Massimo Angelini vive tra Savona e il Minceto di Ronco Scrivia. Dottore di ricerca in Storia Urbana e Rurale, è autore di saggi dedicati alla storia delle mentalità, ai processi di formazione delle comunità locali fra antico regime ed età contemporanea, alla tradizione rurale, alla cultura della biodiversità, alle comunanze e alle titolarità collettive. Per trent’anni si è interessato al recupero e alla tutela delle varietà ortive tradizionali. Coordina la rete nazionale Semi Rurali.

Oggi si occupa soprattutto di antropologia filosofica e studi sul sacro e sulla concezione simbolica del mondo.

Nella esposizione, al convegno su Decrescita Felice ed Agricoltura, di Portogruaro, (vedi http://mdflivenzatagliamento.webs.com/seminario-agricoltura ) Angelini  parla delle radici delle parole, una riflessione profonda inedita e anomala, in un mondo dove le grida sovrastano i sussurri. Egli usa linguaggi, toni e sfumature d’altri tempi. Angelini non è solo uno scrittore, un ricercatore e un coordinatore di reti, ma anche e soprattutto una persona in grado di proporre nuovi concetti, strutturali e fuori dal tempo, in quanto universali onnicomprensibili,  per un “nuovo” paradigma del mondo rurale.

Idee e concetti vecchi come il mondo, in realtà, ma seppelliti dal tecnicismo pervadente del secolo breve, secolo nato all’insegna di venti di follia e dai quali stiamo cominciando a comprendere le conseguenze ora, sullo zerbino del XXI mo secolo.

“Nuovi” concetti dimenticati nella convulsa ricerca del nuovo, dell’efficiente, nell’allucinazione collettiva della modernità. Significati profondi, ma immersi nella formalina dell’oblio delle cose vere e reali, catalogati dalla nuova era della macchina come  “vecchio” e non vendibile perché sorpassato dal “nuovo”.

La corsa verso il consumo di tutto ciò che è materialmente tangibile, provoca, come conseguenza inevitabile, la rimozione del valore profondo di ciò che è invece impalpabile, come i concetti, il linguaggio.

Una lingua che ha perso il senso profondo delle parole. Coltura (e così cultura), nell’intimo del suo significato, è cosa fa crescere, cosa eleva, cosa onora.

Dunque Angelini si pone la domanda: “come restituire senso meno ambiguo e più certo alla parola “cultura”?  Recuperare la radice della parola attraverso una regressione etimologica che ne racconti l’origine, è utile a ritrovare senso e significato.

La parola cultura e coltura condivide la stessa radice di altre parole che hanno la stessa desinenza, come “ventura”, “futuro”, “nascituro”, “jattura”, come la stessa parola “natura”, così “cultura”. Continuando a seguire il ragionamento di Angelini possiamo dire che tale parola deriva da un participio futuro, forma usata in latino ma ignota alla nostra lingua.

Il participio futuro indica ciò che è per essere, che è imminente, che non è ancora, eppure già partecipa dell’essere, indica ciò che è prossimo e già se ne intravede l’abbozzo, la traccia, il segno.

La matrice che genera la parola “cultura” è un verbo latino, còlere, che significa innanzitutto coltivare, anche nel senso figurato di avere cura, trattare con attenzione o con riguardo, quindi onorare.

La parola cultura nasce dal nominativo neutro plurale di colturus, participio futuro di còlere. Il participio futuro ha comunemente un valore finale e un significato attivo. Dunque, come “ventura” si riferisce a ciò che sta per accadere, e “nascituro” a chi sta per nascere, così sono cultura le cose prossime alla coltivazione, a fare crescere, a onorare. Se dal participio futuro di còlere (colturus) nasce “cultura”, da quello passato (coltus) nasce “culto”, ovvero il terreno dissodato e preparato, l’onore reso e definito secondo la regola sacra: in sanscrito ŗta, da dove, attraverso il latino, provengono le nostre parole “ruota”, “retto”, “diritto” e “rito”.

La parola còlere deriva da un’antica radice, kwel, che vuole dire “ruotare”, “girare”, “camminare in cerchio”, dalla quale sono gemmate parole tra loro coerenti attestate nelle diverse lingue indoeuropee: come nel sanscrito cakram (“cerchio, ruota”), nel greco kyklos, (“cerchio”); nello stesso còlere; nell’inglese wheel (“ruota”). Attraverso la radice kwel, riconosciamo in còlere il significato di “coltivare” nel senso originario di “girare la terra”, “dissodare”; nel tempo, per l’intima natura dell’attività agricola, questo primo significato diventa “avere cura”, “fare crescere”.

Da kwel a còlere dunque: forse si spiega proprio così la nascita di un senso del tempo circolare, attraverso l’inizio della coltivazione della terra e una nuova consapevolezza del cerchio delle stagioni.

Le parole non sono contenitori neutri di significati, non sono indifferenti al loro contenuto, afferma Angelini. L’occidente urbano ha  depotenziato il significato delle parole “cultura” e “culto” dove il rivolgimento della terra e la circolarità del tempo spesso, sempre più spesso, non sono più che astrazioni di ricordi altrui.

Da questo ragionamento, Massimo Angelini trae due osservazioni.

La prima riguarda il termine cultura, la quale non va confusa con l’ accumulazione di dati, con quell’erudizione che ha il proprio fine in sé stessa, nella ostentazione sociale o accademica, nella espressione di collezionismo delle informazioni, guscio di un sapere ridotto alla sua apparenza, gioco di riconoscimento tra sodali di una conventicola, perché è animata dall’intima tensione a fare crescere, a elevare, e affonda la sua origine nel culto.

La cultura ha il suo fondamento teleologico nel culto e porta a crescere, a elevare; come il culto, con il quale condivide la stessa radice, si esprime come atto simbolico e perciò tende ponti fra le persone e tra i mondi; non si occupa di cose inutili, di inezie senza anima, non gioca allo specchio, perché, nata da un verbo attivo, trova il suo compimento in cosa o in chi ne è destinatario.

La seconda flessione di Angelini  riguarda l’intima natura della parola agricoltura rivelata dalla sua origine. Si può definire agricoltura quella pratica avente a che fare con ciò che è prossimo ad avere cura, a fare crescere, ad onorare. Agricoltura come pratica indispensabile all’umanità ”profondamente legata al culto e che da esso trae significato”.

Dunque, la conclusione logica riguardo “quell’attività che si esercita sulle pianure del mondo, che sfigura la terra e la porta verso il deserto, che mortifica la diversità, che produce cibo corrotto, che intossica chi lo consuma e chi quella terra lavora, non può propriamente essere chiamata agricoltura.

Si tratta, infatti, di un’attività erosiva, estrattiva, tesa al profitto, a volte speculativa, che sarebbe più chiaro e, per il valore delle parole, più rispettoso chiamare agriusura e pensarla semplicemente – così è oggi”

Un termine, agricoltura estrattiva, di immediata comprensione entrato subito nel linguaggio dei relatori del convegno a Portogruaro su Decrescita Felice e Agricoltura.

Un termine forte, una riflessione alta grazie alla quale attivare il dibattito ed elaborare nuovi modelli, più vicini all’uomo, maggiormente rispettosi della nostra madre terra e del suo grembo.

Un Grazie ad Angelini per questo lavoro e per la vicinanza al Movimento per la Decrescita Felice

Estratti e riflessioni di Francesco Badalini (Mdf Verona), 26 aprile 2013