Da Slow Fish a Genova l’appello per la difesa dei piccoli pescatori artigianali. La pesca industriale ha certamente portato più pesce sulle tavole dei consumatori dei Paesi ricchi ed emergenti, ma pagando un enorme costo ambientale e sociale. Gli accordi per gli accessi delle flotte straniere nelle acque dei Paesi in via di sviluppo si sono trasformati infatti in un saccheggio, spesso senza nessuna supervisione nè monitoraggio da parte dello Stato che ha rilasciato le licenze e da parte di quello di provenienza dei pescherecci. Questo fenomeno si chiama Ocean grabbing e ha gli effetti di un “devastante tsunami” che priva le comunità di pescatori di piccola scala dei loro mezzi di sussistenza. Problema ormai non nuovo, ma l’accaparramento degli oceani e la loro privatizzazione, uno dei temi che più hanno suscitato interesse tra il pubblico internazionale dello Slow Fish di Genova, appena concluso.

Per approfondire l’argomento in un Laboratorio dell’acqua gremito di gente hanno discusso accademici, attivisti e pescatori artigianali. Tante visioni diverse con un punto di vista comune molto forte: l’eccesso di pesca non è determinato dalla mancanza di diritti di proprietà sui mari e sugli oceani, ma dalla cattiva gestione. Il parallelo con un altro fenomeno di accaparramento, il land grabbing su cui si hanno maggiori informazioni, è abbastanza immediato. Stefano Masini, direttore del Settore ambiente e territorio di Coldiretti, parte proprio da questo assunto: «Alla base della privatizzazione del suolo e degli oceani c’è un grave problema di regole, che determina il continuo calpestamento di diritti e l’assoggettamento all’unica legge che conta: il profitto a breve termine».

Concretamente, questa tesi è comprovata dalle parole di Miguel Cheuqueman Vargas, pescatore cileno della comunità mapuche, che nel sud del Paese conta circa 2 milioni di abitanti. La sua è una storia di diritti espropriati in nome di un modello economico neoliberista e i numeri che mostra al pubblico non possono che dargli ragione: «Il Governo cileno ha varato nel 2002 un piano secondo cui il 93% delle risorse ittiche è attribuito alla pesca industriale per la produzione di mangimi e il 7% alla pesca tradizionale per il consumo umano». Alla comunità indigena mapuche non spetta alcunché, e le sue rivendicazioni e azioni di protesta restano spesso inascoltate. Da parte sua Miguel intravede un’unica soluzione: «la nascita di reti e alleanze tra le comunità indigene, i pescatori di piccola scala, i movimenti studenteschi e la società civile».

Seth Macinko dell’Università di Rhode Island illustra come la privatizzazione degli oceani venga spesso presentata dai media come l’unica soluzione possibile al sovrasfruttamento delle risorse alieutiche. «Molti titoli di giornale vogliono farci credere che la privatizzazione dei mari sia una soluzione ambientale alla pesca eccessiva. Spesso usano parole edulcorate per parlare della questione. Ma questi titoli tacciono gli effetti della privatizzazione sulle comunità rurali e costiere. Non dicono dei piccoli pescatori che perdono il fondamentale diritto al sostentamento economico e alimentare. Sono bugie che ci vengono raccontate per promuovere gli interessi della pesca industriale».

Dal Sudafrica, Carsten Pedersen della Ong Masifundise mostra come l’introduzione delle Itq (individual transferrable quotas) abbia già tagliato fuori dai giochi il 90% dei 30.000 pescatori artigianali. «Hanno avuto sui pescatori e sulle loro famiglie l’effetto di un devastante tsunami, escludendoli da subito dal processo di privatizzazione. Ma a queste tempeste dobbiamo prepararci tutti, unendoci alle proteste dei pescatori, perché ci riguardano molto più di quanto saremmo portati a pensare». Gli fa eco Brett Tolley, giovane statunitense che proviene da una famiglia di pescatori del Nord della costa atlantica e fa parte dell’organizzazione Nama. «Ci uniamo ai pescatori per correggere un sistema di rotture che comprende le politiche, i mercati, la scienza e la fiducia. Per farlo, crediamo sia utile trarre ispirazione dai movimenti a sostegno della piccola agricoltura familiare, riprendendone gli slogan e il linguaggio». Sugli Itq sono molto critici anche Marta Cavallé, spagnola della Fundación Lonxanet e Harald Zacarias Hansen, che parlano di un «processo di privatizzazione silenzioso, che non smetterà di monopolizzare le risorse e generare disuguaglianze sociali». Gli oceani hanno molti problemi, è vero, ma da ieri abbiamo molte risposte in più per dire che la soluzione non risiede nella loro privatizzazione, ma piuttosto in una gestione partecipata, che tenga conto di tutti gli attori e che dia voce anche a chi è generalmente inascoltato. Perché “il mare è di tutti”: anche dei piccoli pescatori, anche delle comunità indigene e anche nostro. Non possiamo non interessarcene.

Intanto qualche piccolissimo passo, la Ue lo sta facendo, se non altro in termini di consapevolezza. Il 15 maggio il Consiglio dei ministri europei ha accettato un accordo che limita il quantitativo di pescato che può essere rigettato in mare: pratica considerata poco sostenibile dal momento che la maggior parte dei pesci non riesce in tal modo a sopravvivere.

Franco Brizzo

Fonte: La Stampa Tuttogreen