Per alcune settimane ho scritto a più riprese questo testo, più volte il suo pensiero mi ha accompagnato a letto, la notte: organizzarne i concetti, argomentare le ragioni che mi hanno portato a scriverlo ha richiesto una riflessione assorbente e complessiva, che mi è concessa in pochi momenti della giornata, dati i miei frenetici tempi di vita.
L’improrogabile sussulto compositivo è nato dopo le due giornate di febbraio del Direttivo Nazionale a Cascina Santa Brera, quando ho notato di essere l’unica donna presente, infatti il Direttivo è composto da soli uomini, di tutte le età, ma solo maschi e gli altri presenti erano mio marito e il presidente del mio circolo; non ho potuto non farlo notare ed ho avvertito che loro stessi, già al momento dell’elezione, avevano dovuto accettare il dato di fatto con un certo imbarazzo. Perché non c’erano donne?
Dal 14 aprile 2013 il Direttivo Nazionale del Movimento per la Decrescita Felice vede la presenza di tre donne: Lucia Cuffaro, Barbara Gallizioli e Elisabetta Petrocchi, tre persone meravigliose che porteranno certamente l’energia e la creatività che servono per questo importate ruolo.
La decrescita è femminile, passa per le mani di chi ha un enorme patrimonio di competenze, ancora non del tutto codificate, che riguardano la cura delle persone e di tutti gli esseri viventi: ha a che fare con l’azione materna dell’accoglienza e della crescita, non in quantità, ma in qualità, del continuo cambiamento per il perpetuarsi della vita. Essere sottoposte a cicli biologici manifesti che richiamano al rispetto di tempi e modi naturali, porta ad avvertire (in modo consapevole e non) il ciclo della vita tutta come un flusso gioioso, in cui ogni cosa è immersa.
I circoli MDF sono pieni di donne, ma i posti di responsabilità sono più frequentemente maschili: mi guardo bene dal ritenere che sia la ripetizione del sistema italiano per la “protezione delle donne”, ma se succede in un’organizzazione di promozione sociale, allora bisogna domandarsi quale sia il problema culturale che l’ha originato e al quale non si è ancora riusciti a dare una soluzione.
Rileggendo alcuni testi di Maurizio Pallante e dopo aver ripreso in mano “La frugale abbondanza” di Latouche, ho cominciato ad affiancare alcune tessere del mosaico in cui il lavoro di cura è il nodo cruciale. Ridurre le ore di lavoro salariato, quindi esterno alla casa, per aumentare il tempo da dedicare all’autoproduzione e alla cura dei familiari è una proposta di modifica di stile di vita che molto gioverebbe a chi è travolto da ritmi operativi frenetici, alienanti, che impediscono di assaporare ciò che si fa, che obbligano a trascinarsi tra un impegno e l’altro senza saperne neppure il perché.
Queste sono le donne nella nostra società, lavorano il triplo e si ammazzano di fatica, si ammalano perché perdono il contatto con la propria parte “selvaggia”, sono insoddisfatte perché non rispondono ai dettami dell’immaginario dei media, sono disorientate perché vorrebbero guardare figli, mariti, genitori con occhi amorevoli e scoprono di non avere più la forza per farlo. Sono le donne che devono fare due o tre lavori quasi abbandonando la famiglia, perché sono le uniche a percepire un reddito che qualche volta nemmeno basta per mangiare. Sono le mie amiche, che vorrei a volte salvare dai neonati che le stanno mangiando, felicemente, ma le stanno mangiando, sono le mamme dei miei alunni e alunne che non riescono a far venire i papà ai colloqui con le insegnanti, sono le colleghe che vorrebbero anche fare un po’ le nonne, eppure dopo 40 anni di lavoro ancora non possono andare in pensione. Sono io, che tra lavoro, Movimento per la Decrescita Felice, sindacato, GAS, figlio e marito e poche volte genitori e suoceri, da anni non ho il tempo nemmeno di pensare a prenotare un biglietto per il teatro, uno dei miei grandi amori. La differenza tra me e le altre risiede nel fatto che in ogni momento della giornata sento una vocina che mi sibila: ”Liberati!”
Ma perché tutto questo proprio alle donne?
Per quanto ci sembri di essere evoluti e emancipati il lavoro di cura ricade sulle spalle delle donne: non voglio dire che nessun uomo faccia nulla o non condivida parte di esso, mio marito, alcuni miei amici cercano, riuscendoci, di essere l’altra metà della cura; ciò significa che si può fare e bene, ma è ancora una piccola cosa; non dimentichiamo che è recentissima la legge sul congedo paterno in Italia. A parole si è attenti alla parità di genere, nei fatti risulta ovvio e naturale che alcune cose le facciano e le pensino le donne. Avere la mente occupata dalla pianificazione della giornata, spesso della settimana, non solo per sé, ma per diverse persone, essere sempre pronte a far fronte a qualsiasi emergenza, queste attività silenziose e continue tolgono lo spazio agli altri pensieri: così quando viene il momento di impegnarsi in associazioni, in politica, in gruppi sociali sul territorio ci si sente sempre inadeguate o troppo oberate.
Allora non basta ridurre il lavoro salariato fuori di casa per avere la partecipazione delle donne, bisogna cambiare il pensiero, l’immagine che si ha di loro e che loro stesse hanno di sé; bisogna pensare agli esseri umani davvero come uguali nella differenza. Non basta il part-time per le mamme per aver rispettato il loro ruolo femminile nella società, non basta diminuire lo stato sociale in favore del tempo privato delle famiglie per vedere più donne partecipare da protagoniste, non da gregarie.
Se asili nido, scuole a tempo pieno e centri diurni per anziani diminuissero di numero, pur liberando il tempo di alcuni lavoratori (ma vi assicuro le pressioni familiari anche inconsce colpirebbero le lavoratrici), non avremmo una dimensione più serena della vita di relazione, non avremmo più donne disposte a partecipare. Queste istituzioni hanno permesso lo sviluppo culturale di molte generazioni, hanno dato la possibilità a famiglie povere di offrire ai figli quelle occasioni e opportunità di cultura che altrimenti non avrebbero nemmeno sognato. In città a misura di automobile gli anziani con qualche problema motorio non avrebbero potuto avere più amicizie diverse dalla cerchia familiare o da qualche volontario di buon cuore. Le scuole a tempo pieno sono ancora oggi il presidio culturale quasi esclusivo dell’integrazione per gli stranieri e per i disabili. Ecco perché in alcune zone d’Italia si è impedito che si sviluppasse questa organizzazione del tempo scuola e si sta cercando di eliminarla del tutto là dove funziona!
Essere uguali nella differenza è un ossimoro, uno sforzo del cognitivo, una complessità così ermetica che non sempre riesco a figurarmi la mappa concettuale che potrebbe aiutarmi a spiegarlo: prima di essere maschio o femmina per tre mesi durante la vita prenatale non siamo né l’uno, né l’altra, siamo entrambe le cose, quindi in noi c’è questo nucleo magmatico, che in seguito si differenzia, sappiamo di avere l’altro o l’altra dentro di noi. A causa della struttura del nostro encefalo, sono pochissime le azioni istintive di cui siamo capaci, tutto il resto è appreso, quindi tutto il resto è cultura, anche la differenza di genere, il comportamento sessuale. A parte l’allattamento, la cura che un padre può dare al proprio figlio è, in potenza, la stessa di quella che potrebbe dare una madre, la cura che un figlio può dare al proprio genitore è la stessa di quella di una figlia: tutto ciò è vero a patto di recuperare quella parte dell’altro “se stessi” che lasciamo assopita, che neghiamo per gran parte della vita. Solo l’esperienza della gravidanza è un momento di apprendimento unico e incomparabile tra i due sessi: essere abitati da un altro essere umano non si può comunicare o insegnare, quindi la potenza generativa femminile è la sola differenza. Non è da poco! Non è da poco, perché anche la terra è femmina, ha la potenza generativa e da essa dipendiamo tutti.
Eppure in questa parte di mondo, per millenni, tutto ciò è stato negato da sovrastrutture culturali che hanno dato tutto il potere fecondante a maschi reali o mitici, divini o materiali, capitalisti o proletari che fossero. L’immagine del femminile si è sviluppata all’ombra, protetta o sfruttata a seconda della necessità, ma mai libera di essere sé, di decidere se procreare o no.
Uno dei problemi della decrescita è anche quello demografico, sembrerebbe non avere nulla a che vedere con le donne: quante risorse servono per l’umanità, quanta umanità può curare la terra o può distruggerla definitivamente? Questo è un argomento su cui ho letto le ipotesi più lucide e quelle più allucinate; ne ho riso a volte, poi ho capito che se le donne fossero davvero libere di gestire la propria sessualità, di procreare consapevolmente, se fossero consapevoli della propria dignità di generatrici, questo non sarebbe un problema, perché per far crescere bambini servono comunità capaci di accudirsi, quindi femminili, che sappiano qual è il loro limite, che sappiano come usare le risorse senza sprecarle, quindi autoregolanti. Le donne sanno quando vogliono e possono essere madri, lo dimostra il fatto che nella nostra società, poco accogliente per la vita e molto attenta al profitto, le nascite sono diminuite, mentre in quei paesi in cui i maschi sono ancora il principio fecondatore e le donne lo strumento della procreazione, le nascite sono in aumento come le morti perinatali e entro il quinto anno di vita.
La decrescita felice non può non fare i conti con la spinosa condizione femminile, con l’immagine culturale della donna; diminuire il potere maschile per riequilibrarlo con la potenza femminile, attraverso la creazione di un gruppo di studio o di una norma come le quote rosa, che spinga a vedere da altrove, che valorizzi anche il silenzio di quelle donne che non si sentono mai adeguate, forse potrebbe dare una svolta anche alla drammatica visione della recessione economica, mostrando come la sobrietà non sia pauperismo, ma ricchezza interiore: se cresco dentro, se mi arricchisco dentro, non ho bisogno di invadere fuori, di mostrare per sentirmi esistere.
Patrizia Mazzola (Mdf Milano)