La storia è sempre la stessa: sviluppo e progresso, non importa come e non importa a quale prezzo. In Brasile, nuovo gigante economico che si prepara ad ospitare Mondiali di calcio e Olimpiadi, la crescita economica sembra ben più importante dei diritti e della vita di migliaia di persone. Che, però, stanno iniziando a ribellarsi.
I popoli indigeni continuano ad essere considerati un “ostacolo al progresso”, e le loro terre fanno gola a imponenti progetti di sviluppo industriale. È quanto emerge dalla nuova ondata di proteste indigene che hanno recentemente investito il Brasile, considerato la “più grande democrazia del Sudamerica”. Secondo Fiona Watson di Survival International, gli abitanti indigeni del Brasile non subivano una aggressione ai diritti fondamentali così massiccia come in quest’ultimo periodo “dai giorni bui della dittatura militare”.
Aggressione che sembra provenire da ogni parte. Da un lato, testimonia la Watson, c’è “una Presidente intransigente, con una visione unilaterale dello sviluppo, orientata a trasformare l’Amazzonia in un polo industriale capace di sostenere la veloce crescita economica del Brasile”. Dall’altro, ci sono 238 tribù determinate a difendere i diritti costituzionali faticosamente conquistati, e a proteggere le loro terre e i loro mezzi di sostentamento per le generazioni future. “Forse non è un caso se, dalla caduta della dittatura del 1985, Dilma Rousseff è l’unico Presidente brasiliano a non aver mai incontrato una rappresentanza indigena”, chiosa l’attivista.
Alla battaglia dei nativi brasiliani si sono uniti in massa anche il movimento studentesco Passe Livre (MPL) e ovviamente il COIAB, l’organismo di coordinamento delle organizzazioni indigene dell’Amazzonia brasiliana: “L’attuale governo sta cercando di imporci il suo stile colonialista e dominatore – accusano i suoi portavoce – Con progetti di legge e decreti, molti dei quali incostituzionali, e ha causato danni irreversibili ai popoli indigeni”.
Uno dei progetti di legge in discussione , ad esempio, vuole proibire l’espansione dei territori indigeni, e colpirà in particolare le tribù che vivono nelle zone agricole meridionali e centro-occidentali del Paese, in gran parte di proprietà di politici membri della potente lobby agricola del Brasile. Che, su quelle terre, possiedono anche allevamenti di bestiame, e coltivano canna da zucchero per la fiorente industria carioca dei biocarburanti (magari destinati all’Europa?).
Ma non è tutto. Come ricorda Fiona Watson, “nello stato amazzonico di Roraima, ricco di minerali, alcuni politici stanno appoggiando un progetto di legge sull’attività estrattiva che, se approvato dal Congresso, aprirà per la prima volta i territori indigeni allo sfruttamento minerario su larga scala”. Sulla sola terra del popolo Yanomami, il territorio indigeno forestale più grande del mondo, pendono infatti 654 richieste di concessioni minerarie. Davi Kopenawa, portavoce degli Yanomami, ha detto a Survival International che le miniere “distruggeranno i ruscelli e i fiumi, uccideranno il pesce, l’ambiente… e anche noi!”.
E che dire del controverso programma di costruzione di dighe idroelettriche in Amazzonia, che fornirà energia (pulita?) a basso costo alle compagnie minerarie pronte a lavorare nei territori indigeni? Se implementato, distruggerà le terre e i mezzi di sostentamento di migliaia dei suoi abitanti nativi.
“L’impunità regna sovrana quasi ovunque – rivela Watson -: Taglialegna e coloni invadono anche i territori formalmente riconosciuti correndo ben pochi rischi di essere arrestati”. Ora, però, “frustrati per non essere stati consultati e arrabbiati per gli attentati ai loro diritti, i popoli indigeni del Brasile stanno reagendo: occupano il Congresso e i cantieri delle dighe, bloccano le linee ferroviarie, reclamato loro terra sacra, fanno lo sciopero della fame, e si suicidano”.
Il Brasile si prepara ad ospitare nell’arco di soli due anni la Coppa del Mondo di calcio e le Olimpiadi, e sta cercando di ottenere un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Di conseguenza, il suo grado di rispetto dei diritti umani sarà valutato attentamente. O almeno questo è ciò che si spera. Nei decenni scorsi, la pressione internazionale e l’opinione pubblica hanno giocato un ruolo chiave nel sostenere i diritti dei popoli indigeni, e anche nella protezione della foresta amazzonica. Anche oggi possono fare molto. Come del resto possiamo fare anche noi, consumatori globali con la possibilità di boicottare tutti quei prodotti, quelle compagnie e perché no tutti quegli eventi che, in barba alle convenzioni internazionali e alla dignità delle persone, passano sopra a tutto e tutti in nome di un progresso che, ormai, resta solamente una parola vuota.
Magari scritta sul motto di una bandiera.
di Andrea Bertaglio
Fonte: Il Cambiamento