Chernobyl, 25 anni di male invisibile

da | 26 Apr 2011

26 Aprile 1986 – 26 aprile 2011: forse qualcuno sperava quest’anno di celebrare in sordina il 25° anniversario del disastro nucleare di Chernobyl. Invece la tragica coincidenza con una nuova altrettanto grave catastrofe avvenuta agli antipodi ha costretto il mondo a una riflessione profonda, a riabilitare alla memoria quel male invisibile che ha pervaso l’Europa e in particolare le città e i villaggi a cavallo tra l’Ucraina e la Bielorussia, i più contaminati dal fallout radioattivo proveniente dal reattore numero 4 di quella che doveva essere la più grande centrale nucleare del mondo, la centrale “Lenin”.

Un male invisibile, quello delle radiazioni, impercettibili, inodori, insapori, che in questi 25 anni è scomparso anche dalle statistiche. Ancora controverso è infatti il numero delle vittime: 2 tecnici della centrale morirono immediatamente in seguito all’esplosione, altre 29 persone, per lo più vigili del fuoco accorsi nei primi istanti sul luogo dell’incidente, spirarono all’ospedale. 65 morti accertati nei primi giorni, 134 tra l’87 e il 2005. Ma sono molti di più. Il gruppo dei Verdi del Parlamento Europeo ha stimato circa 30.000-60.000 morti nel giro di 70 anni dal disastro, Greenpeace ha previsto una cifra ancora più catastrofica: 6 milioni di vittime.

Non si giungerà mai a una conta definitiva, le radiazioni colpiscono gli organi interni causando malattie e tumori difficilmente riconducibili alla contaminazione nucleare. Un’emergenza sanitaria che riguarda circa 10 milioni di persone, attualmente residenti in una zona dove le radiazioni sono superiori alla noma e che continuano ad alimentarsi di prodotti contaminati. Le conseguenze di tale contaminazione sono difficilmente monitorabili e si ripercuoteranno per generazioni.

Tra le azioni più urgenti resta la ricostruzione del sarcofago che imprigiona il reattore numero 4. Progettato per durare 30 anni, da tempo la pesante copertura presenta crepe e fessure dalle quali fuoriescono vapori radioattivi che si disperdono in continuazione nell’atmosfera. Fin dai primi anni ’90 l’Unione Europea si è attivata per reperire i fondi da destinare alla costruzione di una struttura di contenimento in grado di mettere in sicurezza il reattore che contiene ancora il 95% del materiale radioattivo presente al momento dell’incidente.

Il Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-Moon si è recato a Chernobyl pochi giorni fa e ha partecipato ad un incontro a Kiev durante il quale si sono decisi gli stanziamenti per la costruzione del sarcofago. Per i lavori sono necessari circa 750 milioni, l’UE contribuirà con 110 milioni di euro. La cifra rimanente dovrebbe essere messa a disposizione dal governo di Kiev, almeno stando a quanto annunciato dal Commissario europeo per lo sviluppo Andris Piebalgs lo scorso 19 aprile alla conferenza di Kiev.

Mentre l’attenzione del mondo si è spostata in estremo oriente, sono numerose le associazioni, in questi 25 anni a fianco delle popolazioni colpite dalle radiazioni di Chernobyl, che vogliono mantenere vivo il ricordo e soprattutto l’impegno di solidarietà. Soprattutto a fianco dei bambini. Continua l’intensa attività di ospitalità in Italia dei ragazzi bielorussi a scopo di smaltimento delle radiazioni accumulate nel fisico (Help for Children, Aiutiamoli a Vivere, Un sorriso per Chernobyl, Bambini di Chernobyl sono solo alcune delle numerosissime realtà distribuite sul territorio che agiscono da oltre 20 anni per i bambini colpiti).

Greenpeace ha lanciato il sito Generazione Cernobyl http://www.generazionecernobyl.org/public/, sul quale le persone potranno scrivere e condividere il proprio ricordo di Chernobyl accompagnandolo con una foto o registrandolo in un video messaggio. L’obiettivo è ricordare gli effetti che un disastro nucleare può avere sulla vita di tutti.

Perché il male invisibile prenda corpo e si manifesti con tutte le sue tragiche conseguenze agli occhi del mondo. Una lezione che è necessario ripetere, maggiormente dopo quanto accaduto a Fukushima perché, evidentemente, il mondo non l’ha ancora imparata.

Cosa accadde quel 26 aprile 1986

1986. Era fine aprile e quindi un periodo in cui la richiesta di energia era ridotta. Il reattore numero 4 era quasi chiuso per le ordinarie procedure di manutenzione, e quindi quale momento migliore per eseguire un test di sicurezza?

I tecnici russi vogliono verificare se nell’eventualità di un calo di potenza, le turbine sono in grado di erogare energia sufficiente ad alimentare il sistema di raffreddamento per i tre minuti necessari all’attivazione del generatore diesel di emergenza.

È così che il 25 aprile all’una di notte la potenza del reattore viene diminuita per preparare il test e alle ore 14 il sistema di raffreddamento di emergenza del nocciolo viene disinnescato, nonostante i protocolli di sicurezza lo vietino. Il 26 aprile, alle ore 00.28, una manovra dell’operatore fa scendere troppo velocemente la potenza. Il reattore si trova in una condizione di instabilità. L’operatore chiude la valvola di emergenza, l’ultimo sistema di sicurezza che avrebbe dovuto salvare il reattore. Ma la reattività del nocciolo comincia a crescere. Le barre di controllo non riescono più a bilanciarne l’aumento. Ore 01.23: la temperatura del nocciolo aumenta in modo irreversibile, tale da determinare la scissione dell’acqua di refrigerazione in idrogeno e ossigeno. Si rompono le tubazioni di raffreddamento. Il contatto dell’idrogeno e della grafite incandescente con l’aria innesca una fortissima esplosione e lo scoperchiamento del reattore che si solleva in aria come una monetina per poi piombare sull’edificio.

È appena accaduta la più grande catastrofe nucleare della storia.

In una fissione nucleare un atomo viene colpito da un neutrone e si disintegra. I frammenti vengono a formare atomi più piccoli liberando energia e generando altri neutroni. Questi neutroni a loro volta colpiscono altri atomi causandone la disintegrazione e liberando altra energia. Quella stessa caratteristica che rende la fissione nucleare tanto straordinaria per la produzione di grandi quantità di energia è anche la causa principale della sua smisurata potenzialità distruttiva.

Le esplosioni che avvengono nel reattore numero 4 provocano un violento incendio che fa innalzare in cielo un’alta colonna di fumo traslucido. Nell’atmosfera si disperdono oltre 5300 Pbq (Peta-Becquerel) di radioattività che vanno a contaminare il territorio circostante per oltre 100 km di raggio. Una gigantesca nube tossica invaderà nei giorni successivi tutta l’Europa, raggiungendo velocemente anche gli Stati Uniti e l’Asia. Ad avere la peggio saranno quelle zone dove il caso vuole che piova nei giorni successivi al disastro. Quella pioggia così strana e calda che cade sulle campagne è infatti altamente radioattiva. Migliaia di villaggi bielorussi, nel raggio di oltre 30 km dalla centrale, verranno così irrimediabilmente contaminati. Gli strumenti di rilevamento nella Zona registrano un valore di radioattività un milione di volte superiore alla norma.

“Da noi non sarebbe mai potuto succedere” sono le parole che si sentono pronunciare dai responsabili dei piani nucleari di tutto il mondo, che cercano nella tecnologia e nella progettazione sovietica dei limiti intrinseci come causa del disastro. Nessuno riesce a rispondere alla domanda che i russi rivolgono al mondo: “Chi sa spegnere un nocciolo di grafite incendiato?”. Nessuno lo sa, nessuno pensava che un nocciolo di grafite potesse incendiarsi. Nessuno aveva mai lontanamente immaginato che potesse avvenire una catastrofe del genere. Nulla era previsto. Anzi. Regnava, soprattutto nel mondo sovietico, una fiducia smisurata e indiscussa sulla sicurezza delle centrali nucleari. Una certezza talmente ostentata che stride enormemente con quelle che saranno poi le conseguenze dell’“incidente imprevisto”.

(…)

Come il mondo venne a sapere

Il 28 aprile 1986 un dipendente della centrale nucleare di Forsmark (a nord di Stoccolma, in Svezia) si sta recando al lavoro e, come di prassi, mette un piede nel rilevatore di radioattività. Quel giorno il campanello di allarme suona. Si pensa che non si sia attenuto alle norme di sicurezza, invece nella centrale non era nemmeno entrato: la radioattività proveniva da fuori. La Svezia era dotata di un grande equipaggiamento di apparecchi di rilevamento nucleare. L’intero impianto fu evacuato subito. Si cercò forsennatamente la perdita, ma non fu trovata. Vennero radunati tutti i lavoratori della centrale: 700 persone. Le misurarono con il contatore geiger e risultarono tutte contaminate da 5 a 10 volte più del normale livello. Scatta l’allarme. Gli svedesi si mettono in contatto con gli americani i quali pensano ad un esperimento nucleare sovietico sottomarino. Era successo circa 200 volte che gli svedesi rilevassero radioattività al di fuori dei confini Urss. Questa volta, con degli appositi strumenti, appurano che non si tratta di un esplosione nucleare sotterranea. Allora vengono coinvolti i meteorologi per studiare le correnti d’aria. Da giorni le correnti risalivano dal Mar Nero verso la Scandinavia. Mar Nero. Unione Sovietica. Contattano Mosca ma i sovietici non dichiarano nulla di irregolare.

La mancanza di informazioni spinge i servizi segreti americani a indagare con più frenesia. E si scopre che due satelliti spia USA avevano rilevato una nube sul luogo presunto dell’incidente. Ma i conti non tornano: i membri del Congresso vedono delle fotografie del reattore in fiamme mentre a pochi isolati di distanza si svolge regolarmente una partita di calcio. Le redazioni di tutto l’occidente sono in fibrillazione. Deve essere successo qualcosa. Ma cosa? E quando? Come?

La dichiarazione ufficiale arriverà in serata. Il Tg moscovita Uremya (Tempo) alle 21.02 del 28 aprile 1986 legge la dichiarazione del Consiglio dei Ministri: “È avvenuto un incidente alla centrale nucleare di Chernobyl e un reattore ha subito danni. Si stanno prendendo le misure necessarie ad eliminare le conseguenze dell’incidente. Si sta fornendo ai colpiti l’assistenza necessaria. È stata nominata una commissione d’inchiesta”.

Proprio a Chernobyl. E pensare che il nome di Chernobyl doveva diventare famoso per altri motivi. Quella centrale dedicata a Lenin avrebbe dovuto diventare la centrale nucleare più grande al mondo. Il cantiere per la costruzione del reattore numero 5 era già aperto e in quel momento si stavano gettando le fondamenta. Quel reattore non venne più costruito e Chernobyl divenne tristemente famosa per essere il teatro di una delle più drammatiche catastrofi della storia umana.

Tratto dal libro Finché soffia il vento di Chernobyl di Francesca Bellemo

Fonte: Il Cambiamento