Una “tecnica” (in inglese technical) è un tipo di veicolo militare low cost, un micidiale accrocchio composto da un mezzo civile con un cassone (tipicamente un pick-up) attrezzato con armi pesanti, quali lanciarazzi e grosse mitragliatrici. È spaventosamente efficace e distruttivo. Gli hanno dato anche altri nomi: gunship, guerrilla truck, battlewagon, gunwagon. Noi continuiamo a chiamarlo con il nome che ne battezzò la comparsa in Somalia. Guardiamolo bene, fissiamocelo in testa, quel veicolo. Quando la “tecnica” scorrazzerà nelle nostre strade di sempre, in slalom tra le macerie, l’involucro della nostra normalità sarà stato già frantumato.ù
La disoccupazione sarà dilagante, le scuole già distrutte, i potabilizzatori e le reti idriche costruite in generazioni saranno poltiglia, l’elettricità arriverà poche ore al giorno, la sanità sarà un ricordo, le pensioni una chimera. E perfino il povero caffellatte del nostro inverno cui ci aggrapperemo per sopravvivere sarà inquinato, perché le guerre asettiche esistono solo nei videogame, mentre le guerre vere sono eventi ambientali distruttivi. Se avremo la disgrazia di pregare in modo “sbagliato”, dovremo perfino andarcene via, chissà dove e chissà come, a milioni. I luoghi di culto sbagliati, come tutti i nostri luoghi sbagliati in cui facevamo comunità, saranno stati rasi al suolo dagli unici ragazzi che trovano un buon lavoro, i picciotti esaltati e giusti delle tecniche, tanto innamorati dei loro oggetti da tatuarsi il marchio della Toyota nei loro avambracci, come già fanno in Afghanistan e in Iraq.
E non ci sarà nessun giudice a proteggerci, nemmeno quello di uno stato oppressivo e corrotto, ma non digiuno di leggi. L’unica autorità visibile risiederà sulla canna dei mitragliatori delle “tecniche”. Le monete che ci suderemo saranno cartacce da borsanera, che prenderanno il volo verso i boss e verso l’unica autorità che sovrasterà i signori della guerra locali, una superiore forza armata di occupazione assistita da mercenari spietati. Ci siamo immedesimati abbastanza? Non stiamo descrivendo un film apocalittico di fantascienza post-atomica del XXII secolo. No, stiamo raccontando la Guerra Infinita di oggi, con la sua sequela di Stati falliti, ordinatamente messi in fila secondo l’inesorabile tabella di marcia rivelata dal generale Wesley Clark.
Là dove c’erano Stati sovrani che ostacolavano l’Impero rimangono territori neocolonizzati e neofeudalizzati. I regimi prima della dissoluzione saranno ricordati solo dal lato della loro “oppressione”. I leader saranno visti come Tiranni folli. E con i folli c’è poco da negoziare, no? Lo abbiamo letto, quel rifornitore di bombardieri che risponde al nome di Adriano Sofri? Dice che occorre «avvertire il nuovo pazzo di Damasco che la sua ora è suonata». La caccia al tiranno da abbattere prelude a immensi lutti e, finalmente, all’arrivo delle “tecniche” a Damasco. Questa è la prossima stazione della guerra, nel quadro di una lunga pianificazione.
Abbiamo assistito alla missione della Lega Araba in Siria, e i risultati sono stati sorprendenti, tanto da meritarsi il mutismo da parte della grande corrente dei media. Con sorpresa di tutti, il rapporto descrive una situazione molto diversa da quella che corre nei nostri media, e quindi è stato silenziato. Esattamente come accadde a Saddam Hussein quando l’Agenzia internazionale per l’energia atomica non trovò uno straccio di prova sulla presenza di armi di distruzione di massa. La guerra all’Iraq era comunque pianificata e si fece a dispetto di ogni residuo pretesto. La guerra alla Siria è già in agenda, e infatti – a dispetto del rapporto – la Lega Araba rompe le relazioni con Damasco. La determinazione inflessibile è quella che prelude alla guerra totale. Non si fanno prigionieri.
Lo schema riduzionista imperante è che Bashar al-Assad sia l’ennesimo nuovo Hitler, il dittatore sanguinario che spara al suo popolo, un politico irrazionale che usa la repressione contro istanze democratiche genuine e pacifiche. Se si accetta l’agenda dell’Impero, le sue urgenze arbitrarie e manipolate, si affoga nell’oblio. Dimenticheremmo cioè che esiste un modello di intervento mediatico e militare ripetitivo già usato in tutte le guerre dell’ultimo ventennio. E c’è di più; se ci facciamo dettare la cronaca dall’Impero, assecondiamo un’immagine ingannevole della Siria e dimentichiamo cosa è stata veramente negli ultimi anni: un paese di 19 milioni di abitanti che ha dato una casa e una nuova vita a un milione e mezzo di profughi dall’Iraq, che hanno potuto spiegare bene ai siriani le amenità della democrazia per nuovi senzatetto, lo splendore delle strade di Baghdad presidiate dagli squadroni della morte che mitragliano dalle loro tecniche, nonché l’odore delle ferite in suppurazione.
Prima di spiegare ai siriani cosa devono fare a casa loro, chiediamoci tutti: l’Italia – per fare una esatta proporzione – sarebbe stata capace di accogliere umanamente, da un anno all’altro, cinque-sei milioni di nuovi stranieri? Milioni di siriani sanno che se dovesse saltare il blocco politico e sociale di Assad sarebbero “irachizzati” e trasformati anch’essi in uno stato fallito. Lasciando stare per ora i droni di Obama in Pakistan o le stragi di Sarkozy in Costa d’Avorio, ci basta aprire un quotidiano turco in un giorno qualunque, per trovare notizie come questa: “I caccia turchi bombardano obiettivi del Pkk in Nord Iraq”. Da noi, neanche un trafiletto, mentre tutti credono di sapere cosa accade a Homs. Sentiamo qualcuno strillare contro la conclamata violenza anti-curda in atto chiedendo un “regime change” ad Ankara, magari a costo di un crollo del paese? Sentiamo forse qualcuno che faccia notare la doppiezza di Obama?
Il presidente Usa contro la Siria di Assad chiede sanzioni in nome dei diritti umani violati, mentre per il Bahrain di Al-Khalifa – che ha schiacciato le opposizioni con l’“aiuto fraterno” dell’esercito saudita e con massacri e torture supportati dagli Usa – fa tutti gli onori. Ora, non è escluso che ci possano essere casi di “strategia della tensione”, ossia auto-attentati sotto falsa bandiera (false flag) per giustificare la repressione. Giornali di solito prodighi di patenti di cospirazionista per chi sospettava operazioni “false flag” per molti attentati accaduti in Occidente (a partire dall’11 Settembre), hanno fatto a gara per subodorare complotti interni e auto-attentati in Siria. In realtà il ragionamento può essere svolto anche dall’altra parte. È indubbio, in ogni caso, che esistono numerosi casi di infiltrazioni di uomini armati che sparavano indistintamente sulle forze di sicurezza e sulle manifestazioni, e, poi, anche sui civili in modo casuale, con lo scopo evidente di creare caos per il caos.
A chi giova questa strategia criminale, già vista in America Latina e in Iraq, straordinariamente efficace nel destrutturare il grado zero della sicurezza che gli Stati dovrebbero garantire nel patto di cittadinanza? Chi ha guidato la mano degli squadroni della morte? Sarebbe interessante chiederlo a Robert Ford, l’ambasciatore Usa a Damasco. Prima dell’incarico nella capitale siriana, Ford era stato assistente di John Negroponte quando questi era ambasciatore a Baghdad e anche lì imperversavano gli squadroni della morte, esattamente come in Honduras ai tempi in cui faceva l’ambasciatore, e da lì organizzava la guerra sporca dei Contras del Nicaragua, oltre ad addestrare le forze speciali e i torturatori di tutto il “cortile di casa” del Sud America.
Posto che ci sono molti civili che protestano in modo pacifico, come facciamo a qualificare come “civili” gli autori di operazioni a tutti gli effetti militari? I “civili” non portano armi, e pertanto nessuno dovrebbe attaccarli, nemmeno i ribelli. Ma se il termine “civile” va a coincidere con “combattente” armato – come quello a bordo della “tecnica” – che agisce contro un governo sovrano legittimo, allora nessuno potrà immaginare che un esercito regolare possa capitolare davanti a questa tassonomia di “civili”, ne tolleri senza reagire gli attentati; e infine ceda a una sicura sconfitta. Nessuno Stato lo farebbe. Siamo cinici? No, facciamo un ragionamento politico. Perché mai dovremmo regalare la lucidità interpretativa solo a un vecchio serial killer di democrazie come Henry Kissinger?
L’ex segretario di Stato Usa, rivolto a una qualificata platea di berlinesi, nel giugno 2011, fu esplicito, quando parlò del Bahrein e delle altre monarchie alleate: un cambiamento democratico non gioverebbe agli interessi americani. Fu ancora più esplicito: lo scompiglio rivoluzionario nei paesi arabi del Golfo Persico poneva un problema «strategico e al tempo stesso morale» per l’America. In veste di inventore del Piano Condor, ossia di pianificatore delle decine di migliaia di desaparecidos, aveva già fatto la sua scelta “morale”, ancora una volta. Lui sì che sa scegliere le priorità dell’agenda, e non se le fa dettare da nessuno.
Uno sguardo ravvicinato alle violenze in Siria fa sorgere domande terribili sulle narrazioni ufficiali di chi oggi dà la caccia ad Assad come ieri a Gheddafi. Il primo episodio consistente è della prima metà di aprile 2011, quando una colonna militare dell’esercito viene attaccata con armamento pesante sull’autostrada verso la città di Banias provocando 9 vittime tra i soldati, tra cui un alto ufficiale (prima si erano avuti solo agguati sparuti contro pattuglie della polizia o esercito in diverse località del paese). Ora, non si attacca una colonna militare con armamento pesante se non si ha una adeguata preparazione. Sono azioni che non si improvvisano.
Va notato che nei primi tre-quattro mesi di rivolte, si contavano già nell’ordine delle centinaia i membri delle forze di sicurezza e dell’esercito rimasti uccisi. Da allora sono con ogni probabilità migliaia. Sulla stampa occidentale e sui canali satellitari del Golfo per mesi si diceva che fossero stati giustiziati perché si rifiutavano di sparare sulle manifestazioni. Era un vero e proprio mantra, clonato dalla litania che aveva distorto allo stesso modo le cronache sui caduti libici. Quando tale mantra risultò non più credibile, nacque l’Esercito Siriano Libero. Da quel momento i soldati lealisti erano effettivamente uccisi in combattimento, ma da parte dei disertori che lottavano contro il regime. Uno schema collaudato in tutte le guerre degli ultimi decenni.
Anziché lucidare le grancasse delle condanne, noi che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, dovremo dunque usare una prudenza estrema, per difendere la causa della pace, e mettere qualche granello fra gli ingranaggi della macchina della guerra. L’Impero gioca la sua partita esistenziale e lo fa sulla pelle dei popoli con i mezzi che ha sempre utilizzato e che noi tutti conosciamo bene. Per l’Occidente il negoziato è impossibile. Intende semplicemente rovesciare un regime che fa parte di un blocco di cui i poteri occidentali vogliono liberarsi ad ogni costo. Un leader che aveva un potenziale politico riformatore enorme, Bashar al-Assad, è così trasformato in un “macellaio”, prima di asfaltarlo e costruirvi sopra – in vista della prossima guerra atomica – una base militare in più, circondata dalle grassazioni della soldataglia sopra le “tecniche” lungo le strade di una nazione in sfacelo.
(Estratti dall’intervento di Pino Cabras e Simone Santini “Prima che spari la tecnica”, pubblicato in versione integrale da “Megachip” il 14 febbraio 2012).
Fonte: Libre