Animali accarezzati e animali mangiati: la relazione contraddittoria con gli animali nella nostra società

da | 16 Ott 2012

Il rapporto tra uomini e animali oggi è complicato sotto tanti punti di vista. Per prima cosa è difficile ammettere che questa contaminazione riguarda molti aspetti della nostra vita. Tra i numerosi macro argomenti che implicano il coinvolgimento degli animali, talvolta a nostra insaputa, ci sono: la sperimentazione (dei farmaci, dei cosmetici, dei prodotti alimentari, dei prodotti per la casa…etc. ), i parchi acquatici, la caccia e la pesca, l’uso nelle pubblicità e nelle produzioni cinematografiche, i circhi, le sagre, i bioparchi, le strutture per la conservazione delle specie, il commercio illecito di animali, l’industria dell’abbigliamento. Come avrete notato non sto di proposito distinguendo tra ciò che è palesemente a favore del benessere degli animali e ciò che è sfacciatamente ad esclusivo favore dell’inte-resse umano. Sto cercando in questa sede di sottolineare il grado di complessità dell’ argomento.

L’intenzione è proporre una riflessione rispetto ad un aspetto abbastanza preciso: la diversa reazione che le persone manifestano empatizzando e simpatizzando con alcuni animali e contemporaneamente la totale indifferenza che mostriamo verso altri. In altre parole gli adulti (molto più che i bambini) nella nostra società tendono a trattare cani e gatti in modo particolarmente protettivo e affettuoso ed “altri” con incredibile indifferenza o addirittura con violenza, mostrando l’aspetto “schizofrenico” del nostro rapporto con gli animali. In questo articolo cercherò di esplorare le motivazioni alla base di questa discontinuità nella connessione emozionale. che io definisco “schizofrenia empatica”,  ispirandomi al punto di vista di Jane Goodall.

Ci sono animali con i quali l’uomo si è precluso ogni opportunità di comprensione reciproca negando loro persino la possibilità di mostrarci le loro potenzialità cognitive, emozionali e relazionali. Sono animali da sempre prigionieri di pressioni economiche, di pregiudizi, di credenze, di convinzioni e di mancanza di conoscenza e con i quali l’uomo alla fine si è precluso ogni opportunità di co-crescita.

Al primo posto di questa lista, almeno per il numero di soggetti coinvolti (in Italia parliamo di oltre 500 milioni di animali ogni anno) ci sono gli animali da allevamento: mucche, polli, conigli, pecore, capre, cavalli, maiali, quaglie, tacchini, faraone, anatre, oche etc.

Con questi animali emerge chiara la nostra disconnessione emozionale come se non fossimo in grado di riconoscere che sono in grado di provare emozioni, oppure noi non fossimo in grado di entrare in connessione con questi animali. La terza eventualità possibile è che semplicemente evitiamo di accettare la realtà.

La profonda distanza fisica e psicologica (separazione) tra gli uomini e gli animali “da fattoria” o “da reddito” si è sviluppata nella nostra civiltà post-contadina come se questi animali oggi fossero abissalmente lontani dai pet che abbiamo inserito nelle nostre case come parte delle nostre famiglie. Nella cultura contadina gli animali venivano allevati ed uccisi, però vivevano con l’uomo in ambienti forse etologicamente discutibili, ma comunque colmi di partecipazione. Gli allevamenti invece sono sempre più intensivi e sono assolutamente sconosciuti a chi mangia carne. Spesso ne adulti ne bambini hanno mai visto una chioccia protettiva e combattiva con i suoi pulcini, una mucca che allatta e coccola il suo vitello o un tacchino che fa la ruota mentre la sua pelle cambia colore da azzurro a rosso intenso, mostrando le sue emozioni in modo inequivocabile.

Parallelamente alla separazione si è sviluppata l’indifferenza. Si possono incontrare tir carichi di animali sulle autostrade e girare la testa dall’altra parte; si possono fare le smancerie ad un pulcino piumoso incontrato in una fattoria “didattica” ed ignorare la sensazione che percepiamo nel profondo, pur conoscendo la vita di un pollo che nasce in un alleva-mento intensivo. Una forma di vera e propria rimozione del problema. Una psicologo americano ha definito questa generale assenza di indignazione umana di fronte a problemi che investono grandi numeri: il collasso della compassione. La riflessione diventa spinosa in particolare per chi possiede un cane o un gatto, poiché ovviamente la carne contenuta negli alimenti che poi viene data come cibo è proveniente da allevamenti dove gli animali vengono allevati in modo intensivo/industriale.

Molti di noi vivono con cani e gatti, o con altri animali più o meno domestici, e li trattano come membri della famiglia. Eppure, mangiano gli animali provenienti dagli allevamenti industriali. Il 90% degli italiani mangia carne e prodotti di origine animale che proviene dalla grande distribuzione.

D’altra parte è il medesimo comportamento che emerge quando si ignora una gatto in difficoltà per strada (magari al lato della carreggiata ferito) mentre a casa il nostro micio è condotto di corsa dal veterinario al secondo starnuto. Sembra qualcosa di profondamente legato alla natura umana.

L’altro punto è un vuoto quasi totale di conoscenza etologica che circonda questi animali. Attribuisco parte della responsabilità agli etologi, che avendo il compito di fornire alle persone molte più spiegazioni, dovrebbero farlo con maggiore passione ed entusiasmo. Questi sono elementi essenziali per promuovere la curiosità e stimolare l’empatia, oltre che la conoscenza.

Sicuramente sebbene la rete, e in generale i media, abbiano aumentato le possibilità di ricevere informazioni eterogenee sulla vita all’interno degli allevamenti intensivi, c’è ancora molto lavoro da fare in questo senso poiché evidentemente la sola informazione “ricca di giudizi” molto severi non basta. La conoscenza delle condizioni di vita degli animali negli allevamenti intensivi o lager, come sarebbe più corretto definirli, sono realtà che necessa-riamente devono raggiungere la coscienza di tutte le persone, in particolare coloro che adottano la dieta onnivora non selettiva.

Nessuna persona sensibile accetterebbe di nutrirsi di carne sapendo che proviene da animali che hanno sofferto pene e maltrattamenti inimmaginabili ed inoltre che le carni ( così come le uova e il latte) provenienti da quelle strutture sono quasi sempre “arricchiti di farmaci” non segnalati come antibiotici, ormoni della crescita, antimicrobici etc.

Il fatto è le carni e i prodotti provenienti dagli allevamenti intensivi sono spesso discutibili in termini di qualità. E ciò non sfugge alla logica che quando il fine ultimo di una multinazionale è il profitto, la salute delle persone e il benessere degli animali scendono notevolmente sulla scala delle priorità. Sicuramente un animale vissuto pascolando oppure beccando in uno spazio libero, nel rispetto delle sue esigenze biologiche ed etologiche, è più sano oltre che più felice. Io credo inoltre che il terrore, la paura, l’angoscia e l’infelicità imprimano, nel corpo di ogni animale, una traccia chimica e una energetica, entrambe indelebili e che si trasferiscono quindi nel corpo di chi si nutre di questi alimenti. Dovremmo riflettere attentamente quando scegliamo cosa mettere nel nostro piatto e i quello dei nostri figli. Altri aspetti sostanziali sono relativi all’impatto sull’inquinamento ambientale, sottoprodotto di ogni tipo di allevamento e in generale con conseguenze in termini di furto di risorse verso le popolazioni in via di sviluppo. Entrando nel merito della corretta informazione, è necessario sapere che gli allevamenti intensivi sono capannoni in cui sono rinchiusi migliaia di animali in condizioni infernali. Privati di libertà di movimento, dell’aria e della luce del sole, rinchiusi in gabbie, costretti ad una alimentazione spesso innaturale, immunodepressi e, anche nei migliori casi, senza alcuna attenzione per le esigenze primarie (e non è possibile anche solo immaginare che siano rispettate le regole, dove esistono). I metodi di trasporto, sono altrettanto inqualificabili. Le condizioni di vita degli animali condannati sono tali da suscitare vergogna in ogni essere umano che abbia il più esiguo senso empatico.

Torniamo al punto: separazione, indifferenza e non-conoscenza sono i tre concetti chiave che creano l’alibi perfetto dietro cui gli uomini si nascondono per non essere consapevoli e quindi responsabili di cosa significa comprare la carne, il latte, le uova o in generale tutti i prodotti di origine animale destinati al largo consumo, senza preoccuparsi della loro provenienza.

In apparenza è una vera e propria forma di discontinuità emotiva e di totale mancanza di empatia. Però l’alternativa presentata è unica e suona più o meno così: “questi sono gli allevamenti intensivi, quindi l’uomo è un mostro, e se sostiene di amare gli animali, non deve mangiare carne e nemmeno prodotti di origine animale”. Evidentemente questo “modo” non funziona e forse è necessario cambiare prospettiva.

Proprio nella nostra inesistente relazione con le specie collegate all’allevamento, rispetto a quella talvolta morbosa con i tipici pet, si evidenziano le incoerenze più eclatanti. Le nostre parole e le nostre azioni sono spesso in disaccordo. Il cervello delle persone, secondo la teoria cognitivista, funziona su tre livelli. Uno è prevalentemente emotivo e affettivo e ci coinvolge su questo piano. Il secondo è puramente cognitivo e riguarda le informazioni che tratteniamo e quindi in un certo senso il giudizio e il pregiudizio che abbiamo riguardo ad un determinato argomento. Il terzo livello è comportamentale e riguarda gli atteggiamenti che teniamo verso una situazione o una circostanza. Se riusciamo ad armonizzare questi livelli il processo si avvia e la nostra mente accetta un progressivo cambiamento di prospettiva. L’obiettivo di un progetto culturale sensato e rispettoso delle persone e degli animali deve cercare una strada per attivare tutti e tre i livelli. Muoversi nell’ambito della ri-sensibilizzazione potrebbe essere una strada.

Servirebbe una dichiarazione da parte del mondo scientifico che chiarisca la posizione che oggi viene accettata e riconosciuta in ambito etologico sull’esistenza delle emozioni nel mondo, in termini di emozioni come la paura, la tristezza, la rabbia, la sorpresa, il dolore, l’attesa, la felicità, la serenità, l’entusiasmo? Credo aiuterebbe molto. Resta il fatto che l’esperienza nella vita reale ha dimostrato che anche gli scienziati con l’approccio più rigido in questo ambito (in laboratorio facevano test con gli animali), se a casa vivevano con un cane, non riuscivano a negare l’evidenza che quell’animale era depositario di una vita emozionale. Non possiamo certo immaginare di imporre a tutti di vivere con galline, muc-che e maiali per indurre un cambiamento culturale e convincere la persone che le emozioni in questi animali sono esattamente le stesse di quelle che accettiamo in cani e gatti. I punti salienti da tenere in considerazione sono due. Il primo è che migliaia di galline (maiali, conigli, tacchini, mucche, vitelli…) sperimentano durante la loro vita rinchiusi nei lager/allevamenti intensivi, un ventaglio di emozioni che si riduce a due sole sfumature: il terrore e il dolore. In queste inimmaginabili condizioni non esprimono la loro natura, le loro caratteristiche etologiche, la loro individualità, la loro gioia di vivere, la loro capacità di amare i cuccioli, di rotolarsi al sole, di correre, di crescere, di socializzare con altri animali tra cui l’uomo. Potemmo offrire l’alternativa di parlare, leggere, guardare video di fattorie dove le persone sperimentano la vita con questi animali che vivono in condizioni diverse da quelle degli allevamenti intensivi. Nei loro occhi e attraverso i loro racconti avremmo l’occasione di cominciare a conoscere questi animali e così avventurarci nel loro mondo sia dal punto della loro intelligenza che delle loro emozioni. In secondo luogo dovremmo organizzare percorsi di esperienza pratica condotti da persone competenti e appassionate, in strutture nate con questo tipo di finalità, per consentire a bambini e adulti di provare a vivere almeno una giornata con questi animali. Questo completerebbe il possibile iter verso una risensibilizzazione.

Questo tipo di processo prevede di promuovere forme di empatia che facciano leva su modelli positivi, con l’intento di evidenziare le potenzialità insite in relazioni equilibrate, sensibili, consapevoli e responsabili con gli animali invece che sottolineare la violenza. La volontà è quella di rimarcare gli effetti positivi che hanno su ognuno di noi i momenti di gioia e serenità trascorsi con gli animali in termini di umore, energia, benessere. Animali a cui non è mai stata offerta l’occasione di farsi conoscere. Un’opportunità persa dall’uomo di conoscere questi meravigliosi animali.

Dott.ssa Myriam Jael Riboldi