Un gruppo di lavoro sulla transizione agroalimentare (prima parte)

da | 23 Ott 2010

Si sta formando all’interno del Movimento per la Decrescita Felice un gruppo di lavoro sulle problematiche legate all’alimentazione. Il testo che segue, che sarà pubblicato suddiviso in tre parti, fornisce un quadro generale delle tematiche che il gruppo tratterà e dei suoi orientamenti. Ogni proposta di collaborazione, anche da parte di persone esterne a MDF, è naturalmente gradita e può essere inviata al coordinatore del gruppo Filippo Schillaci (filipposchillaciATyahoo.it).

Premessa

Il primo rapporto, il più istintivo e immediato che abbiamo con il mondo è quello con l’aria che respiriamo. E già quello è oggi un rapporto malato. Subito dopo viene il rapporto col cibo, ovvero con la risorsa che soddisfa l’altra nostra esigenza fondamentale: nutrirci. E anche questo è ormai da tempo un rapporto malato, come lo è ogni altro aspetto del nostro rapporto col mondo.
La parola transizione ricorre con sempre maggiore insistenza a indicare la via verso il superamento di questa situazione ormai conclamata e pandemica. Ma quanti si rendono conto dello spessore primario che le nostre scelte alimentari hanno nel determinarla? Parliamo dunque di transizione agroalimentare. E parliamone perchè essa ha un posto decisivo in qualunque progetto di transizione complessiva che vada verso una riduzione progressiva dalla dipendenza dalle fonti fossili e verso un più sano rapporto fra l’uomo e tutto il resto della biosfera.

Situazione attuale

Zootecnia e pesca. Nel corso dell’ultimo secolo si è verificato, fra i popoli dell’occidente industrializzato, un progressivo spostamento dei costumi alimentari verso i prodotti di origine animale, che ha comportato uno sviluppo abnorme della zootecnia, ovvero di una fra le più devastanti attività produttive che mai siano esistite. In Italia il consumo di carne si è triplicato negli ultimi 50 anni, in Cina si è decuplicato. Sul pianeta vivono oggi 1 miliardo 383 milioni di bovini che costituiscono il 20% della biomassa animale terrestre. La zootecnia occupa il 30% delle terre emerse e il 78% dei terreni agricoli. E’ la principale responsabile della distruzione delle foreste primarie, abbattute in gran parte per far fronte all’esigenza di sempre nuovi pascoli. E’ uno dei maggiori consumatori mondiali di acqua (per produrre 1 Kg di carne rossa ne occorrono 15.500 litri) e uno dei maggiori responsabili della produzione di gas serra (18% delle emissioni mondiali contro il 14% del settore dei trasporti). Il pascolo è uno dei maggiori fattori di degrado del suolo e, nelle zone aride, è la principale causa dell’avanzamento dei deserti. Nel corso degli ultimi anni si sono moltiplicati gli allarmi da parte della FAO, dell’IPCC, del World Watch Institute, di Greenpeace, dell’UNEP, organismo dell’ONU per l’ambiente, dell’UBA, agenzia tedesca per l’ambiente, di personalità come Nicholas Stern, Jeremy Rifkin e altri. Nessuna azione politica è però stata intrapresa e il disastro va avanti incontrollato [1] [2] [4].
Parallelamente si è verificato uno sviluppo altrettanto abnorme della pesca, che ha assunto anch’essa metodi da industria intensiva ed è riuscita in un’impresa fino a pochi decenni fa ritenuta impensabile: spopolare gli oceani. “Le Nazioni Unite riportano che tutte le 17 aree mondiali più sfruttate per la pesca hanno raggiunto o superato i loro limiti naturali. Oggi ci sono circa 13 milioni di pescatori nel mondo. 12 milioni usano metodi tradizionali catturando circa la metà del pescato mondiale. Il restante milione utilizza 37.000 pescherecci industriali ed è responsabile dell’altra metà delle catture. Le innovazioni industriali permettono ai pescatori di assicurarsi dall’oceano dall’80 al 90% di una data popolazione ittica in qualsiasi periodo dell’anno. Il rapido spopolamento degli oceani mostra ormai pienamente i suoi effetti. Tra il 1970 e il 1990 la flotta da pesca industriale mondiale è aumentata del doppio rispetto al tasso di pesca globale: sempre più barche che pescano sempre meno pesci. Ci si potrebbe chiedere se l’acquacoltura o l’allevamento ittico riducano l’impatto sugli oceani causato dai metodi distruttivi della pesca industriale. In realtà accade l’opposto. L’acquacoltura viene condotta solitamente nelle aree costiere, dopo aver abbattuto le foreste di mangrovia, che per molti pesci costituiscono l’ambiente primario per la deposizione delle uova. Fino ad oggi sono state abbattute, prosciugate, arginate o interrate circa metà delle foreste di mangrovia del mondo. L’acquacoltura richiede inoltre grandi quantità di acqua pulita, di cibo, e un uso massiccio di antibiotici.” (citato da [6])

Accentramento e industrializzazione della produzione. La produzione di alimenti ha subito lo stesso processo di industrializzazione di ogni altro settore produttivo. L’abbandono generalizzato delle campagne, l’imperiosa deriva imprenditoriale verso la grossa dimensione e la spinta alla massimizzazione della produttività ha portato a una situazione in cui sempre meno persone debbano produrre sempre più cibo. Ne consegue il ricorso generalizzato a metodi intensivi, ad alto impatto ambientale ed energetico in cui il terreno è ridotto al ruolo di supporto inerte della pianta i cui nutrienti sono quasi esclusivamente di origine chimica. L’agricoltura convenzionale è ormai totalmente dipendente dai combustibili fossili. Il gas naturale e il petrolio sono alla base dei fertilizzanti azotati e degli altri composti chimici utilizzati, pesticidi e diserbanti inclusi. A ciò si aggiunge l’alto livello di meccanizzazione, che richiede ingenti quantità di carburante e che ha condotto alle vaste monocolture, le quali costituiscono la forma più estrema di riduzione della biodiversità agraria [11]. La monocoltura è l’agroecosistema più instabile che esista e va costantemente sostenuto con interventi esterni, non solo in termini di concimazioni ma anche e soprattutto di contenimento delle malattie, anch’esso praticato con gran profusione di sostanze chimiche. In questo scenario si è inserito negli ultimi anni il ricorso alle biotecnologie con la comparsa delle varietà “brevettate” che rendono il produttore totalmente dipendente dalle multinazionali agrarie, che sono ormai i veri padroni del nostro cibo.

Accentramento e industrializzazione della distribuzione e della vendita. A un analogo processo sono andati incontro tutti gli altri anelli della “filiera” produttiva agroalimentare, dalla distribuzione fino alla vendita al dettaglio. La grande distribuzione massificata è oggi prevalente rispetto al piccolo negoziante. L’ingigantimento di ogni anello della filiera ha condotto anche a un aumento della distanza fra luogo di produzione e di consumo delle derrate benché questo, in termini di impatto ambientale, sia un aspetto minimo del problema rispetto alla fase produttiva (15% di contributo all’effetto serra nella fase di trasporto contro l’83% della fase di produzione [3]). La distanza produttore-consumatore porta con sé però un effetto ben più grave: la perdita di consapevolezza di quest’ultimo circa la natura del cibo acquistato. Egli compra un cibo che nel lungo percorso (non solo geografico) fatto per raggiungerlo ha perso ogni rapporto con ciò che esso è stato in natura.

Uniformità della disponibilità dei prodotti, nello spazio e nel tempo. Il consumatore, così estraniato dalla natura biologica del cibo che mangia, non trova nulla di strano nell’essere di fronte a un’offerta totalmente uniforme, indipendente dal luogo e dalla stagione. Un’indipendenza artificiosa che oltre tutto è riscontrabile in ogni altro aspetto della vita dell’uomo medio in una società industrializzata e che concorre in maniera inavvertita ma determinante a cancellare ogni percezione del mondo reale. La standardizzazione delle abitudini alimentari è parte di un più totalizzante processo di standardizzazione di ogni aspetto della vita umana.

Aspetti nutrizionali. In Italia si consuma oggi almeno il quadruplo delle proteine di origine animale di quanto ne richiederebbe una dieta onnivora bilanciata. Tali squilibri dietetici sono causa di varie patologie. E’ stato accertato che il 32% dei tumori sono connessi al tipo di alimentazione e in particolare all’eccessivo consumo di cibi di origine animale. Analogo discorso vale per l’obesità, nonché per le cardiopatie, indotte da eccesso di colesterolo contenuto in tali cibi. La scelta vegetariana riduce il rischio di malattie cardiovascolari del 24%. E’ stata osservata una correlazione fra elevato uso di latte e suoi derivati e incidenza di osteoporosi. Morbo di Parkinson e di Alzheimer appaiono correlati a diete ricche di zuccheri semplici, carboidrati raffinati e grassi animali. I prodotti chimici utilizzati nell’agricoltura intensiva inoltre si diffondono capillarmente nell’ambiente e si accumulano nell’organismo producendovi effetti a lunga scadenza che vanno dai danni al sistema nervoso o al fegato fino a varie forme tumorali [5]. Infine, la varietà dei cibi è anch’essa carente poiché si va sempre più diffondendo una sorta di “monofagismo” da fast food stile McDonald’s.

Aspetti culturali. Il rapporto malato e alienato con il cibo è il primo, fondamentale mattone su cui è costruito il rapporto malato e alienato dell’uomo attuale con il mondo. E’ assente nell’uomo delle società industrializzate una cultura ecosistemica della vita e dunque una cultura ecosistemica dell’alimentazione che è l’atto fondamentale attraverso cui la vita si mette in relazione con l’altra vita intorno a sé. Dalla mente dell’uomo industrializzato è scomparsa l’idea stessa di relazione. L’unica forma di relazione che riesce a concepire è ridotta ai meccanici, ripetitivi atti del produrre e consumare. Il cibo non è il frutto di una relazione vitale con un ecosistema ma una merce del tutto indifferenziata da ogni altra, una cosa che si vende e si compra.

Note
[1] Jeremy Rifkin, Ecocidio, Mondadori, Milano, 2001.
[2] Massimo Tettamanti, Raffaella Ravasso, Ecologia della nutrizione, Agire Ora Ed., Torino, 2005.
[3] Christopher Weber e Scott Matthews, Food-miles and the relative climate impacts of food choise in the United States, su Environmental Science and Technology, aprile 2008.
[4] AA.VV., Livestock long shadow, FAO, 2006.
[5] Rachel Carson, Primavera silenziosa, Feltrinelli, Milano, 1966.
[6] AA.VV., Dalla fabbrica alla forchetta (www.saicosamangi.info).
[11] AA.VV., La transizione agroalimentare, Post Carbon Institute, 2009.