Secondo le dottrine indù Maya rappresenta l’illusorietà del divenire fenomenico che, pur non possedendo una realtà inerente, si frappone come un velo davanti al nostro sguardo, impedendo la vista del “reale” (da qui la definizione shopenauriana: “Il velo di Maya”)
Se dal punto di vista ontologico viviamo in un’illusione, la stessa cosa si può dire secondo un punto di vista assai più terreno, quello della narrazione dei fatti e degli eventi e della vita di tutti i giorni, quello che si suole, con un eufemismo abbastanza grottesco, chiamare “informazione”. Anche qui la rappresentazione dei fenomeni copre con uno spesso velo la realtà, solo che in questo caso il velo è costituito dalle menzogne con le quali, ciò che chiameremo pietosamente lo “spirito del tempo” (zeitgeist direbbero i colti) cela la verità delle cose attraverso le lenti deformate dalla propria visione del mondo (in questo caso, i colti di cui sopra, userebbero il termine weltanschauung).
In quest’ottica possiamo osservare il castello di fandonie che è stato costruito, negli ultimi decenni, dalle varie marionette di regime (giornalisti, economisti, politici), riguardo alla costruzione del famoso “sogno” europeo, alla crisi, alla moneta unica. Tutto questo per convincere gi ignari cittadini -e forse anche se stessi- che tutto quello che veniva attuato sulla loro pelle e loro malgrado, e che è costato loro “lacrime e sangue”, (economicamente parlando), veniva fatto per “il loro bene” (visto che vi è sempre qualcuno così lungmirante e generoso che conosce quale sia il bene altrui e lo persegue, nonostante tutto).
Così è stata fatta un’accurata e quasi perfetta opera di disinformazione atta a convincere tutti che questo Sogno, sognato solo da alcuni, dovesse essere il Sogno di tutti. Certo, ma come non pensare che i sogni di tutti non debbano essere popolati d’altro che una moneta unica, un grattacielo situato a Francoforte con davanti una € circondata da tante stelline? Come non ritenere ovvio che la direzione maestra sia quella di sottoporsi ad inutili sacrifici, sottoporsi a parametri macroeconomici arbitrari, che vengono dettati da istituzioni misteriose e da sublimi maggiordomi dai volti, per la verità assai repellenti, dei vari Van Rompuy e Barroso,? Ma certo, è talmente ovvio che questa sia la strada maestra, che vi è anche stato bisogno di creare una sorta di moderna Geheime Staatspolizei (continentale, questa volta) chiamata Eurogenfor atta a punire tutti riottosi che vivono nel peccato perché –mirabile dictu– non credono nel Sogno.
Quanto a noi, ammettiamo la nostra condizione di peccatori, questo Sogno proprio non riusciamo a farlo nostro, nemmeno nei momenti nei quali la nostra coscienza si assopisce per scivolare nell’oblio del riposo. No, non è mai accaduto. Ci è capitato sì, di sognare fiumi di latte e di miele, pecore che vivessero in armonia coi lupi; persino frotte di Bond Girls o di conigliette discinte che giocano a pallavolo ai bordi della piscina (nostra, nel sogno) . Ma, sicuramente non ci è mai accaduto di sognare unioni valutarie o politiche che comportassero sacrifici inenarrabili e gratuiti. E, visto che siamo piuttosto blasfemi (perché i Sogno è una moderna religione[1]), pensiamo che nessuno (a parte gli artefici del Sogno) possa affermare di averlo mai sognato.
In questi ultimi anni molti cittadini europei (anche se la dizione è impropria, perchè l’Europa è un concetto, non uno stato) hanno potuto scoprire sulla propria pelle che questo famoso sogno è diventato un incubo.
In questo contesto, il libro di Alberto Bagnai, che porta il suggestivo titolo “Il tramonto dell’euro”, è assolutamente prezioso, perché compie un’opera di disvelamento particolarmente efficace. Inoltre, contrariamente a quanto si possa pensare, trattandosi di un libro di argomento economico, la lettura è estremamente gradevole, spesso appassionante, grazie alla piacevolezza e alla vivacità dello stile e alla spassosa ironia che l’autore spande a piene mani nelle oltre 400 pagine del volume, quasi volesse smentire recisamente le parole di Carlyle che definì l’economia come “la scienza triste” (The dismal science).[2]
Questa levità stilistica, tuttavia, non inficia il rigore scientifico e la precisione le quali ‘autore tratta l’argomento (il libro abbonda di dati, tabelle e riferimenti bibliografici), ma ha il grande pregio di farne una lettura per i più, e non solo per “addetti ai lavori”. Questa, dobbiamo riconoscere, è una dote rara, ai nostri tempi.
Egli ci racconta che le tante parole e frasi che, negli ultimi anni, hanno riempito ogni angolo dell’etere e della carta stampata, come “rigore”, “austerità” e, l’onnipresente “ce lo chiede l’Europa”, non siano state altro che una propaganda assai pervasiva ed estremamente efficace per nascondere il vero volto dei fatti. La realtà è stata nascosta dal velo di Maya fabbricato della “bava essiccata di generazioni di mentitori di professione”[3], che hanno parlato, più che altro, della finanza impazzita, degli speculatori cattivi e dei perfidi banchieri che complottano alle spalle degli ignari cittadini, e chi più ne ha, più ne metta. Anche se le categorie citate hanno – ovviamente – gravi colpe, una spiegazione veridica di ciò che sta avvenendo, non può limitarsi a questa narrazione patinata.
Difatti, l’Autore ci racconta che la spiegazione è da cercarsi altrove: “Entrando nell’Euro, i paesi membri sono stati degradati al rango di econome emergenti, perché hanno perso il controllo della valuta nella quale denominare il proprio debito” (pag 40)”
Da lì passa a spiegare la teoria delle aree valutarie ottimali (il cui acronimo suona OCA, dall’inglese Optimum Currency Area), che “è definita come l’assieme di Paesi che può dotarsi senza problemi di una valuta unica […] i nostri politici hanno sognato e, soprattutto, voluto che l’Europa fosse un OCA, cioè potesse trarre grande giovamento di una moneta unica” (Pag.112),
E quali sono i criteri che definiscono l’OCA? Certamente deve esservi una certa omogeneità tra le economie dei paesi che ne fanno arte, in particolare il tasso di inflazione deve essere simile, così la politica fiscale, e le politiche del lavoro. Inoltre deve essere possibile la mobilità delle persone e delle merci, il che comporta una fiscalità omogenea e sistemi pensionistici integrabili (ovvero, per dirla in parole semplici, se qualcuno va a lavorare in un altro paese, deve poter contare su una continuità contributiva). Inoltre, le aree economicamente più deboli devono poter essere sostenute dalla fiscalità generale (tramite trasferimenti diretti e/o sgravi fiscali, come avviene negli Stati Uniti).
Questo, tuttavia, non è stato il caso dei paesi aderenti all’unione monetaria europea, come denuncia l’autore:
“ La teoria suggeriva che l’Europa non poteva essere un’OCA e che il sogno sarebbe diventato un incubo. La decisione quindi non poteva essere tecnica, doveva essere politica, di quella politica pelosa che dichiara di volare alto, al di sopra della piatta razionalità tecnicistica, e quindi induce al sogno, cioè al sonno, i molti, perché questo è il modo migliore per fare l’interesse dei pochi, di quelli che possono pagare” (p.113)
Come al solito, siccome nil novum sub sole, tutto era già stato visto e descritto, nella fattispecie nella crisi Argentina che tanti dispiaceri aveva causato nei piccoli risparmiatori, grazie anche alla protervia delle banche che li avevano mal consigliati (ma gli economisti non dicevano che “non ci sono pasti gratis”? o forse così diceva la prima legge della termodinamica?), come è descritto nel cosiddetto Ciclo di Frenkel che descriviamo brevemente.
Il primo passo è quello della liberalizzazione dei movimenti capitali e l’adozione di un cambio fisso tra paesi con situazioni economiche disomogenee. In un secondo momento si osserva un afflusso di capitali esteri verso i paesi più “deboli”, che offrono rendimenti più elevati, per finanziare il settore privato. Quest’afflusso stimola una temporanea crescita economica, con un parallelo aumento dell’inflazione e una riduzione del debito pubblico. Tuttavia, un’inflazione più alta rispetto a quella dei paesi più forti, provoca una perdita di competitività (a causa dell’aumento dei costi di produzione) e, quindi, un ingravescente deficit commerciale (a causa delle importazioni).
A un certo punto la situazione viene percepita come rischiosa dagli investitori , e l’afflusso di capitali si arresta. Per ottenere ulteriori capitali (prestiti) i paesi in questione sono costretti ad alzare i tassi di interesse e la situazione situazione si fa sempre più instabile, fino ad innescare una vera e propria crisi debitoria (quello che, relativamente alle aziende private, si chiama insolvenza.
“Se era chiaro che la rigidità del cambio creava dei problemi, se c’era stata la crisi del 1992, perché mai i governi europei hanno deciso di rientrare in questa trappola? […]Di certo tra le motivazioni di questa scelta c’era il Sogno, il grande Sogno europeo, con la “S” maiuscola, ma c’era anche la consapevolezza del fatto che, in economia, le scelte sbagliate fanno vincitori e vinti” Pag 102
La moneta unica toglie l’unica arma a disposizione dei paesi più “deboli” per rendere le proprie merci più competitive sul mercato internazionale (almeno rispetto ai paesi dotati di medesima valuta, leggi Germania, in questo caso), che è quella della svalutazione della propria moneta, quindi essi devono “svalutare” i fattori di produzione e, nella fattispecie, quello più facile da svalutare, ossia il costo del lavoro. Ergo, è facile capire chi deve sopportare i maggiori costi di questa scelta.
“Quello che inquieta è il disegno politico di quest’operazione: l’idea che in una democrazia i governanti possano procedere in modo autonomo, prendendo delle decisioni che costringono i cittadini a “fare la cosa giusta” imponendo loro dei costi [..]… Dietro al grande “sogno” europeo si intravede, in realtà un disegno di compressione delle libertà civili ed economiche delle classi subalterne in nome del famoso vincolo “esterno” (Pagg.126-127)
A questo punto appare tutto abbastanza chiaro. Che fare, dunque? I palcoscenici televisivi e le pagine dei giornali abbondano, per la verità, di economisti da salotto o di pifferai di regime che propongono innumerevoli e mirabolanti soluzioni quasi tutte fatte di sacrifici (altrui) e pertanto degne delle immortali parole di Stefano Ricucci[4].
Bagnai, invece ricorre a qualcosa di assai più desueto, ovvero al buon senso, il quale ci dice che, siccome, errare è umano (anche se non di errori si trattò), ma perseverare è diabolico, vi è un’unica soluzione possibile, dalla quale discendono tutte le altre, ovvero. “ Uscire dall’euro, come affermazione di sovranità e di democrazia, riprendendo il controllo della politica valutaria “
Dopodiché si potranno fare tante altre cosette, per uscire dalla shock economy (ricordate il nanetto di Chicago, amico di Pinochet?) nella quale siamo stati volutamente cacciati, come
“-Ristabilire il principio che la Banca centrale è uno strumento del potere esecutivo e non un potere indipendente all’interno dello Stato
-Riprendere il pieno controllo della politica fiscale, cioè ripudiare gli obiettivi di pareggio di bilancio che costringe a rispondere alle crisi con tagli e aumenti delle imposte
– Adottare una politica di scambi con l’estero che tenda all’equilibrio della bilancia dei pagamenti
– Ristabilire la separazioni delle funzioni tra banca commerciale e banca d’affari (abolita dalla riforma bancaria del 1994)”
Insomma, liberata dai vincoli e dalle pastoie del “ce lo chiede l’Europa”, la politica potrebbe promuovere tante simpatiche iniziative per un’economia sostenibile, quali:
“La riqualificazione del patrimonio pubblico (scuole, patrimonio artistico e archeologico)
La riqualificazione del territorio (rischio idrogeologico, recupero di terreni agricoli)
La definizione di un piano energetico nazionale volto al contenimento degli sprechi e alla conversione energetica con l’obiettivo di ridurre la dipendenza da fonti fossili
Implementare le reti di trasporto locale.
Promuovere le filiere commerciali corte, che favoriscono i produttori locali
Questo è un programma che sottoscriviamo in pieno, ed è inutile dire che per attuare una qualsiasi politica che abbia un senso, è necessario uscire dallo stato di perenne emergenza che i “vincoli esterni” ci impongono. Anche se abbiamo già scritto altrove[5] che il capitalismo morente agisce con una “pompa aspirante” che opera tramite la politica per estrarre le ultime gocce di valore di scambio dagli stremati cittadini, onestamente, quello che sta accadendo ora, supera le nostre previsioni. Specialmente se pensiamo all’esperimento sociale che sta avvenendo sotto i nostri occhi, quello che questo raccapricciante mostro, chiamato Unione (sic!) Europea sta compiendo con la sfortunata Grecia. I moderni e anaffettivi burocrati dal volto pulito, i Draghi, i Monti, i Van Rompuy, i Barroso, ci ricordano quella “banalità del male” già incarnata in passato da personaggi altrettanto grigi come Adolf Eichmann. Ma forse il concetto di Untermenschen non è solo un ricordo del passato.
Pier Paolo Dal Monte
[1] Vedi il breve saggio di Walter Benjamin, Il capitalismo come religione
[2] Truly, my philanthropic friends, Exeter Hall philanthropy is wonderful; and the social science — not a “gay science,” but a rueful –which finds the secret of this universe in “supply and demand,” and reduces the duty of human governors to that of letting men alone, is also wonderful. Not a “gay science,” I should say, like some we have heard of; no, a dreary, desolate and, indeed, quite abject and distressing one; what we might call, by way of eminence, the dismal science. Thomas Carlyle, Occasional Discourse on the Negro Question
[3] Cfr. Renè Daumal, La conoscenza di sè
[4] Sso’ ttutti bboni a ffa er froscio cor culo de l’antri
[5] Vedi: “La soluzione finale: il mondo come merce e come mercato, in Debiti pubblici, crisi economica e decrescita felice, 2012