Energia nucleare, Fukushima non è la fine dell’industria atomica nel mondo

da | 12 Mar 2013

A soli due anni dalla catastrofe di Fukushima, la potenza nucleare mondiale è tornata a crescere: a fine 2012, i reattori in attività sul pianeta sono stati 437, due in più rispetto all’anno precedente. A rivelarlo è un rapporto della International Atomic Energy Agency (Iaea), per cui il disastro atomico giapponese ha comportato un rallentamento della crescita nucleare, invece che la fine dell’industria atomica. Lo scorso anno sono stati tre i nuovi reattori connessi alla rete (link grafico), due quelli tornati in funzione dopo le riparazioni necessarie, e altri tre quelli dismessi. Una crescita modesta, insomma, che ha portato molte associazioni ambientaliste a vedere nello studio dell’Agenzia Onu più un tentativo di supportare le lobby atomiche che altro.

Rischi di cancro alla tiroide aumentati del 70% per le future donne di Fukushima (dati Oms); costi per un decommissioning (smantellamento degli impianti nucleari, ndr) non ancora iniziato di oltre 100 miliardi di dollari; decine di migliaia di persone evacuate che non possono ancora sperare di rientrare in casa propria: in Giappone i problemi sono tutto fuorché risolti. Nonostante questo, a due anni da uno dei peggiori incidenti nucleari di sempre, l’atomo sembra tornare alla carica, sia nel Paese del Sol levante che nel resto del mondo. La potenza effettiva, infatti, lo scorso anno è aumentata a livello globale di 3,7 gigawatt, portando il totale a 372,5 gigawatt. Un aumento esiguo, provocato più dalla rimessa in funzione degli impianti riparati che dall’avvio di quelli nuovi. Che, però, non riduce l’ottimismo della Iaea sul futuro dell’industria atomica: entro il 2030, scrive infatti l’Agenzia, la crescita della capacità nucleare mondiale sarà compresa tra il 23 e il 100%. Ma sarà davvero così? Di sicuro in questi due anni c’è chi ha fatto scelte decisamente contro-corrente. Paesi come gli Stati Uniti, ad esempio, hanno deciso di tornare a costruire reattori nucleari dopo ben 35 anni di pausa. Altri, come la Bielorussia, nazione su cui si riversò il 70% del fallout radioattivo di Chernobyl, hanno invece deciso di dotarsi del loro primo impianto atomico.

C’è però da considerare che altri Paesi, come la Svizzera e la Germania, stanno seriamente perseguendo il definitivo abbandono dell’energia atomica. Da quel terribile 11 marzo 2011 a oggi, infatti, Berlino ha già dismesso 8 reattori, e si appresta a fare lo stesso con i rimanenti 9. A svantaggio dell’industria nucleare, del resto, non ci sono solamente le questioni irrisolte dei rischi e della sicurezza, ma anche quella fondamentale dei costi. Il caso più eclatante? Quello dei reattori nucleari francesi Epr (gli stessi che dovevano essere costruiti in Italia), il cui costo in Finlandia ha raggiunto gli 8,5 miliardi di euro, contro i 3,2-3,5 con cui erano stati proposti. Aumenti continui e cospicui che, recentemente, hanno portato anche l’italiana Enel a decidere di uscire dal progetto che la vedeva coinvolta nella costruzione della centrale nucleare di Flamanville, in Francia. “In tutti i Paesi si registra una messa in mora dei programmi nucleari, tranne che in Cina, dove comunque c’è un rallentamento dei programmi – afferma Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia – mentre nel Regno Unito i francesi di Edf chiedono sussidi per costruire nuovi reattori con un acquisto garantito dell’elettricità a un prezzo doppio rispetto alla media di mercato per 40 anni”. “Questo non ha a che fare con Fukushima – aggiunge Onufrio – è il segno di un “sogno che è fallito”, come lo definisce l’Economist, che ritiene il futuro del nucleare come sempre più marginale”.

Andrea Bertaglio

Fonte: ilfattoquotidiano.it