino X potrebbe semplicemente rinunciare ad avere la giusta visione delle cose, consapevole che ogni interpretazione del mondo (una volta si chiamava ideologia) è sempre parziale e incompleta (falsa coscienza, direbbe Marx [4]). Ed è comunque preferibile al semplice disimpegno. Vero, ma il problema resterebbe, perché un’idea, se non viene a contatto con le altre, rimane sterile e non produce superamenti positivi. Il problema non è una comprensione del mondo distorta; è piuttosto la rinuncia dell’individuo a mettere alla prova le sue posizioni nel confronto con gli altri. Se io, privato cittadino, non partecipo alla discussione pubblica, ha poca importanza se ho un’opinione più o meno vicina alla verità. Rimarrò al sicuro nella mia torre d’avorio, ma le mie idee non daranno frutto (né per me né per la collettività).
Non è sufficiente quindi il pur essenziale pensiero critico; serve un atteggiamento attivo, aperto al confronto e orientato alla ricerca della verità. Potremmo chiamarlo pensiero costruttivo. Pensiero costruttivo non è solo riflessione e rielaborazione su ciò che si conosce; è la ricerca condivisa di una visione più razionale del mondo. Una ricerca che si realizza nel dialogo con l’altro, con atteggiamento non solo critico ma anche aperto e desideroso di costruire una conoscenza a partire dalla sintesi di più idee diverse. Chi esercita il pensiero costruttivo non si limita a smontare le argomentazioni altrui, né le fa passare come un semplice yes-man, ma le analizza e le ricambia con spunti e suggerimenti per arrivare a una verità condivisa, dunque più solida.
Tutta questa riflessione potrebbe interessare chi, come noi, cerca di diffondere le teorie e le pratiche della Decrescita, la quale è innanzitutto un cambio di paradigma. Se vogliamo coinvolgere le persone nell’attivismo dobbiamo ricordarci che il desiderio di cambiare il mondo si origina dalla presa di coscienza dell’irrazionalità del modello di sviluppo in cui viviamo. È innanzitutto questa consapevolezza che ci spinge ad essere motori di cambiamento (non è forse Maurizio Pallante a definire la decrescita come “rifiuto razionale di ciò che non serve”?).
Un obiettivo per i circoli MDF potrebbe allora essere quello di mettere le persone in condizione di capire le evidenti contraddizioni del presente; ma non andando aggiungersi alla moltitudine di voci che hanno fatto impazzire il nostro amico X. Piuttosto, organizzando momenti di confronto e dibattito su determinati temi, incoraggiando tutti i partecipanti al dialogo, senza avere la pretesa di imporre la visione della Decrescita su tutte le altre. La cosa più importante è che le persone tornino a parlare di attualità tra loro, con l’ambizione di arrivare a una verità più profonda. Gli argomenti su cui discutere non mancano di certo.
[1] Solo per citare qualche esempio italiano:
– Indicazioni Nazionali per il Curricolo della Scuola dell’Infanzia e del Primo Ciclo d’Istruzione (D.M. 254/2012)
– Indicazioni Nazionali per i Licei (D.M. 211/2010)
– Linee guida per gli Istituti Tecnici e Professionali (D.P.R. 88 e 87/2010)
– Linee guida per l’insegnamento dell’Educazione Civica (L. 92/2019)
[2] In particolare Dewey parla di reflective thinking nell’opera “How we think” (1910).
[3] Consiglio dell’Unione Europea. (2018). Raccomandazione del Consiglio del 22 maggio 2018 relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente (2018/C 189/01). Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, C 189, 1–13.
[4] Marx, K., & Engels, F. (1972). L’ideologia tedesca (G. Del Bo, Trad.). Editori Riuniti. (Opera originale scritta nel 1845-46)
[5] Maurizio Pallante, La decrescita felice. La qualità della vita non dipende dal PIL, Editori Riuniti,
2007