Poiché ho dedicato gli ultimi anni alla questione agroalimentare (maniera asettica per dire: quanto pesa sul pianeta il contenuto del piatto in cui mangiamo) moltissimi dei miei quattro o cinque lettori danno per certo che io in questi mesi stia seguendo con la massima attenzione le vicende dell’Expo milanese. E rimangono stupiti quando rispondo loro che invece me ne sto completamente disinteressando. Del perché, forse ne parlerò in un’altra occasione, qui è altro che mi interessa. Perché capita che a volte qualcosa di quel “loro” mondo si faccia fortuitamente strada attraverso la barriera del mio disinteresse e a quel punto (ormai il danno è fatto) non so resistere alla morbosa tentazione di dirne la mia. È accaduto qualche mese fa con lo slogan italiano dell’Expo, in cui giganteggia una parola tronfia e inopportuna ma perfettamente in linea con gli intenti propagandistici e celebrativi del grande baraccone agroalimentare milanese. La parola è «orgoglio». Più esattamente: «orgoglio italiano». Lo slogan giganteggia ovunque, dalle bocche di politici e organizzatori alle borse che vengono distribuite ai visitatori dello stand nazionale. Proprio quelle borse su cui nel maggio scorso un giornalista indiscreto ha notato un’etichetta ben poco vistosa ma eloquente: “Made in India”. Un po’ contraddittorio, lì dove si vanta l’italianità. «Hanno delocalizzato pure l’orgoglio» ha commentato sarcasticamente il ficcanaso.
Ma non è delle caracollanti trovate propagandistiche dell’Expo in quanto tali che qui mi interessa parlare. Vorrei piuttosto metterle a confronto con due o tre cose che ben rappresentano questa loro Italia di cui dovremmo essere “orgogliosi”.
C’era una volta, ad esempio, un sindaco che guardava tutto contento gli ingorghi sulle tangenziali perché «sono un chiaro segno che la produzione funziona». E qualcuno forse ha pensato che non esistesse maniera più chiara di spiegarci quanto crescita del PIL e nostro benessere siano due entità profondamente scorrelate, che insomma con ciò l’autoreferenzialità fanatica e delirante della società della crescita avesse toccato il fondo. Bene, si sbagliava. Notizia ANSA del 14 luglio 2014. Titolo: «Concordia galleggia di nuovo». Bravi, ma andiamo avanti: «“Il progetto [di rimozione del relitto della Costa Concordia]», si legge nell’articolo, «ha contribuito al Pil nazionale con un miliardo di dollari e salirà fino a un miliardo di euro.” Lo ha detto l’ad di Costa Michael Thamm in conferenza stampa all’isola del Giglio.»
Se è vero che il PIL è un indice del nostro benessere, non si capisce allora che senso abbia avuto mettere sotto processo i responsabili della tragedia, trattarli come volgari criminali anziché conferire loro le onorificenze che meritano. E non si capisce come si continui a chiamarla tragedia viste le benefiche conseguenze. Si capisce invece come mai in quei giorni sull’isola del Giglio ci fossero turisti che si facevano fotografare, allegri e sorridenti, davanti al relitto-tomba della nave e come ci fossero giornalisti compiacenti pronti a pubblicare quelle gioiose immagini.
Il cinismo esplicito della vanteria di Michael Thamm potrebbe aprire un vasto discorso su una società che proclama a gran voce il rispetto della vita ma che nella realtà si mostra intransigente nel tradurre i proclami in fatti soltanto quando si tratta di costringere un malato terminale a godersi l’agonia fino all’ultimo istante. Potrebbe, ma gli obiettivi di questo articolo non sono così vasti.
Passiamo allora a una seconda notizia, risalente a due anni fa, che ben si accompagna alla precedente. L’antefatto risale a un anno prima: estate 2012, in non so più quale città italiana. Un padre esce di casa con il figlio; programma della mattinata: scaricarlo all’asilo e poi andare in ufficio. Ma lungo la strada se ne dimentica e va direttamente in ufficio. Il bambino rimane per quasi tutta la giornata nell’automobile parcheggiata sotto il sole dentro la quale la temperatura diventa ben presto intollerabile. Quando il padre si ricorda di lui è ormai tardo pomeriggio ed è troppo tardi, il bambino è morto.
Nel 2013 l’uomo si fa promotore di una iniziativa: una petizione per una legge che renda obbligatoria l’installazione sulle automobili di un dispositivo che segnali la presenza di una persona all’interno quando gli sportelli vengono chiusi. Una tale legge, dichiarò l’uomo, potrebbe salvare molte vite. E subito ci fu un plauso generale. Molti lo elogiarono e molti firmarono. E sono questi che mi interessano, perché il promotore dell’iniziativa mi sento ancora di scusarlo; in fondo egli deve affrontare giorno dopo giorno, anno dopo anno, la più grande tragedia che possa capitare a un padre, quella di essere responsabile della morte del proprio figlio. Qualcosa doveva pur inventarsi perché quei giorni, quegli anni gli risultino sopportabili, qualcosa che gli dia l’illusione di aver posto rimedio, di aver espiato. Ma tutti gli altri, tutti coloro che senza essere nella sua situazione, non hanno percepito l’allucinata follia di questa proposta, facendola propria, elogiandola, no, essi non hanno scusanti. Io non lo elogiai, tuttavia – e nonostante quanto ho appena scritto – fui tentato più volte di firmare la sua petizione, perché sì, in una cosa quell’uomo ha ragione: in questa Italia dove nessuno ha occhi che per il proprio cosiddetto “smartphone”, una simile legge potrebbe effettivamente salvare delle vite. Ma ne fui tentato con una consapevolezza: affermare ciò equivale a dire che in una sociocultura in cui un genitore ha bisogno di un trabiccolo elettronico che gli ricordi l’esistenza del proprio figlio, ormai non c’è nulla da salvare. Aderire con consapevolezza a quella iniziativa significa esprimere la più irrevocabile condanna di questo “loro” mondo.
Abbiamo con ciò gustato qualche piccolo assaggio di quell’Italia a proposito della quale i dirigenti italiani dell’Expo farneticano di orgoglio. Il che è poi a ben pensarci anche uno dei molti motivi per cui lascio che essi vadano per la loro strada senza degnarli di alcuna attenzione.
Ma, tornando alle borse italiane-indiane dell’Expo, una cosa positiva è doveroso dirla. Non si può passare così in sordina, come quel malevolo giornalista ha fatto due mesi fa, il fatto che esse siano di tela e riutilizzabili, non di plastica usa e getta. Vi par poco? Alla fine, una grande cosa di cui andare orgogliosi ce l’hanno davvero. O forse è solo che nessuno è perfetto?
Filippo Schillaci