“Un pianeta a tavola” il perché di questo libro

da | 24 Apr 2014

La divisione in tre parti del libro era l’argomento stesso a suggerirla, si può dire che nacque con l’idea stessa, e dunque: 1) Com’è fatto il nostro presente alimentare e perché non va bene che sia fatto così? 2) Come dovrebbe esser fatto per andar bene? 3) Perché le cose vanno come vanno e non come dovrebbero andare?

Un punto fermo su cui fin dall’inizio non ebbi dubbi fu che questo non poteva essere un libro scritto per intero a tavolino. Certo, c’era un’importante parte di approfondimento teorico da svolgere, ma tutto va sottoposto alla prova del mondo reale e dunque bisognava anche mettersi in viaggio, constatare di persona la corrispondenza fra la carta stampata e la vita reale. In principio pensavo di fare ciò fin dall’inizio, dunque anche per la prima parte. Pensavo insomma di visitare un po’ di aziende agricole convenzionali, far parlare coloro che fanno agricoltura secondo i dettami di questo presente. Rinunciai quando mi accorsi che il libro si stava gonfiando oltre le mie previsioni e mi trovai costretto a scegliere cosa lasciare e cosa no. Più d’una persona mi ha detto che questo è uno dei libri più completi usciti in Italia sull’alimentazione ma forse è soltanto uno dei meno incompleti perché altrimenti non avremmo scritto un libro ma un’Enciclopedia Treccani agroalimentare. E poiché non era quest’ultimo il nostro scopo mi trovai costretto appunto a selezionare.

Fra le cose cui rinunciai ci fu la ricerca sul campo rivolta all’agricoltura convenzionale. Non la considerai indispensabile innanzi tutto perché è in fondo ridondante mostrare l’esistenza di qualcosa che è ogni giorno, platealmente, invasivamente sotto gli occhi di tutti. Che quella agricoltura esiste ed è ciò che è lo sappiamo bene, inciampiamo in essa tutti i giorni. Mi sarebbe piaciuto interrogare coloro che la sostengono per mostrare l’esilità dei loro argomenti ma infine la degradata realtà che ci circonda la mostra meglio di infinite parole. Un altro motivo fu che qualcosa del genere lo si ritrova già in altri libri (ad esempio nella prima parte di Il dilemma dell’onnivoro di M. Pollan) ed è ovviamente sterile ripercorrere strade che altri hanno già percorso. Feci una sola eccezione, stimolato in ciò da Sergio Simonazzi, una sorta di viaggio all’inferno, con lui nei panni involontari di Virgilio. Ne parleremo più avanti, anche perché non vi fu poi spazio per inserirlo nel libro.

Dove invece considerai irrinunciabile una ricerca sul territorio fu nella seconda parte, il cui scopo è formulare un’alternativa. In quale direzione essa deve muoversi ce lo dicono gli studi di impatto ambientale ma quella teoria è traducibile nel mondo reale? Può funzionare? C’era un solo modo per saperlo: mettersi in viaggio alla ricerca di esperienze concrete che andassero nella direzione prospettata per via teorica. Le avrei trovate? Sì, le ho trovate. Questa esigenza portava con sé un positivo effetto collaterale, quello di gratificare il lettore che, sopravvissuto alla galleria degli orrori della prima parte, affaticato dai grafici e dalle tabelle con cui si apre la seconda, era giunto fin lì e meritava dunque finalmente di incontrare delle pagine più discorsive, di imbattersi in luoghi e persone reali, nelle loro esperienze e nelle loro vite, nelle loro aspettative, nelle loro difficoltà e nei loro successi. Successi, ripeto, perché queste sono esperienze che funzionano.

Anche la terza parte ha una sua componente di esperienze sul campo, di incontri concreti con gente reale, ma a differenza della precedente qui essa non segue bensì precede la riflessione teorica. È l’insieme, il coacervo di resistenze soggettive in cui mi ero imbattuto durante numerosi incontri pubblici avvenuti dopo l’uscita del mio precedente libro e in cui continuo a imbattermi ancora adesso, le resistenze di cui parlo in apertura del dialogo con Luca Menti, lo psicoterapeuta il cui contributo considero uno degli elementi fondamentali di questo discorso. Uno psicoterapeuta? Cosa c’entra? C’entra. Molto. Ma andiamo con ordine. L’argomento della terza parte è, abbiamo detto, cosa si oppone all’alternativa. Se ci si aspettano lunghi panegirici sugli immensi interessi economici delle multinazionali, sul ruolo mefistofelico che esse hanno nello storpiare le decisioni dei governi, sui disastri della globalizzazione si resterà delusi. Non dimentichiamo che, come ho scritto nell’introduzione, il potere delle multinazionali è nelle tue mani. Ecco perché questo libro «parte da te e arriva a te». Perché il principale, forse l’unico ostacolo al cambiamento è nella mente umana. Le due parole di Latouche «decolonizzare l’immaginario» centrano il problema in maniera molto più profonda di quanto, probabilmente, lo stesso Latouche non creda. L’uomo vive in una dimensione in cui l’immaginario ha un ruolo preponderante, e il signor Rossi delle società di massa industrializzate più d’ogni altro. Lo sanno bene i venditori multimediali di patacche. L’unico a non saperlo è il signor Rossi.

Filippo Schillaci