Totò Delfina, Charlie Hebdo e la vera libertà

da | 26 Gen 2015

Napoli, 24 gennaio 2015

Cara Delfina,

della rivista satirica Charlie Hebdo non sapevo quasi nulla fino al giorno in cui i due fratelli Kouachi non hanno sterminato i suoi redattori. Sapevo solo che aveva pubblicato alcune vignette satiriche su Maometto e le fazioni estremiste dell’Islam avevano giurato di fargliela pagare. Mi ero limitato a pensare che fosse una grave mancanza di rispetto offendere i sentimenti religiosi di chiunque e che, per di più, fosse anche inopportuno politicamente ferire nel loro amor proprio i musulmani, in considerazione del fatto che da quasi un secolo, e con un’intensità crescente negli ultimi decenni, i paesi occidentali li umiliano, approfittando della loro soverchiante forza militare ed economica per invadere con i loro eserciti alcuni stati, rovesciarne i governi e sostituirli con governi fantoccio, suscitare conflitti interni tra fazioni religiose e gruppi etnici rivali, sterminare le popolazioni, bombardarle, affamarle, assetarle, imprigionare coloro che non si sottomettono e oppongono resistenza, torturarli in violazione di ogni trattato internazionale. Ma non avrei mai pensato che sarebbe scoppiata una tragedia sconvolgente come quella a cui ho assistito la mattina del 7 gennaio, aprendo la pagina di un giornale on line e vedendo due uomini col passamontagna, vestiti di nero, uccidere a sangue freddo con una raffica di mitra un poliziotto ferito che giaceva inerme sul marciapiedi. Ed era solo l’epilogo di un’azione di guerriglia iniziata da qualche decina di minuti con l’irruzione dei due armati nella redazione del giornale satirico e con la strage dei suoi redattori.

In Europa ci sono stati tre tipi differenti di condanna di questo sanguinoso attacco. La condanna delle persone come te e me, che abbiamo improntato il nostro codice etico alla nonviolenza e non solo riteniamo che nessuna motivazione, eccetto la legittima difesa, possa giustificare l’omicidio, ma non accettiamo nemmeno qualsiasi forma di sopraffazione, dominio, prepotenza, coercizione, almeno tra gli esseri umani. Un comportamento che tu estendi a tutti i viventi e pratichi anche con l’alimentazione vegana, mentre io non sono ancora così coerente. Tuttavia, lo dico a mia parziale discolpa, gli allevatori e i macellai dovrebbero cambiare mestiere se la maggior parte delle persone dovessero dare ai loro redditi un contributo analogo al mio. Per quelli come noi l’unica via di uscita dalla spirale d’odio e di morte che insanguina il mondo in questa fase della storia qualitativamente non diversa dalle precedenti, ma non paragonabile ad esse per la quantità dei morti e l’ampiezza delle distruzioni causate della potenza tecnologica raggiunta, è la conversione alla nonviolenza nei rapporti tra gli individui e tra i popoli, è il riconoscimento che tutti gli esseri umani hanno gli stessi diritti e le stesse esigenze, che l’odio suscita odio e l’empatia suscita empatia. È molto difficile che ciò avvenga, ma non c’è altro modo per uscire da una dinamica distruttiva che si allarga giorno per giorno e tende a coinvolgere tutta l’umanità, che peggiora e rende più insicura la vita di tutti, da cui nessuno uscirà vincitore, ma tutti verranno sconfitti.

Il secondo tipo di condanna è stato accompagnato dalla precisazione che non ci si può indignare solo quando sono i musulmani a uccidere dei civili occidentali. Ben maggiore è il numero dei civili musulmani che vengono uccisi dalle armi molto più potenti e sofisticate utilizzate dagli eserciti dei popoli occidentali. Senza, tra l’altro, rischiare la vita di nessun soldato in scontri armati sul terreno, perché vengono telecomandate, come nei videogames, da postazioni al sicuro a decine di migliaia di chilometri di distanza. Perché il sistema mediatico globale dà tanto spazio agli attentati che colpiscono i civili nei paesi occidentali e non ne dà altrettranto quando a essere uccisi sono i civili nei paesi arabi? È sulla base di una motivazione etica che l’ex presidente francese Sarkozy ha partecipato in prima fila alla gigantesca manifestazione organizzata a Parigi dopo l’uccisione degli autori delle stragi nella redazione di Charlie Hebdo e nel supermercato kosher, proprio lui che ha ordinato l’attacco militare alla Libia in cui, oltre a un numero imprecisato di cittadini, è stato ucciso Gheddafi e il paese è precipitato nel caos?

In realtà il significato politico di quella manifestazione, espresso dallo slogan “Je suis Charlie”, gridato dai manifestanti, esibito in centinaia di migliaia di magliette, appeso alla Tour Eiffel nella variante “Paris est Charlie”, metteva in evidenza il fatto che la strage, oltre a suscitare la pietà umana nei confronti delle vittime e la condanna degli assassini, veniva considerata un attacco alla libertà di stampa, che è la versione pubblica della libertà di parola, il fondamento delle libertà civili conquistate dalla Rivoluzione Francese. Secondo i manifestanti, l’uccisione dei redattori di quel giornale era in realtà un attacco al diritto di esprimere liberamente ciò che si pensa, che costituisce il vanto principale della civiltà europea nei confronti del resto del mondo, attuato proprio nel luogo del mondo e nella capitale dello Stato in cui quel diritto si era affermato. Quell’attentato era una tragica manifestazione del livello di durezza raggiunto dallo scontro tra due civiltà, una tollerante, razionalista e laica, l’altra fanatica, oscurantista e illiberale. Nel giro di 24 ore i negozi e i mercati sono stati invasi di centinaia di migliaia di magliette con la scritta “Je suis Charlie” e centinaia di migliaia di persone le hanno acquistate. Un’unanimità così compatta, immediata e totale suscita in me una istintiva diffidenza. In particolare, le divise liberamente scelte mi fanno più paura di quelle imposte, perché un’imposizione suscita sempre qualche reazione di rifiuto, o quanto meno forme di accettazione non convinte, ma se la divisa uno se la mette da sé, senza che nessuno lo obblighi, lo fa con convinzione. Così sono andato a vedere su internet quella rivista assurta a simbolo della libertà conculcata. In una copertina, sotto il titolo “Il film che incendia il mondo musulmano” si vede la caricatura di Maometto nudo a pancia in giù, che mostra il sedere a un regista e, rifacendosi a una scena del film del 1963, Il disprezzo, di Jean-luc Godard, imitando Brigitte Bardot, dice: “E le mie natiche? Ti piacciono le mie natiche?”. In un’altra pagina è disegnato, sempre nudo, da dietro, in ginocchio con la faccia a terra, nella tipica posizione di preghiera dei musulmani, con l’ano coperto da una stella e la dicitura “È nata una stella”. In un’altra copertina la caricatura di un imam cerca di proteggersi da una raffica di mitra (sparata da chi?) col Corano e dice: “Il Corano è una merda. Non ferma le pallottole”. Anche la religione cattolica è presa di mira. In una copertina, una caricatura di Gesù, effeminato e biondo, con i fori dei chiodi nelle mani e nei piedi bene in vista, sodomizza la caricatura di Dio Padre mentre viene sodomizzato da uno dei vertici di un triangolo che racchiude un occhio e simboleggia lo Spirito Santo, come viene precisato per iscritto a scanso di incomprensioni. È questa la libertà di parola e di stampa che rappresenta la massima conquista della civiltà occidentale? È questa la satira, che castigat ridendo mores? Quale critica corrosiva esprimono queste vignette? Quali comportamenti, quali prese di posizione politiche ridicolizzano? Quali mali perpetrati nel nome di Allah o del Dio cristiano denunciano? Facessero almeno ridere. Per me la parola libertà ha un significato nobilissimo che non ritrovo in queste applicazioni. Meno che mai ci trovo il senso degli altri due nobilissimi concetti di uguaglianza e fraternità, che sono le conquiste irrinunciabili della Rivoluzione Francese di cui noi europei possiamo a ragione vantarci. Le caricature degli arabi hanno le stesse caratteristiche grafiche con cui la propaganda nazista rappresentava gli ebrei: esseri pericolosi, viscidi, turpi, che nei lineamenti fisognomici repellenti rispecchiano la loro perfidia interiore. No: je ne suis pas Charlie. Non confondo la libertà con la liceità di fare ciò che si vuole al di fuori di ogni regola. Ho imparato da Kant che la libertà ha dei limiti, che l’esercizio della mia libertà  non può impedire o limitare l’esercizio della libertà da parte degli altri. Conosco il senso della solidarietà e della fratellanza, rispetto tutti gli esseri umani perché vedo riflesso in ciascuno di essi me stesso, provo il sentimento della compassione nel suo significato etimologico, sopratutto nei confronti dei più deboli, mi ripugnano la sopraffazione e la volgarità. Esercito le mie modeste capacità di satira nei confronti degli abusi dei potenti, non della fragilità degli ultimi, soprattutto se la loro miseria e le loro sofferenze sono causate dall’avidità e dalla prepotenza con cui il 20 per cento dell’umanità, di cui faccio parte e fanno parte i manifestanti che hanno marciato a Parigi scandendo lo slogan “Je suis Charlie”, si appropria dell’80 per cento delle risorse della terra.

Mi è capitato di vedere in internet una faccia di legno, totalmente inespressiva, che limitandosi a socchiudere e richiudere impercettibilmente le labbra di una bocca tagliata in linea retta, sosteneva che mentre i giornali d’informazione per svolgere la loro funzione devono autolimitare la loro libertà di parola, evitando di insultare, offendere, ridicolizzare, anche in forme che non si configurino come reati penali, i giornali satirici hanno il diritto di esagerare. Il famoso droit d’exagérer che fornisce la luce al faro con cui la civiltà occidentale illumina il mondo. Detta così può sembrare una battuta, mentre in realtà è un’applicazione del rifiuto concettuale del limite, che connota l’hybris insita nel modo di produzione industriale e nella coazione alla crescita, con cui noi occidentali abbiamo devastato il pianeta e abbiamo insegnato ad altri a fare altrettanto. Ma la faccia di legno e tutti coloro che, con uno scatto unanime di fantasia gregaria, si sono ribattezzati Charlie e se lo sono scritto sulla divisa liberamente indossata, difendono davvero il diritto della libertà di parola e di stampa? O sotto sotto, ma neanche troppo, pensano che quel diritto valga solo per chi la pensa come loro?

L’intellettuale ebreo americano Noam Chomsky, in un commento alla tragedia parigina pubblicato sul sito www.informationclearinghouse.info riporta alcuni passaggi di un reportage scritto dal capo dell’ufficio europeo del New York Times, Steven Erlanger. “Erlanger descrive chiaramente la scena dell’orrore. Cita uno dei giornalisti sopravvissuti che racconta: “Era tutto distrutto. Non c’era nessuna via d’uscita. C’era fumo dappertutto. Era terribile. La gente gridava. Era un incubo”. Un altro giornalista sopravvissuto ha raccontato: “C’è stata una forte esplosione e siamo rimasti completamente al buio.” La scena “era connotata da vetri rotti, pareti buttate giù, travi distrutte, vernice bruciata e devastazione emotiva.” Almeno 10 persone sono state uccise dall’esplosione, 20 sono scomparse “presumibilmente sepolte nelle macerie.”

Non è la descrizione dell’assalto alla redazione del Charlie Hebdo, ma un reportage del 24 aprile 1999, pubblicato a pagina 6 del New York Times sull’attacco missilistico alla sede della televisione di stato serba da parte della NATO (ovvero degli Stati Uniti). Non solo la notizia non ha ricevuto il minimo rilievo mediatico e non ha suscitato un’indignazione di massa, ma quell’attacco alla libertà di stampa è stato ufficialmente giustificato dai suoi esecutori  “come un tentativo di indebolire il regime del Presidente della Yugolaslavia Slobodan Milosevic”. Il portavoce del Pentagono Kenneth Bacon rilasciò una dichiarazione a Washington dicendo che “la televisione serba faceva parte della macchina omicida di Milosevic così quanto l’esercito”, per cui era un legittimo obiettivo militare.

Non tutti, Delfina, hanno lo stesso diritto alla libertà di stampa. Ma un diritto che non sia universale è un diritto? Ho paura che, come la risposta all’attentato alle Torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001, sono state l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan, che non c’entravano niente, la risposta agli attentati di Parigi sia un’estensione della guerra dei paesi occidentali ad altri paesi arabi. Spero di sbagliarmi, ma sono molto preoccupato per il futuro dei nostri figli.

Un abbraccio

Totò