Sostituzione dell’energia
Sorprende che Simonetti, il quale mostra una certa predilezione per il ricercatore Vaclav Smil, non abbia attinto a un suo articolo liberamente disponibile sul Web anche in lingua italiana, ‘Una lezione sulla densità di potenza. Come valutare la dimensione spaziale della transizione alle fonti energetiche rinnovabili‘, non solo più recente di quelli presentati in Contro la decrescita (risale al 2011) ma di fatto quasi incontestabile visto che, a differenza degli altri, riporta dati empiricamente dimostrati sulla densità di potenza delle diverse fonti energetiche. Un po’ scolastico, forse (del resto è una ‘lezione’), ma inoppugnabile.
Smil presenta la densità di potenza delle fonti fossili e delle rinnovabili, giungendo alla conclusione che queste ultime non avranno mai la stessa flessibilità di impiego delle loro colleghe ‘sporche’:
Le conseguenze di tali differenze sono molteplici: modificare l’infrastruttura (determinata dalla densità di potenza) dei sistemi creati nell’arco di più di un secolo per la generazione di elettricità a partire da combustibili fossili non sarà facile. Una civiltà basata sui combustibili fossili ha garantito la fornitura della sua forma più flessibile di energia “scalando le marce”, ossia generando elettricità a densità di potenza più elevate di 1-3 ordini di grandezza rispetto alle densità di potenza con le quali l’elettricità viene utilizzata in case, officine e città. Se dovessimo basarci interamente su fonti di energia rinnovabile ricorrendo agli stessi sistemi urbani e industriali di oggigiorno, nella migliore delle ipotesi potremmo produrre energia con la medesima densità di potenza con la quale essa verrebbe utilizzata. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, dovremmo riuscire a concentrare i flussi diffusi di radiazione solare, vento e biomassa al fine di colmare un divario di densità di potenza di 2-3 ordini di grandezza.
Questa nuova infrastruttura destinata all’energia avrebbe maggiori esigenze di spazio e impedirebbe altre forme di uso dei terreni destinati a celle fotovoltaiche, turbine eoliche o colture arboree specializzate. La maggior parte dei terreni occupati da pale eoliche potrebbe essere destinata contemporaneamente a colture agricole o a pascolo, ma altri tipi di uso sarebbero impossibili. Inoltre le grandi aree coperte da pale eoliche richiederebbero la costruzione e manutenzione di strade d’accesso, nonché la creazione di “zone cuscinetto” inabitabili. Inoltre, in tutti i casi di conversione di energia da fonti rinnovabili sarebbero necessari ulteriori terreni per ospitare le vaste reti di trasmissione destinate a esportare l’elettricità dalle regioni più soleggiate o ventose (o dalle zone adatte alla coltivazione su grande scala di idonee colture arboree) verso i principali centri urbani e industriali.
La conclusione è che queste nuove infrastrutture energetiche dovrebbero coprire aree dalle dieci alle mille volte più vaste delle infrastrutture oggi destinate all’estrazione e alla combustione di combustibili fossili per la generazione di elettricità. Non è certo un’impresa impossibile, ma si tratterebbe di una svolta che presenterebbe enormi ostacoli di natura normativa (valutazione di impatto ambientale delle aree interessate, diritto di passo per le reti di trasmissione e tutti gli inevitabili ricorsi legali che ciò causerebbe), tecnica e logistica.
Fare un maggiore ricorso a fonti rinnovabili di energia può essere auspicabile (principalmente per la percezione di benefici di ordine ambientale e strategico) e il progresso tecnologico renderà questa possibilità sempre più attraente sotto il profilo economico, ma la densità di potenza intrinsecamente ridotta di questi metodi di conversione di energia richiederà un nuovo sistema di fornitura di combustibile e di elettricità in grado di sostituire i metodi oggi prevalenti solo dopo decenni di sviluppo.
Per un decrescente quanto descritto non è una tragedia: si tratta di riprogettare un mondo a bassi consumi energetici, evitando di riempire ogni angolo della Terra di aerogeneratori e pannelli fotovoltaici e di strappare ogni ettaro di terreno agricolo alle produzioni alimentari. Ma se pensi che ‘rallentare non è la soluzione’, allora hai qualche problema in più.
Anche per Smil il rimedio è abbastanza semplice: sostituire le risorse fossili con l’energia nucleare, anche dopo Fukushima. (1) Simonetti, riguardo all’opzione atomica, non si esprime. Da ciò che scrive in Contro la decrescita, tuttavia, si capisce perché abbia preferito per una volta fare a meno di Smil, malgrado avesse dato prova di maggiore obiettività (o, forse, proprio a causa di questo). Ignorando gli avvertimenti del ceco-canadese, Simonetti scrive:
Anche se (e non è affatto scontato) le risorse dovrebbero esaurirsi in un futuro più o meno prossimo, non c’è alcuna ragione di credere che questa debba essere la fine della civiltà così come la conosciamo, la ‘morte dell’industria’. Si tratterà, piuttosto, di un passaggio graduale da un tipo di impiego energetico a un altro, nel quale l’umanità potrà, una volta di più, dare prova delle sue doti di adattabilità e inventiva. (pag. 64-65)
Smil (e non solo) ci dice invece che non basta la sostituzione tout cort delle fonti fossili con quelle rinnovabili, pena il ridimensionamento di 2-3 ordini di grandezza della società umana.
Simonetti arricchisce il commento con una chiosa – in realtà ripresa pari pari dall’articolo di Smil del 2006 – che si rivela un boomerang per la tesi che difende:
A partire dallo shock petrolifero del 1973, l’Occidente ha sviluppato in brevissimo tempo sistemi di risparmio energetico altamente efficaci, e sono stati proprio questi a indurre l’OPEC a metter fine alla politica dell’aumento dei prezzi (come ammonì all’epoca Yamani, ministro del petrolio saudita: aumentare i prezzi sarebbe servito solo ad affrettare il momento in cui l’Occidente avrebbe imparato una buona volta a fare a meno del petrolio, e quest’ultimo se ne sarebbe restato intatto sottoterra per sempre). (pag. 65)
Come tutti bene sanno, le cose sono andate un po’ diversamente. È vero, la politica dell’OPEC ha favorito lo sviluppo dell’efficienza energetica, ma non per emanciparsi dal petrolio, solo per razionalizzarne lo sfruttamento, con il risultato che oggi l’Occidente ne consuma molto più. Una conseguenza del cosiddetto ‘paradosso di Jevons’, dal nome dell’economista Stanley Jevons, tale per cui, in una società basata sulla crescita economica, gli effetti del risparmio energetico vengono vanificati. Simonetti ha preferito menzionare Jevons solo in una nota al testo (pag. 240) per ricordare i suoi errori sulle previsioni di consumo di carbone:
Si comincia con Jevons, che a suo tempo escluse come impensabile la possibilità di sostituire qualche altro combustibile al carbone; pochi decenni dopo, il consumo di petrolio aveva già superato il carbone. A. Madison… ricorda opportunamente che Jevons sbagliò non solo perché sottovalutò le possibilità di sostituzione tra input, ma anche perché sopravvalutò enormemente la crescita dei consumi.
Riecco il boomerang tornare indietro e ritorcersi contro chi lo ha inopinatamente scagliato. Come spiega Smil nell’articolo del 2011, il petrolio ha sostituito il carbone grazie non solo alla maggior densità energetica dei suoi derivati (22-25 MJ/kg per il carbone bituminoso contro 42 MJ/kg dei prodotti raffinati), ma anche in virtù dell’estrema facilità di trasporto dovuto alla densità volumetrica, che lo rende di gran lunga preferibile al gas (35 MJ/m3 per il gas contro circa 35 GJ/m3 del petrolio) – secondo la IEA, solamente il 15% del carbone prodotto nel 2010 è stato commercializzato, contro il 31% del gas naturale e il 65% del petrolio.
Ma a oggi non esiste alcuna fonte capace di vantare le stesse caratteristiche di energia e versatilità; non certo le rinnovabili, come abbiamo appena visto. L’idrogeno, decantato nel recente passato come fonte pulita che avrebbe inaugurato una nuova società ecologica, ha la più alta densità di energia gravimetrica di ogni altro combustibile (143 MJ/kg), ma la sua densità volumetrica è pari ad appena 0,01 MJ/l, mentre quella del kerosene, ad esempio, è di 33 MJ/l, un valore più elevato di 3300 volte; inoltre l’idrogeno non si trova allo stato puro in natura, per cui occorrono dispendiosi procedimenti energetici per separarlo dagli elementi a cui si lega.
Ma, soprattutto, rispetto all’epoca di Jevons (la seconda metà dell’Ottocento), quando esistevano ancora sterminate terre vergini ignote all’uomo bianco e le esplorazioni minerarie cominciavano appena a penetrare in profondità le viscere del pianeta, il mondo è stato scandagliato in lungo e in largo, con trivellazioni che in alcuni casi (come quelle intraprese dai sovietici nella Penisola di Kola) hanno persino superato i dodicimila metri. Se esiste qualche misteriosa risorsa non sfruttata, essa si troverebbe in quelle poche zone del pianeta ancora poco esplorate in profondità – come i fondali oceanici o la piattaforma antartica – tali per cui i costi economici, energetici, ambientali e umani farebbero decisamente riflettere sull’opportunità di sfruttarla. Procedimenti non convenzionali, come la fusione nucleare, sono destinati a rimanere imprigionati nella camicia di forza dell’EROEI, dal momento che difficilmente l’energia estratta – sempre che sia possibile ottenerne: è dagli anni Cinquanta che tutti i progetti sono rimasti allo stadio teorico – potrà mai superare ampiamente quella impiegata per fondere i nuclei di idrogeno.
Liberi pertanto di credere che esista una fonte qualitativamente pari o superiore al petrolio, ma si tratta appunto di fideismo – o di wishful thinking, se preferite – privo di fondamento scientifico. Come vedremo nella prossima puntata, storicamente le fonti fossili hanno già sbaragliato chi si proponeva a gran voce come loro sostituto.
(1) Vaclav Smil, “Japan’s Crisis: Context and Outlook,” The American: Journal of the American Enterprise Institute, April 16, 2011