L’emigrazione clandestina è una piaga che riguarda più o meno ogni Paese africano. Le ragioni di questo fenomeno sono molte, ma tendiamo spesso a valutarle solamente dal nostro punto di vista, quello occidentale. Da una parte ci sono quelli che fanno discorsi assurdi, e parlano della possibilità di chiudere le frontiere, o peggio, di sparare a chiunque le voglia oltrepassare senza permesso; dall’altra si propone l’impossibile e insensata opzione di accogliere chiunque voglia trasferirsi in Europa. Soluzioni che, in ogni caso, prendono sempre e solo in considerazione la parte finale del problema: il come gestire le migrazioni. È vero, oggi è (per fortuna) impensabile un mondo in cui non sia possibile spostarsi da un Paese all’altro, ma è fondamentale capire come ridurre la portata di un fenomeno che, come le migrazioni forzate e clandestine, causano non poca sofferenza.

Dei progetti supportati dal Wwf che ho avuto modo di toccare nel mio viaggio senegalese, la cosa che mi è piaciuta maggiormente è stata quella di volere rendere indipendenti le persone coinvolte. Uno di questi, però, mi ha mostrato qualcosa di diverso: non è stato pensato per persone che vogliono evitare di fuggire dal proprio Paese, ma per coloro che sono rientrati, magari dopo avere speso un po’ di tempo in Europa o altre zone del mondo più “avanzate”. Ce ne sono più di quante si pensi, di persone che fanno ritorno a casa, e il motivo di questa contro-tendenza è dovuto un po’ alla crisi economica dei Paesi europei, un po’ all’aver capito che la società dei consumi, alla fine, è meno interessante o vantaggiosa di quanto sembri sulle emittenti tv francesi che si vedono in tutto il Senegal.

L’associazione Katoul, che raggruppa e aiuta a reinserirsi i giovani rimpatriati di Kayar, è un esempio di presa di coscienza della necessità di reinventare un Paese che, per lungo tempo, ha visto migliaia di suoi connazionali andarsene in cerca di fortuna. Penso a Mustafa, un ragazzo incrociato una sera in una casa in cui ero ospite a Dakar: alto, bello, in salute, con una figlia piccola e una tristezza infinita, all’idea di dovere rientrare al lavoro la settimana seguente. Dove? A Vicenza, dove lo attendeva uno squallido appartamentino in cui passare da solo il tempo non speso nella ridente fabbrica veneta che, causa appunto crisi, ormai lo faceva lavorare solo un paio di giorni alla settimana. Ma penso anche e soprattutto a chi è stato più sfortunato di lui, e nel tentativo di andarsene ha addirittura perso la vita (come i 600 ragazzi dispersi in mare, nel 2006, nel tentativo di raggiungere in piroga l’Europa).

L’associazione che ho visitato, in particolare, si occupa di tre famiglie di Kayar che, colpite dalla perdita del padre o del marito durante il tentativo di emigrare clandestinamente, si trovano ora in serie difficoltà economiche. Ma anche del sostentamento dei microprogetti d’artigianato avviati per ridare una professione ai ragazzi rientrati dall’estero. Che, si spera, potranno presto ritrovare la propria dimensione e la propria indipendenza economica senza dovere andare in Paesi sempre più lontani, sempre più in crisi e quindi sempre più ostili.

Andrea Bertaglio

Fonte: GreenMe