Suicidarsi per i debiti: effetto del “male morale”

da | 24 Nov 2011

È l’ennesimo suicidio finanziario, per debiti. Venerdì 18 novembre, di mattina, Giancarlo Perin, impresario edile di 52 annidi Borgoricco in provincia di Padova, si è impiccato nella sua fabbrica, lasciandosi penzolare da una delle sue gru.

Come in tanti altri casi di questo genere, il senso di colpa ha corroso la mente di un altro padroncino: la sua ossessione – raccontano familiari e amici – erano le decine di dipendenti che non era più sicuro di poter pagare regolarmente. Un imprenditore all’antica, per cui il significato della parola “impresa” era autentico, rimandava cioè al rischio che chi vi si imbarca deve accollarsi.

La sua azienda, poi, era molto conosciuta e stimata in paese, e aveva all’attivo una lunga serie di restauri e manutenzioni a edifici storici di pregio. Ora che la crisi economica si era abbattuta anche sul suo giro d’affari, il rischio gli era diventato insostenibile e l’angoscia lo aveva consumato. Con orgoglio, anche questo retaggio di un passato, borghese e contadino, in cui la reputazione aveva un valore, lui si era tenuto dentro il tormento e l’ammontare del debito fino all’atto finale: ha preso una corda da lavoro e si è tolto la vita.

Una lunga scia di sangue è stata sparsa in questi anni nel ventre del ricco ma infelice Nordest. Le cause cinicamente tecniche sono la diminuzione degli ordinativi e la restrizione del credito da parte delle banche, elementi scatenati dalla recessione. Ma recessione fa rima con depressione. Di fondo c’è un malessere che qui si tocca in modo più palpabile: l’identificazione portata all’estremo fra vita e lavoro. Troppi, in questo Veneto che ha venduto l’anima al benessere economico, lavorano troppo e troppo si dannano per la ditta e il fatturato. Sono schiavi, perché gli rimane davvero poco tempo per tutto il resto, che poi è la vita stessa: affetti, passioni, svago, e un po’ di sano e dolce far niente. Un senso di responsabilità eccessivo li porta a inseguire la crescita aziendale per poi ritrovarsi in balìa della banca, e quindi della ciclica crisi di un’economia satura e sovraccarica. Il lavoro si rivela allora per quello che è: una pena, un travaglio, un’oppressione. Una corda che si stringe fino a toglierti, letteralmente, il respiro.

Per evitare queste morti così atroci bisognerebbe pensarle come l’effetto di un male morale: la fede doveristica nel Lavoro, che spinge all’indebitamento per aumentare e poi mantenere il livello di introiti. Seppur mitigata dal bene morale di una coscienza non egoistica come quella del povero Perin, sempre di un male si tratta. Da cui è necessario guarire per invertire la marcia suicida di un’intera società. I tanti piccoli titolari d’impresa suicidatisi in questo scorcio storico sono i caduti di una guerra invisibile che ci coinvolge tutti, e che ci priva del solo vero benessere: lo star bene con sé stessi, anzitutto.

Fonte: www.ilribelle.com